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Il buio oltre la Peltz

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Buio come quello che nasconde le sorprese che mi riserverà questo 2016 che sta per cominciare (orientisticamente parlando). Da concorrente, non sono mai stato un grande estimatore delle gare mass start, e non ho mai amato granché le gare in notturna. “Mass start” significa, al mio livello, rimanere subito staccato dal resto del gruppo e fare una gara solitaria con il distacco che si dilata ad ogni lanterna ed ogni centinaio di metri. “Notturna” significa privilegiare un aspetto tecnologico dell’attrezzatura del concorrente che, in assenza di un calendario specifico e di qualche convocazione per la Langa Natta della Tiomila, non giustifica la spesa per un armamentario in grado di illuminare a giorno un ettaro di bosco…

Eppure da qualche tempo la mia piccola Peltz campeggia in casa e la fa da padrona. Ho comperato le pile nuove, quelle della marca importante!... mica quelle della cineseria all’angolo; ho fatto le prove con bandana \ senza bandana \ con fascia di pile per verificare che rimanesse in ognicaso ben adésa al capoccione in qualunque condizione atmosferica. Ho verificato la tenuta con e senza gli occhiali. Ho persino preso parte al bellissimo allenamento organizzato dalla coppia TodePoz al Parco della Vernavola di Pavia! E qui ho potuto toccare con mano che, luminarie o non luminarie, gente come Luigi Giuliani mi darebbe un giro di distacco, anche su una distanza di 400 metri anche se dovesse correre con la palla di ferro ad entrambi i piedi.
Però proprio alla Vernavola ho riscoperto la gioia di divertirmi come non succedeva da parecchio tempo. E non è mica per via della Peltz; quella illuminava il giusto, e se non fosse stato per la luce di Alberto Grilli forse sarei rimasto ancora lì a cercare le lanterne! Sarà che sono passati poco più di tre mesi dal 7 novembre 2015, che ho sentito come un grande punto di svolta nella mia vita (anche se io quel giorno non ho fatto praticamente niente). Sarà per via del fatto che da quel giorno non ho più bevuto un solo caffè, ho smesso di mangiare porcherie, ho cominciato ad allenarmi un pochettino , poi un po’ di più, poi un po’ di più ancora. Ho perso 10 chili… (ma, per la gioia dei miei fan sparsi per il mondo, continuo a rimanere impiegato panzottello) e infine ho cominciato ad imbottigliare tutta quella voglia di avere ancora tanto orienteering davanti a me. Magari persino nello spazio buio o poco illuminato dalla mia piccola Peltz, ma chi se ne importa?

In questi giorni sono andato a fare i sopralluoghi per la MiPa: mi sono fissato di disegnare una Long al Parco Lambro (la lunghezza in linea d’aria del percorso Agonisti è di 6,3 km…) e di fare una uscita di almeno 15 chilometri ogni 3 giorni, al ritmo della musica del mio Ipod. Ho persino comperato la corda per saltare, per fare esercizi: mi è sempre piaciuto saltare la corda, come Stallone in Rocky o come i ragazzi del team Canada nell’esercizio di Double Dutch che li ha laureati campioni del mondo. E infine, quando ho guardato il calendario delle gare in Lombardia, mi sono iscritto serenamente alla categoria MA della notturna al Parco Lago Nord (che tanto vincerà Tobia Pezzati… ma quanto sei cresciuto Tobia!) e della diurna di Calò del giorno dopo. Senza pretese di finire né l’una né l’altra, ma questa volta veramente solo per vedere l’effetto che fa. 

Quest’anno, ad ogni gara, andrò avanti fino al punto in cui le mie gambe mi diranno che c’è divertimento; magari si convinceranno anche loro che, con un po’ più di tonicità e con 10 chili in meno da portare ad ogni passo, si può arrivare più lontano o, almeno come è successo alla Vernavola, si può rimanere per 24 lanterne a contatto con un amico che, di solito, non riuscivo nemmeno più a scorgere già all’altezza della delayed start. Forse il buio del Parco Lago Nord mi aiuterà a non guardare troppo lontano e farmi spaventare dalla lunghezza che ancora mi separa dalla linea del traguardo, dalla prossima montagna da scalare per raggiungere una lanterna che difficilmente si farà trovare, dai compagni di avventura che mi sfilano accanto chiedendosi chi ancora me lo faccia fare…


Stavolta il buio mi viene in soccorso. Dai che domani si comincia! In bocca al lupo a tutti i compagni di avventura!

Di notte e poi di dì

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Regola aurea numero 1 del blogger: ci sono cose che non bisognerebbe mai scrivere sul proprio blog. Mai. Anche se ci credi, anche se ci tieni, anche se ti sembra la cosa più giusta e più bella da scrivere. Mai farlo! Ad esempio… MAI scrivere “ho vinto la tal gara con un vantaggio di 5 minuti sul secondo… però no, non ditemi troppe volte che sono figo, che sono il migliore e che Robert Downey Jr. sembra la mia controfigura brutta”. Altro esempio… MAI scrivere “ho tracciato un percorso fantastico che se ci fosse stato Sgiorsgiù avrebbe apprezzato anche lui… pur essendosi perso!”. Non lo scrivo mai, e mica perché io non sia più bello di Robert Downey Jr. e più tecnico di Sgiorsgiù: solo che non si fa.

Solo che ogni tanto ci casco! E, sempre ad esempio, quest’anno avevo scritto che nel mese di gennaio mi ero allenato come poche volte prima di allora, che avevo perso di netto una decina di chili e che per questo motivo mi sento più in forma e più tonico. Non avrei dovuto farlo! Chi ha letto, deve aver pensato che tra le righe io stavo dicendo “quest’anno non ce ne è più per nessuno! Adesso vengo lì e vi faccio il c…o!”. Ma non era questo che volevo dire. Solo che le mie parole sul blog non devono essere venute fuori tanto bene, e infatti me ne sono accorto subito.

Che “subito” vuol dire “prima ancora del primo clear&check della stagione. Mancavano ancora 5 minuti alla partenza della notturna al Lago Nord, ed un tale mi si è avvicinato in compagnia di un paio di tizi che non ho identificato perché era già buio pesto anche ben al di qua della siepe (in memoriam di Harper Lee, una delle più grandi scrittrici di sempre, forse la più grande). La frase che è seguita sarebbe piaciuta ad Harper Lee, ma anche a Groucho Marx: “Beh..? Non gli fate i complimenti per tutti i chili che ha perso e per quanto è allenato??? E pensare che se non lo avesse scritto sul blog, a vederlo non mi sarei nemmeno accorto che si è messo in forma!

SBADABEM! Come buttare alle ortiche tutta la fatica di questi mesi… Del mio interlocutore dirò solo che risponde all’appellativo di “Mr. President”, che ha vinto oro argento e bronzo in staffetta M35 negli ultimi tre anni, e che è il terrore degli addetti stampa che non ricordano mai se c’è o meno la “i” nel suo cognome! Fatti questi convenevoli, la gara in notturna al Lago Nord è iniziata in un clima di grande elettricità, tensione e concentrazione come nemmeno Schwarzenegger quando va a dare l’assalto da solo all’isola dei cattivi. Concentratissimi a tal punto che ad un certo momento, prima del lancio degli MA, si è sentito qualcuno dire “Se a voialtri non dispiace, saremmo quasi pronti per dare il Via! E accendete quelle luci…! Almeno per la Vostra sicurezza!!!” perché eravamo in generale tutti quanto talmente scaxxati che la metà di noi manco avevano acceso ancora la luce frontale. E pensare che qualcuno è riuscito nell’impresa di non riuscire ad accenderlanemmeno dopo (ma non sono stato io).


La mia gara è stata senza infamia e senza lode, ma almeno sono arrivato al traguardo sano e salvo nonostante la mia luce frontale facesse competizione a malapena con la proverbiale candela sul piattino. Nonostante tutti i miei supposti allenamenti, mi sono trovato subito in coda al gruppo e solo per caso mi sono accorto che già alla seconda lanterna ero impegnato nel “phi-loop” e quindi che dovevo guardare bene dove dovevo andare. Mi sono impigliato in qualunque ramo vagante si frapponeva tra me e la lanterna successiva, ed è stato con una certa sorpresa che dopo il passaggio sopra la tangenziale mi sono accorto di essere superato di gran carriera da qualche ritardatario che evidentemente si era perso sulla sequenza del phi-loop.


Al cambio carta, mi sono trovato da solo nelle tenebre ma con una scelta (penso) azzeccata, cioè passando tra i due laghetti, ho recuperato terreno almeno sul gruppetto dei penultimi in modo da avere compagnia nel fare le lanterne posizionate sul pendio. Scelta azzeccata… in modo del tutto casuale! Infatti il ponte sul lago con le successive scalette non l’ho neppure visto!!! Sono poi rimasto di nuovo da solo nel trasferimento verso l’ultimo loop, dove ho mancato clamorosamente l’attacco alla 23 il che mi ha costretto a vagare per un minuto abbondante, senza riferimenti e con la pila frontale al lumicino, nei prati vicino agli oggetti particolari. Chiudo la gara in circa 43 minuti abbondanti, ma sono contento perché sono rimasto appena al di sotto del doppio del tempo di super-Tobia. Il che, pensando alle condizioni nelle quali ho chiuso la stagione agonistica scorsa, è roba da quasi miracolo.

Dopo sole 15 ore era prevista la gara long distance di Calò, che sarebbe sempre uno dei paesini che si affacciano sulla carta delle Valli Pegorino e Cantalupo… stavolta però la carta era quella dei “boschi di Calò”. Il fatto di correre una gara sprint\middle la sera e di ripetermi il giorno dopo in MA su una distanza lunga non sarebbe stato proprio nelle mie corde (e nelle mie gambe) solo qualche mese fa; tuttavia qualche allenamento deve essere servito a darmi una carica sufficiente per almeno due uscite consecutive, e quindi è stato con una certa punta di fiducia che al mattino di domenica mi sono alzato per recarmi al Palazzetto di Besana Brianza per la seconda gara del weekend… dove sono stato il primo in assoluto ad arrivare, accolto alle 8.40 dal “ma sei già qui?” di Elena Poli. E’ ovvio che il concetto di “primo” me lo posso giocare quando si tratta di qualunque cosa che non sia la gara in se stessa!

Indossate le ventose che mi tengono ben adéso all’ultima posizione degli MA, ho affrontato la gara più con la curiosità di quello che vuole vedere “se ce la può ancora fare a finire in un tempo decente” che con le velleità di guadagnarmi lo scalpo di qualche giovincello appena approdato nella categoria assoluta (sono tornati tutti a casa con i loro capelli…). Sotto un cielo bigio e umido, la gara è cominciata con il primo problema di giornata, che è sempre indovinare dove hanno cacciato il triangolo di partenza! Infatti la mia partenza è stata così: prendo la carta, cerco un cerchietto con un numero progressivo che non abbia due cifre, identifico il punto 6 in alto a destra e mi metto a cercare il cerchietto lì intorno… arrivo alla 5 e cerco di seguire la linea fino al punto precedente, ma poi mi convinco che sto cercando a vuoto. Anche perché la tratta per un po’ si segue, ma poi il “4” è confuso in un guazzabuglio di verdi privati, linee ferroviarie, simboli di cimitero ed edifici. Dopo un po’ becco la “3”, risalgo per cercare la “2” che spicca in una delle rare aree di bosco, incrocio gli occhi fino ad arrivare alla “1”… e da lì? E da lì?? E da lì boh!!!



Più per fortuna che per anima, alla fine identifico un barlume di triangolo rosso di partenza e decido che il punto 1 è di una banalità sconcertante: scendo lungo il sentiero, quando si divide proseguo diritto come se niente fosse, mi butto sul nasone verso il bivio dei ruscelli e la prima cosa che vedo è la fettuccia bianca che identifica il punto, che pende per un buon 30 centimetri dal ramo di un albero. Ecco: avevo la curiosità di vedere, una volta pubblicati gli split times, di quanto io fossi già rimasto indietro rispetto a tutti gli altri dopo quel popò di ricerca sulla mappa e per arrivare al punto 1 che tutto sommato è proprio banale. Quando ho letto gli split sono caduto dalla sedia: tredicesimo tempo! In pratica, il mio punto migliore di tutta la gara!!! Mi resterebbe la curiosità, se qualcuno volesse essere così gentile da spiegarmi, di capire dove cavolo sono andati tutti quelli che hanno preso 1, 2, 3 e anche più minuti dal sottoscritto su quella tratta…

Il resto della gara non è complicato. Per lo più si tratta di spostarsi lungo strada\sentiero fino al punto più comodo per arrivare al punto, senza stare a farsi troppi problemi mentali per via del fatto che si sta per il 90% del tempo su sentiero. Qualche difficoltà solo in uscita dalla 9, ma perché il sentiero è ingombro di alberi caduti, e alla 14 dove non riesco subito ad identificare una buca ben più camuffata di quel che può sembrare in mappa. Arrivo al traguardo in 103 minuti circa, ben al di sotto del tempo massimo di gara di 120 minuti che, solo a leggere il comunicato gara e la distanza e ripensando alle mie ultime uscite del 2015, mi sembrava persino irraggiungibile.

E sono persino stato baciato dal bosco, come si evince chiaramente dalla foto scattata al traguardo!


Tutto sommato un weekend che non mi aspettavo e che non mi ha lasciato particolari straschichi… si, ok, ho già perso 4 unghie dei piedi(per gli amanti dell’orrido: secondo e quarto dito del piede sinistro, secondo e terzo dito del piede destro) ma rispetto a certi inizi di stagione degli ultimi tempi, posso baciarmi i gomiti e guardare con una certa fiducia ai prossimi appuntamenti!

Ma che MOO!

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Il titolo probabilmente potrebbe rappresentare qualcosa solo per coloro che hanno anche solo vaghi ricordi delle hit di Raffaella Carrà dei primi anni ’70. Ma da domenica scorsa, il titolo è sicuramente comprensibile a tutti coloro che hanno preso parte al MOO Challenge di Milano, competizione di ori-boh? Troppo particolare per entrare nei vari calendari federali, con orchestra diretta dal maestro Remo Madella. Di che cosa si tratta, si chiederanno tutti i lettori, visto che non ce ne è traccia nei sito Fiso? (ma, essendo questo un blog orientistico, ci sono forti probabilità che si tratti di qualcosa legato all’orienteering..). Gli ingredienti sono molto semplici. Si prendono un sacco di cartine (alla fine saranno ben 9!). Si prendono squadre di orientisti, di semi-orientisti (cioè squadre composte da un orientista e da una vittima sacrificale), di podisti con particolare predisposizione alla “voglio essere figo come Indiana Jones!”, poi famiglie con bambini, bambini senza famiglie e chi più ne ha più ne metta. Poi li si manda in giro per Milano a caccia di punti di controllo. Per rendere la cosa ancora più memorabile, i punti di controllo si possono raggiungere anche con l’ausilio dei mezzi pubblici ATM (ma alla fine la mia squadra metterà nelle gambe parecchi chilometri più di 20!) e non sono le classiche lanterne bianche ed arancioni, bensì quesiti a livello di Street-O-View, o NASA o GCHQ (Her Majesty's Government's Signal Intelligence)…

Per spiegarlo in altre parole, ad uso di coloro che si fossero messi in visione ed all’ascolto su questo gnocco minerale chiamato Pianeta Terra proprio adesso ma avessero vissuto la Milano di fine anni’80, diciamo che si torna a livello dei mitici “Border Trophy”organizzati da Radio Popolare, che solo chi ha passato un’ora della notte a contare le traversine del tram attorno al cimitero di Musocco può capirne il fascino: il Border Trophy era infatti una caccia al tesoro (ho usato le parole “caccia al tesoro”? su un blog orientistico???) radio-comandata in una epoca nella quale non c’era internet e gli smartphone, durante la quale se volevi trovare una informazione dovevi coinvolgere quanti più amici possibili disposti ad essere svegliati nel cuore della notte (dalla cabina telefonica) per trovare le risposte a qualche quesito o per trasportare un televisore in qualche via remota della città… e occorre considerare che i miei amici erano tutti della mia età, poco più che diciottenni! Quindi vivevano ancora con i genitori i quali, al trillo del telefono di casa alle due di notte, prima rispondevano incaxxati come bestie e poi passavano direttamente agli insulti pesanti (verso il chiamante e verso il figlio degenere).

Comunque quel genio in azione di Remo Madella ha congegnato un MOO Challenge che lo mette immediatamente in prima posizione nella classifica delle “gare TOP” del 2016 (con forte possibilità di mantenere primato o almeno podio fino al 31 dicembre) e dei desideri orientistici 2017. Nonostante infatti in gara io mi sia sciroppato (non da solo, come si leggerà…) parecchi chilometri - più di 20 - nelle gambe, nonostante io abbia preso in zucca il diluvio per più di 5 ore (grazie meteo di Milano grazie), nonostante il mio cervello - a furia di risolvere quesiti e pensieri laterali - non riuscisse più a pensare a qualcosa di lineare… devo ammettere che il momento più difficile della giornata è stato quello appena prima di uscire di casa, quando ho dovuto scegliere l’abbigliamento più adattoper affrontare il Challenge: jeans da passeggiata all’aperto o abbigliamento tecnico da maratoneta? Il problema è nato nel momento in cui, dopo essermi iscritto al Challenge con PLab (il che avrebbe assicurato alla squadra un cervello di primissimo ordine – il suo - nel risolvere qualunque tipo di quesito, anche di tipo tecnologico visto che una certa manualità nell’uso dello smartphone era necessaria, mentre io “I’m from the past”), sono migrato nottetempo nella squadra mista italo-slovena con Rusky che, ricordo a tutti, prima di attraversare il confine di Fernetti si era preso il lusso di vincere due campionati italiani a staffetta. E quindi sarebbe stato lui a dettare il ritmo gara e le redini della parte orientistica.

Già… ma come avrebbe affrontato il Challenge l’amico Rusky? In modalità tranquilla da “passiamo una giornata in giro per Milano e vediamo che succede” o in modalità competitiva stile “coltello tra i denti, e chi si para tra noi e la soluzione di un quesito viene piallato all’istante”? Per non saper né leggere né scrivere, a costo di fare una figura di tolla al ritrovo, mi sono messo in modalità maratoneta. Ho sorriso, avvicinandomi al ritrovo, nel vedere che anche Rusky si era messo i suoi pantaloni tecnici da corsa… ho sorriso meno nel vedere che al posto di scarpe ultraleggere da corsa indossava un paio di scarponcini che a me, al solo indossarli, avrebbero fatto venire le vesciche! Breve scambio di contumelie tra noi, una occhiata al diluvio che non smette ed al fondo del terreno che in alcune zone minaccia fango… e alla fine Rusky cede e indossa le scarpe da corsa, seppure mantenendo il suo atteggiamento da “si parte piano, che la giornata è lunga”. Ed io a queste parole immediatamente ritorno alla memoria alla primissima O-Marathon degli Altipiani, quella rimasta famosa di Passo Coe, quella nella quale Rusky ed io eravamo partiti nelle retrovie al grido di “partiamo piano, e poi insultiamo tutti quelli che raccoglieremo lungo il percorso” (Rusky raccattò me, sfinito, a due terzi di gara, e lì si che volarono insulti… ed è stato anche grazie a quelli che poi sono arrivato al traguardo).

Per mia fortuna, abitando nello stesso quartiere di Remo che ha avuto il buon naso di posizionare partenza ed arrivo molto vicini a casa sua, non devo sbattermi molto per arrivare al ritrovo. Ma a conti fatti il chilometro fatto per arrivare al ritrovo, alla Chiesa Rossa, sarà l’unico passaggio noioso del MOO Challenge. Dopo un briefing efficace e significativo, siamo pronti per partire! Via!!!






(parco della Chiesa Rossa)


Da lì’ ci si sposta nel fango del Parco del Ticinello… 


(parco del Ticinello – primi quintali di fango che si attaccano alle scarpe)

… ed è il momento di affrontare il primo trasferimento sulla linea Verde della metropolitana.

(carta ATM – appositamente realizzata per il MOO)

La sorpresa di trovare sullo stesso vagone i grandi favoriti Viola e Alessio, e poi la nostra scelta è quella di affrontare la messe di punti della zona di Piazza Gae Aulenti e Stazione Garibaldi.



Attorno alla Stazione Garibaldi, piccolo shock: stiamo correndo come bestie ma siamo sempre alle calcagna di PLab e Bibi, che forse non corrono molto ma risultano evidentemente molto efficaci nella parte “quesiti”. Da Garibaldi, ci buttiamo a nord sulla linea Lilla: Bicocca e quartiere Greco sono praticamente deserti alle 11 del mattino di una domenica di diluvio, e sembra di correre in una ghost town postnuclearementre attacchiamo scalinate, parchetti, la malefica Collina dei Ciliegi (che mi dovrò sorbire in salita per due volte), i passaggi sopra la ferrovia ed i pertugi dove i writers ed i graffitari hanno lasciato tracce del loro passaggio che dobbiamo scoprire nei quesiti posti dal regista di tutto il MOO.


Affrontiamo Greco in corsa, al massimo delle nostre possibilità, perché non vogliamo mancare il punto bonus a Porta Romana dove arriveremo con 25 minuti di anticipo rispetto alla chiusura del cancello orario e con pochi minuti di vantaggio sui diretti inseguitori – la squadra di Giorgio e Chiara Gatti. Nuovo trasferimento verso il centro di Milano in metropolitana, dove saliamo grondanti pioggia, sudore, fatica e un certo afrore dato da una competizione che supera ormai le tre ore di corsa, cosa che provoca il pubblico disprezzo di alcuni passeggeri (quelli italiani fighetti che vanno in centro a fare colazione tardi) ma anche i commenti sorridenti di qualche turista straniero che si trova improvvisamente coinvolto in una cosa che non ha sicuramente trovato sulle guide turistiche.

Zona Duomo ci vede partire in caccia come degli Stukas, nonostante i tentativi di fermarci sia da parte di qualche intervistatore improvvisato (sotto i portici di Piazza del Duomo) che di una macchina della Polizia Locale che improvvisamente vede sfrecciare davanti a sé in Piazza Dante sotto la pioggia incessante due ossessi con gli zaini (la macchina ci seguirà fino all’ingresso di Foro Bonaparte, dove si corre… e si corre… e si corre ancora!). Ogni tanto percepiamo la presenza di qualche altro concorrente, anche se siamo ormai sparsi per tutta la città; l’ultima voce che ricordo sono i complimenti e gli incitamenti di due squadre che, in pieno Foro Bonaparte, vedono il mio foglio delle risposte ai quesiti praticamente pieno, oltre alla mia tenuta da naufrago (da tanto che sono fradicio) mentre loro girano con gli ombrelli…

L’ultimo assalto è quello in zona Darsena: scelta di percorso per risalire verso la darsena da Viale Gorizia e non da Via Vigevano, e poi alla grande sugli ultimi quesiti fino ad arrivare in Piazza XXIV Maggio, dove vorremmo prendere il tram numero "3” per riportarci in zona arrivo.

E qui succede la cosa che, a conti fatti, renderà ancora più memorabile il Challenge: il “3” è bloccato! (lo so ben io che lo prendo tutti i giorni per andare in ufficio). Dopo un attimo di scoramento, visto che siamo in gara da 4 ore e 20 minuti e siamo stanchissimi, Rusky prende la decisione che ci regalerà alla fine una incredibile quinta posizione in classifica generale: se il tram è bloccato, possiamo correre gli ultimi chilometri verso il ritrovo cercando di rimanere DAVANTI al tram sul quale sono presumibilmente bloccate altre squadre (la previsione si rivelerà azzeccata). Quindi via di corsa: alla pensilina di Via Lagrange, il nostro vantaggio sul tram è di 9 minuti, che restano 9 alla prima pensilina di Via Meda, che poi diventano 8 e poi 7 all’attraversamento della circonvallazione.
Il tram guadagna terreno, lo zaino di Rusky decide che ne ha abbastanza e si apre in due costringendoci a correre con parte dell’attrezzatura in mano… alla pensilina di Via Bonghi abbiamo ancora 6 minuti di vantaggio sul tram, che restano 6 all’attraversamento dell’ultima circonvallazione. Da lì in poi è l’ultima fatica e le ultime staffilate nei muscoli, dovute anche alla mia pessima scelta nell’ingresso in zona arrivo (ormai con il cervello cotto): mi butto prima a sinistra, seguito fiducioso da Rusky, e poi dopo un centinaio di metri inversione a U e ci precipitiamo sul lato opposto. Alla fine il responso sarà una quinta posizione in 4 ore 3 36 minuti di pazza competizione!

Che dire alla fine di questa avventura? Complimenti a Remo! Complimenti e un “a ritrovarci” ad una prossima edizione. Complimenti anche a Rusky che mi ha trascinato attraverso tutta Milano, io in stile peso morto o quasi, per un tempo nel quale avrebbe potuto tranquillamente finire una maratona. Complimenti a Rusky e grazie per il divertimento, la compagnia e le emozioni! E complimenti anche a tutti quanti gli altri partecipanti di questa edizione del MOO Challenge. Ci vediamo alla prossima edizione.

MI-PA 2016: … and the Oscars go to…

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Dovrei riprendere il filo del discorso della gara di domenica scorsa a Casorate Sempione prima che il fine settimana della Coppa Italia prossima ventura abbia il sopravvento: una gara, quella di Casorate, bella e ben studiata, fatta proprio come piacciono a me le gare middle (tanti punti, tanti rimbalzi da una parte all’altra) e che infatti ha avuto per me un esito che seppur non brillante nella classifica (ma non poteva esserlo) mi ha visto arrivare a ridosso di amici che di solito mi tirano giù a manciate i quarti d’ora di distacco.

Tuttavia la conclusione, sabato 12, della MiPa 2016 mi obbliga ad una digressione su quella che ancora una volta è stato il fiore all’occhiello delle organizzazioni dell’Unione Lombarda Milano nel calendario regionale. Undicesima edizione, ed hai voglia ad andare a portare l’orienteering per l’11esima volta di fila al Monte Stella, al Parco Forlanini e al Parco Lambro. Ancora una volta numeri di difficile gestione, persino da parte di organizzazioni più collaudate: i quasi 350 del Monte Stella, i 299 del Forlanini e – a conti ancora non conclusi – i 250 del Parco Lambro dove abbiamo avuto, e non sarà l’ultima volta spero, un percorso dedicato ai disabili.

In mezzo a questi numeri voglio inserire il mio ringraziamento a tutti gli insegnanti che portano i propri ragazzi a provare questo sport; devo dire che, dopo qualche anno che vedo gli stessi ragazzi, vedo dei sensibili miglioramenti che mi farebbero dire che il tale o la talaltra non sfigurerebbero proprio nemmeno a livello regionale, se potessero prendere un po’ più di dimestichezza con le carte boschive. Poi il ringraziamento a quei genitori che approfittano della MiPa per far conoscere i polmoni verdi di Milano ai propri bambini… Premio Oscar per la fantasia a quei genitori che hanno “regalato” la caccia al tesoro del Parco Lambro per il compleanno di uno dei figli ed hanno preso il via con cartina, cane al guinzaglio e frigobar per il rinfresco di metà percorso! Un ringraziamento anche agli agonisti, che vengono alla MiPa per accompagnare i figli (nella speranza che un giorno vogliano calcare le orme dei genitori) o per allenarsi su percorsi che non saranno proprio calibrati secondo il manuale del perfetto tracciatore, ma che sono facilmente raggiungibili e che offrono l’occasione per una sgambata senza troppi rimpianti e senza troppe angustie.

Anche se la MiPa non è una manifestazione per agonisti, dedicata a chi questo sport lo fa tutte e domeniche e torna a casa onusto di medaglie e di gloria (anche al Parco Lambro c’erano parecchie medaglie nazionali, e non solo nella C.O., più varie Coppe Italia e medaglie internazionali), chi traccia i percorsi cerca sempre – non sempre riuscendoci - di trovare un modo per rendere la prova appetibile per chi vuole allenarsi e testare, magari, la prossima sprint di Coppa Italia. Uno dei vanti della MiPa è che non abbiamo mai, a mia memoria (ho saltato mezza edizione per problemi personali), riutilizzato alcun percorso di quelli predisposti negli anni precedenti: anche se i ragazzi delle scuole non se ne accorgerebbero, per gli Agonisti non sarebbe un buon biglietto da visita, e poi anche chi traccia ha voglia di provare a testare se per l’undicesimo anno di fila la vecchia teoria “prendiamo la mappa e pensiamo: se io fossi un Agonista, dove mi piacerebbe essere mandato a gareggiare?” può ancora funzionare.

Nel novembre di quest’anno, chi traccia si è accorto improvvisamente che cacciare una lanterna su ogni cima di cocuzzolo, di collina, di montagnetta a mo’ di guanto di sfida come se stessimo gareggiando alla ELS 2900poteva diventare un po’ noioso, ma che le collinette e le montagnole possono essere ugualmente efficaci se si vuole lasciare all’orientista la possibilità di scegliere tra l’attacco frontale, il giro largo della cima o uno più stretto… e fu così che nacque il percorso Agonisti al Monte Stella di San Siro:
(primo giro con il super-trattone "dimensione Rocco" da nord a sud...
e quello "dimensione normale" da ovest a est)
(secondo giro con il super-trattone da est a ovest)

 Ovviamente alla Montagnetta è facile anche realizzare il giro cosiddetto “Corto”: resta proprio ai piedi della collina senza bisogno di fare un metro di salita. Per questo motivo, il Premio Oscar “barcollo ma non mollo” va a tre ragazzini del percorso corto i quali, a furia di seguire gli altri più grandicelli senza alcuna voglia di guardare la mappa (ma ‘sti ragazzini di oggi non giocano più con le mappe dei pirati?), sono saliti dalla base del colle fino in cima non una volta (da sud-ovest, la prima volta, dopo aver praticamente completato il percorso), non due volte (da nord-ovest, la seconda volta) ma TRE VOLTE (da nord-est, la terza volta) condendo il terzo arrivo con un celebre scambio di battute “Eccola! L’ho trovata! MA NO!!! Siamo di nuovo arrivati in cima alla collina!!! C’è sempre qui il tizio vestito di rosso!!!” (il tizio in questione sono io…). Cioè: non è il fatto di esserti sciroppato tre salite dalla base alla cima, come nemmeno quelli del King of the Hill, a dirti che stai facendo una assurdità, ma il fatto che ogni volta lì hai trovato uno vestito come il Gabibbo???


Al Parco Forlanini di salite non ce ne è nemmeno l’ombra. Per questo motivo, dopo aver messo le lanterne da una parte e dall’altra di tutti gli ostacoli naturali e non che puoi trovare, dopo aver convinto Dario G. (che ci mette i soldi) a stampare percorsi con cambio cartina = consuma toner, cosa altro ci si può inventare Presto detto: arriva Rusky e in quattro e quattr’otto mette giù il Labirint-O a metà percorso, una cosetta di 45x26 metri realizzata nel giro di un’ora sotto il sole del mattino di Milano. Il Labirint-O era sul percorso degli Agonisti ma anche sul percorso “Lungo”, ed ha messo in difficoltà soprattutto… gli Agonisti!!! Infatti, a noi che guardavamo da fuori, è sembrato palese che gli Agonisti cercavano di orientarsi guardando la mappa (e sbagliando spesso traiettoria), mentre i ragazzi del Lungo davano una occhiata alle fettucce e sembrava quasi di vederli identificare la traiettoria migliore per poi buttarsi dentro a capofitto! Tra coloro che nel Labirint-O ci hanno perso la bussola e la trebisonda, potrei citare… ma lasciamo perdere!

(primo giro)

(secondo giro)
Premio Oscar per la sicumera al professore che si è cimentato sul Lungo e che, una volta al traguardo, ha esclamato “Questo percorso non mi è sembrato davvero Lungo! E comunque la carta è sbagliata!”. Chiestagli una spiegazione, ha tranquillamente esclamato che dall’ultimo punto, era arrivato tranquillamente al traguardo e non al doppio cerchio riportato in mappa “perché lui sa benissimo che il traguardo è sempre stato lì dove era arrivato”. Ovviamente se ne era ben guardato dal leggere il comunicato gara che parlava di un cambio carta…

Chi traccia la MiPa se ne guarda bene dal definirsi “tracciatore”, perché occorre aver fatto corsi, tirocinio, esami, aver letto almeno tre volte di cui una all’incontrario il libro di Zonato e essere andato in pellegrinaggio a Grumolo delle Abbadesse a ricevere la sacra benedizione di Colui che è stato sul Tettodel Mondo…). Tuttavia, dopo essersi visto rifiutare dal Comitato Regionale la proposta di un campionato regionale sprint al Parco delle Cave, nei suoi sogni ci sarebbe poter tracciare un giorno una gara long al Parco Nord o al Parco di Monza. Questo sogno della gara Long ha cozzato di brutto contro la scala 1:5000 (o giù di lì… pare sia 1:5500) del Parco Lambro, ma il desidero di provarci gli ha fatto tirare fuori un percorso sviluppato su 7,5 km, senza cambio cartina, per la terza tappa della MiPa. Questa cosina qui che io stesso faccio fatica a seguirne da seduto lo sviluppo della sequenza dei punti!

Con il senno di poi, dopo la partenza trabocchetto (qual è la scelta giusta secondo voi?) e la seconda tratta lunga proprio dopo la zona sprint, non c’era alcun bisogno di tirare una terza tratta lunga per ributtare di nuovo gli Agonisti dall’altra parte del parco. La distanza ha impegnato gli Agonisti, il caldo ci ha messo il suo… e questo spiega gli improperi di chi Premio Oscar per averci comunque provato a due terzi di percorso non ne aveva proprio più: “Basta! Ardo!”. O forse non erano due parole ma una sola? La sfida Long, comunque, era stata annunciata su Facebook e più volte ribadita ai ritrovi delle gare lombarde…

Ora la MiPa “pare” vada in vacanza fino all’anno prossimo, anche se sta già germogliando il progetto di dedicare una puntata speciale al Parco Forlanini ai ragazzi ed alle ragazze del percorso Disabili, ai quali far provare anche qualche piazzola di Trail-O.

D’altra parte le emozioni di questa MiPa 2016 sono ancora in circolo, quindi perché lasciarle svanire come deboli Petzl nella notte? Forse c’è ancora spazio per un piccolo sforzo, che possa regalare a questi ragazzi una bella giornata di vita.

Ti abbraccio, gigante buono

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Gigante Buono. Così Manuela Manganelli ha definito il mio amico Marco Brandi sul sito Fiso. Proprio così. Marco è stato un gigante nel senso fisico e nel senso morale della parola. Ed era davvero buono. Con me lo è sempre stato. Ieri sera, quando ho ricevuto l’sms con la notizia della scomparsa di Marco, la mia mente è volata ad un momento che ricordo ancora nitidamente, eppure correva l’anno 2002; il momento nel quale ho incontrato Marco per la prima volta, Carano, Val di Fiemme.




Campionato Italiano CSI M35, in un bosco da favola, con un numero di iscritti che non creava alcuna coda in zona partenza. Eravamo lì, appoggiati proprio a quel recinto che sta appena a nord della collinetta con il triangolo di partenza. Io, il gigante buono, e due bambine magrissime vestite di blu con indosso una maglia “CCR Roma”. Chi fossero le due bambine, che Marco sovrastava come a proteggerle, non serve che io lo dica. Il gigante era proprio Marco.

Uno scambio di battute prima della partenza, tra due perfetti estranei:
“Un lungo viaggio da Roma fino a qui…”
“Si, ma ne è valsa la pena per le bambine… guarda che bel bosco!”
Rapidi scambi di battute ne avremo avuto ancora, nel corso degli anni seguenti. Di solito, io lo provocavo implorandogli di convincere una di quelle due bambine, poi diventate ragazze, poi diventate donne, a platinarsi i capelli per aiutare lo speaker a distinguerle: inconfondibilmente Adrienne o Andreina se viste da lontano, ma quando passano a tutta velocità nell’arena di gara è l’una o l’altra? Immancabilmente, Marco sorrideva… d’altra parte quale papà avrebbe mai fatto confusione? Nel corso degli anni, era diventato una specie di gag: “Marco! Mi raccomando! Una delle due… platinata!” “Stefano! Non è difficile!...” e provava a convincermi che avrei potuto distinguerle da un microdettaglio nella acconciatura. “Marco! Non è difficile se corressero alla mia velocità! Ma le tue figlie VOLANO!” e finiva a sorrisi.
Lo ricordo anche in uno dei giorni emotivamente più importanti della mia vita: 1° giugno 2013, Campionati Italiani Sprint a Subiaco. Quella volta Marco rimase con me almeno 20 minuti prima della partenza, sul ponte che indirizzava verso il parcheggio. Ne avevo bisogno, e lui lo aveva capito.
Ma per me Marco resterà sempre il gigante di quel giorno nel bosco della Val di Fiemme. Gigante e buono. Ti abbraccio Marco!




On the rocks… again!

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Tre giorni tra le rocce. Il primo giorno con il fisico, il secondo giorno con la testa, il terzo giorno con il cuore e l’anima. Ma c’è per caso un modo migliore per cominciare la stagione nazionale 2016? Forse no. Abbiamo trovato pure il sole, primaverile, quello si… un primaverile decisamente tendente all’estate, un sole che fa correre senza termica anche se è il 18 marzo; un sole che rende ancora più attraente una notevole arena di gara che di suo offre già il prato tagliato a raso ed il lungo schuss finale tra i pini fino al traguardo (ok: non oso pensare a cosa sarebbe successo in caso di maltempo!).

Poiché sono notoriamente prolisso, chi ha avuto la ventura di ascoltarmi sabato e domenica non aveva bisogno della precisazione, potrei riempire pagine e pagine di blog con la descrizione di questa personale “3 days on the rocks!” (in sottofondo la voce di Eddie Valiant che chiede “Ghiaccio! Non rocce!”).  E lo farò! Ma per favorire gli amici che “non posso mica prendere le ferie per leggere il tuo blog!”, adotterò dapprima una versione corta, prendendo a prestito l’ispirazione dal padre putativo (o figlio adottivo) di una generazione di poeti ermetici, l’orientista il cui volto ha sconfitto la Sfinge egiziananella semifinale del Campionato del Mondo di “ci guardiamo dritto negli occhi e il primo che ride ha perso”: Alessio “ZZI”in Larrycette. Se toccasse a lui scrivere questo blog, ecco come verrebbe fuori la mia tre giorni:

Gare ottime. Corso alla grande. Birra buona

Credo sia tutto. Tutto l’essenziale intendo. Poi giù cartine di gara come se piovesse, ed i commenti li lasciamo ai lettori che vanno a vedere se poteva essere migliorabile o no la traccia GPS lasciata in mappa dal Master vinicolo furlan… NO! NO! Triestino! Sennò lui e Andrea Margiore poi vengono a picchiarmi a casa (Andrea mi stava già insultando e non aveva ancora tagliato il traguardo di Pieve di Soligo…). Ok, bene l’ermetismo, eh?, ma non benissimo per i miei standard un po’ più parolai.

Se fosse toccato a Larrycettein ZZI scrivere queste parole, il tutto sarebbe venuto fuori in un altro modo ancora…

Premesso che non sono più un orientista anzi non ho mai fatto orienteering in vita mia e no non ero io quello che girava con il radar tra le rocce di Barbisano era un sosia ed era un sosia anche quello che è passato a palla di cannone dal punto spettacolo di Pieve di Soligo appunto lo dicevo io se è passato a palla di cannone ed aveva il radar non potevo essere io…

Eccetera.

Solo che, una volta scritte queste cose, il mio blog passerebbe a parlare di Bruce Springsteen, di Vinicio Capossela e del fatto che, avendo a disposizione solo il Dolce Forno della pubblicità di Topolino, non potevo sfamare più della metà dei partecipanti alla Coppa Italia. E giunto a questo punto, onestamente mi perderei perché: in quanto a gusti musicali i miei sono pessimi (l’Ipod che vi trita le orecchie ad alcune gare  stato recentemente integrato con alcune new entries recentissime tipo “A whiter shade of pale” di Procul Harum e “Hurricane” di Bob Dylan… tutta roba che conoscono solo i superMaster over-età-del-TRex), e in quanto a capacità culinarie, la cosa che mi riesce meglio è l’uovo sodo-molto-sodo (che peraltro mi piace tanto). Scrivendo “peraltro”, ecco spontaneo il collegamento con il blog più letto del reame: Dario P. avrebbe iniziato il suo pezzo scrivendo:

Sono ancora capace! Questo è sicuro! Una gara così, con 30… diciamo 45 secondi di errore in tutto… non me la ricordavo dai tempi della OriCup di Madrano, o forse era la finale del Campionato Italiano Middle? Comunque, parlando di tempi, ecco che per andare alla 1 il mio tempo di gara è stato di 5’11” con oltre 5 minuti di vantaggio su Maurizio Mel...

Eccetera.

Ma diciamocelo pure. Delle MIE scelte (non di quelle di Dario) e dei MIEI parziali di gara non potrebbe importare di meno a chicchessia… forse solo a Marco Giovannini ma per dirmi subito che sono rimasto veramente scarso, sia tecnicamente che fisicamente, se dopo aver parlato a destra e sinistra dei miei allenamenti, e dopo 20 anni di orienteering, ci metto ancora poco meno del doppio del tempo del vincitore a finire la mia gara.

Ecco: questa faccenda del “doppio del tempo del vincitore” era uno degli obiettivi di inizio stagione, per raggiungere il quale mi sono sottoposto a parecchi allenamenti in più. Nel finale di stagione 2015, causa complicità di altri eventi esterni e anche poco piacevoli, non ero più riuscito a rimanere entro un distacco dal primo classificato almeno “decente”, almeno per evitare di sentirmi dire cose tipo “ok… abbiamo capito che questo non sarà mai il tuo sport… grazie per averci provato ma guarda che anche il calciobalilla è tanto divertente”.

Di conseguenza il primo giorno della mia personale Three days on the Rocks (peccato che la birra non me l’ha portata Jessica Rabbit, ma nemmeno il pinguino) è stato il giorno del FISICO. Metterci il fisico. Arrivare a Barbisano pompatissimo dopo un viaggio in treno fino a Padova passato a studiare la carta di gara, facendo tesoro degli insegnamenti di Elena Roos (una che ormai a stare sul podio con Simone Luder ci sta facendo l’abitudine) e provando ad inventare più di un percorso nel Rock Labyrinth per memorizzare la posizione delle poche tracce e dei roccioni più evidenti. Arrivo in partenza accompagnato da Elia Vettorel, mi libero del peso superfluo e poi parto ABBOMBAZZ…!… No. Abbombazza proprio no.
Sul primo punto me la sono presa proprio comoda, perché girando attorno al vigneto e poi salendo lungo l’avvallamento ed il sentiero ho studiato comodamente tutta quanta la zona del “warm up”, cioè tutto quanto il campo di gara che mi portava fino al punto spettacolo, all’ingresso di quella parte di campo di gara che costituiva il VERO MOTIVO per essere venuto a Barbisano a correre: il Rock Labyrinth, appunto. Carico emotivamente ma tranquillo, bombato di Nutella e di gel Enervit, con i muscoli delle gambe tesi e stirati e contratti e rilassati per due ore e mezza in treno (finché il tizio di fronte a me, che andava a Venezia a fare una presentazione per un congresso medico, ha pensato che io gli stessi facendo un approccio fisico). In quei primi minuti ho capito una sola cosa: vai con i sentieri e le tracce!, corri più che puoi che la gara si fa nel finale tra le rocce! Ho messo a tacere la vocina che mi ripeteva “gareggi per l’ultima posizione in classifica e vai a cercare i sentieri? Ma almeno sii uomo e vai dritto in bussola sotto la linea rossa!” (o era la voce di Marco Giovannini?). Diciamo che il già citato Maurizio e poi Loris D’Errico, sempre santi siano gli amici con i quali fare quattro risate dopo la gara, hanno dimostrato nei fatti di essere stati un po’ più arditi di me…


Sentieri quindi. Mi appoggio ai sentieri, sfrutto i sentieri, vado a cercare i sentieri. Le lanterne stavolta mi corrono veramente incontro facendo ciao con la manina! I vigneti sono un punto di appoggio formidabile. Quando piombo addosso alla 6 mi sento Batman (che sono capaci tutti di fare Batman con l’aiuto della BatMobile… ehmmm… di una traccia di sentiero proprio prima del punto!). Alla 7 mi fermo qualche secondo sulla piazzola appena ai piedi della roccia prima di buttare l’occhio di sotto e trovare il telo arancione… come sarebbe a dire IL TELO ARANCIONE? Si, o cari! L’Orienteering Miane, per farmi fare la gara nelle migliori condizioni, aveva finito di posare tutto nel primo pomeriggio di venerdì (grazie! Ancora grazie! Sentitamente grazie!). Giro antiorario e un po’ largo alla 8, ma si rivelerà una buona scelta (fatta anche da Marco Seppi) perché l’inghiottitoio sul fiume mi avrebbe fatto perdere tempo e morale. Per andare alla 9 scalo la parete di terra e, giunto a due metri dalla cima, mi accorgo che ho bisogno di entrambe le mani per aggrapparmi: prendo carta e bussola e le lancio di sopra, dove spiana, mi aggrappo a tutti i fili d’erba e mi isso in cima. I primi punti tra le rocce, quelle “non sull’ingrandimento 1:3500”, li faccio con calma… perché adesso è ora di preparare il Rock Labyrinth, ma come faccio a rallentare quando il bosco mi scaraventa verso il laghetto e da lontano ho già la visione del punto spettacolo che mi aspetta?
Passo al punto spettacolo in 53 minuti netti, e adesso so che la cosa si fa spessa. Faccio la mia scelta fino al primo punto: traccia, traccia, traccia, curva della traccia, dentro nel bosco-avvallamento-roccia e lì dietro ci dovrebbe essere il mio punto E C’E’! Fuori di nuovo… traccia traccia traccia… vado appena lungo ma raggiungo un sentiero più grande che mi ributta dentro, e questo mi consentirà di “marcare” con il tacco per terra l’ingresso per la lanterna 20 (non si fa? Mandatemi Vladimir Pacl e i suoi regolamenti che ne riparliamo…). Ancora traccia traccia giro attorno alla roccia, sella tra le rocce E C’E’ ancora! (è la fettuccia 83 grande come un rotolo di carta igienica, ma c’è).

Poi via di nuovo, andando dentro e fuori dalle tracce. Non me la sento di girare a vuoto dentro al bosco aggirando le rocce, bravi coloro che ci sono riusciti o che hanno anche solo pensato di riuscirci. Ma io non voglio buttare nel cesso proprio adesso tutta la fatica che ho fatto, anche se sono mentalmente condizionato che al primo errore mi devo buttare fuori e fare il giro del fullo per ricollocarmi e rientrare nel labirinto. Però.. penso che la 20 in fondo l’ho già trovata e devo solo ritrovare il segno del tacco sul sentierino E LO TROVO, e poi trovo anche la lanterna che occhieggia a 15 metri. E infine mi ributto fuori verso il prato, comincio ad essere stanco morto, ma manca così poco e voglio arrivare all’arrivo e far esplodere il cuore. Il prato di arrivo è così vicino, sento le voci di chi sta allestendo l’arena e, a costo di vomitare l’ultimo atomo di gel, voglio arrivare al traguardo! 1 ora, 7 minuti e 11 secondi. Per una gara middle (quelli bravi ci fanno una long distance…) ma almeno stasera potrò scrivere ad Ercole Pin che stavolta le rocce non mi hanno sconfitto, che volevo la mia vendetta (quanto mi ci ero perso tra quelle rocce l’ultima volta) e l’ho avuta! Due calcoli a mente, e penso subito che sarà difficile che qualcuno dei nazionali impieghi meno di 33’36 secondi per finire quella gara, e che quindi potrei rimanere anche questa volta (d’altronde lo faccio da inizio stagione, e mi sono già confrontato sia con Tobia Pezzati che con Andrea Seppi) attorno al 90% in più del tempo del vincitore.

E fu la sera del giorno FISICO, e poi fu mattino.

Secondo giorno. Il giorno della TESTA.

E’ sabato mattina e non ho nulla da fare. Ma il Rock Labyrinth è lì, a pochi metri dal posto dove dormo. Quindi, perché non approfittarne per vedere dove passeranno anche le altre categorie? In fondo l’Elite maschile ha solo 4 punti nel labirinto… detto? Fatto! Carlo Pilat mi allunga la “tutti i punti” della zona delle rocce e, seppur che sono vestito come per la Messa di domenica, indosso di nuovo la mia bussola e vado a battere palmo a palmo tutta la zona. Primo shock: ci saranno almeno 15 punti in quell’antro infernale (o paradisiaco, a seconda del risultato finale); non importa: ancora una volta vado dentro e fuori dalle tracce, mi immagino dove potrebbero incrociarsi i percorsi dei più forti nelle varie categorie, dove potrebbero giocarsi la gara o rischiare il tutto per tutto per una rimonta dell’ultimo secondo (e succederà, oh se succederà!). Mi guardo ancora i miei punti di controllo, arrivo alla 83 e stavolta il telo c’è… e ti credo: l’ho ri-posato io! Arrivo alla 86 e, come nei miei giorni tecnicamente migliori, trovo solo la fettuccia. Torno all’arena di gara e dico “manca la 86! Manca la 86!”… era l’ultimo punto ancora da posare, mannaggia!, e mancava davvero! Mi sono fatto venire un colpo per niente…

Trasferimento a Pieve di Soligo per la gara di sabato pomeriggio e… si, qui voglio prendere a prestito proprio le parole di Dario P., perché come ha descritto lui la zona di gara non sarebbe capace di farlo nemmeno Spielberg:

… per fortuna gli organizzatori devono aver raso al suolo il quartiere vicino al fiume per costruirci un complesso pieno di scalette e sottopassi, e il tracciatore ha avuto una certa fantasia. Insomma ne è venuta fuori una gara divertente

Parto forte, o almeno credo a giudicare dalle sensazioni nelle gambe (“forte” è SEMPRE da intendersi “per i miei standard”… perché voglio sempre rimanere dentro quella soglia del doppio del tempo del vincitore). Mi faccio su un po’ da solo alla 1, mentre per la 5 scelgo il giro da nord con il risultato che passerò per TRE VOLTE nel giro di un minuto e mezzo davanti ad una signora che staziona sulla panchina al termine sud del muro di cinta e che sta pascolando il cane (la terza volta mi guarda seriamente intenzionata a chiamare i carabinieri, perché ansimo come un maniaco!). La tratta lunga per andare alla 10 non mi prende proprio benissimo, ma finisco per passare due volte davanti ad un bar nascosto dal numero 10 che ha fuori un bel po’ di gente, e quindi voglio farmi vedere bello tonico e scattante nei miei colori turchesi dell’AGET Lugano (combinati con orribili pantaloni rosso fiamma al ginocchio, in un “pendant” che nemmeno uno stilista strafatto di LSD…).
Cambio carta e… ah! Ma si torna nella zona iniziale del delirio?... Cerco di districarmi nelle piccole piazzette e sulle minuscole scalinate, anche se in almeno un paio di occasioni ho una titubanza perché sembra che sto per infilarmi dritto in casa di qualcuno (ma se leggessi la carta, e anche quella carta avesse un INGRANDIMENTO!, avrei meno problemi) ed ho ancora le forze per sprintare attornoalla aiuola con la 15 e buttarmi nell’ultima parte di gara, che è decisamente più filante ma che tollero meno perché le gambe cominciano ad essere davvero stanche. Incrocio Mauro Loss in fase di controllo, mi butto sulla collinetta della 18 sprintando ancora per farmi vedere sempre tonico dai bambini (e dalle mamme) che giocano nei pressi. Evito di incasinarmi tra i piccoli recinti della 19 (bastava arrivarci da ovest e non da est!) ed ancora una volta sto tornando verso il traguardo; sento il brusio dei 500 partecipanti in piazza e accelero fino all’ultimo metro per cercare di farmi vedere per il minor tempo possibile, e da meno gente possibile, mentre taglio il traguardo “scavalcando” l’arco gonfiabile che era ancora a terra. 26 minuti e 10 secondi. Un rapido calcolo: Seppi ce la farà in meno di 13’06”? Mmmhhh… potrebbe… potrebbe farlo. In cuor mio, mentre mi cambio ed i muscoli delle gambe lasciano che il sangue fluisca verso la gola dello speaker, spero davvero di no: ho dato tutto il “tuttibile” (o il “dabile”), e non voglio pensare di esser doppiato da Andrea o da Ricky o da Zagor. Alla fine Andrea ci metterà 14’07”: il mio tempo è superiore al suo del 85%, quasi come alla sprint notturna del Lago Nord! Missione compiuta atleta Stegal!

E fu la sera del giorno della TESTA e di Eleonora Donadini, e tornò il mattino.

Il mattino del giorno del CUORE e dell’ANIMA.

Cosa rara. Non ho praticamente nulla da fare. Gli amici che mi vedono passeggiare ad un orario umano per l’arena di gara, ed in condizioni fisiche decenti, mi chiedono “stavolta non hai fatto la gara prima di noi, vero?”. Ed io rispondo “certo che l’ho fatta anche stavolta!”, lasciando in un minimo di dubbio a quale razza di orario io possa aver lasciato le coperte per infilarmi nel bosco (adesso lo sapete!). In realtà, se il mio fisico non ha nulla da fare, il mio cuore e la mia anima hanno molto da fare, perché voglio che sia una giornata da ricordare e voglio svolgere il mio compito nel modo migliore possibile. La mia postazione speaker è ai bordi dell’arena: vedo distintamente il passaggio a bordo del laghetto, la breve e dolce salita che porta al punto spettacolo, il corridoio fettucciato che porterà gli atleti tra le nuvolette del Paradiso o nella bocca dell’Inferno…

E’ in quei momenti che io non sono più alla postazione speaker di Barbisano.

Io sono all’ingresso del Carrefour de l’Arbre, e sto aspettando il gruppetto dei fuggitivi che si giocheranno sulle ultime pietre la gloria della Roubaix.

Sono all’inizio della salitella di Lillehammer, quella che poi butta giù verso i centomila dello stadio che aspettano Bjorn Daehlie e si trovano davanti Silvio Fauner.

Sono all’ultimo minuto del secondo tempo supplementare, e Del Piero ha battuto un calcio d’angolo, e poi la palla va fuori e Pirlo la addomestica e potrebbe tirare lui… ma non tira lui verso la porta, passerà a chi tirerà fuori una curva impossibile come quella che può avere solo la schiena perfetta di una modella.

Sono al rifornimento del quarantesimo chilometrodella maratona di Seul, e davanti c’è uno di Gibuti, poi un keniano e solo dopo arriva il ragazzo con la canottiera bianca, quello con il volto tirato, quello che è stato staccato qualche chilometro prima… quello che sa che mancano ancora due chilometri!

In fondo, come ha detto Elia Vettorel, la gara di Barbisano, e talvolta anche la vita, fino a un certo punto “è tutto warm up”, è una cosa quasi normale, ti serve per il dopo; poi non conta più “quello che c’è stato prima”: conta solo il momento nel quale si sente la campana che suona. E io stavolta sono ben intenzionato a far sentire alle ragazze ed ai ragazzi che questa volta la campana la farò suonare io!

Il resto è la storia che tutti conoscono. Passano quelli come Lukas Patschedier, con il suo vantaggio irreale che manterrà fino in fondo. Poi ci sono quelli come Miki Caraglio, che arriva con Ricky Scalet ed ha la gara saldamente in mano… e se la lascia sfuggire al primo punto tra le rocce per passarla a Mamleev, che poi la passa a Marco Seppi, che poi la passa a Roberto Dallavalle, che infine la ripassa a Miki per una manciata di decimi di secondo. C’è Christine Kirchlechner, l’atleta più avvezza alle “pressioni dello speaker”, che passa anche lei con un bel margine di vantaggio ed avrebbe sulle code Emilija Gvildyte a guardarle le spalle… ma poi Christine non esce più dal bosco (la lituana si!) e consegna la gara nelle mani di Nicole Scalet. E infine ci sono quelli come Fabiano Bettega, con il quale andrò a scusarmi nel dopo gara e che mi regalerà il commento più bello della giornata:

Scusarti? Perché? Anzi… quando sono passato e mi hai detto che avevo un bel vantaggio, mi hai messo tranquillo… sapevo di potermi permettere un errore. E infatti ho sbagliato subito! Ma ero tranquillo, perché sapevo di avere ancora vantaggio, e ho sbagliato ancora, e poi ancora! Succede, non è mica colpa tua”. Grazie Fabiano!

E infine venne il momento di riprendere FISICO, TESTA, CUORE e ANIMA e riportarli a casa, perché mi serviranno ancora, e molto presto. Ma si tratta di un fisico, una testa, un cuore ed un’anima sui quali il weekend di Pieve di Soligo e Barbisano ha lasciato un marchio che difficilmente verrà via. Che divertimento che è stato!

Nella mezza (maratona) del cammin di mia vita…

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Sfinito ma arrivato al traguardo. Potrebbe essere il riassunto della mia ultima domenica dis-orientistica, che non mi ha visto al via della gara regionale di Brinzio bensì nella meno boschiva ma più tranquilla mezza maratona di Certosa di Pavia. Il riassunto delle 48 ore che precedono il via ve lo risparmio, perché interesserebbe ben pochi lettori o lettrici… Diciamo che sono arrivato alla sera del venerdì (primo aprile) concludendo una settimana che sapevo sarebbe stata fatta di tante di corse matte e strambe (quelle che fa ”il cavallo senza gambe \ se lo sprona e lo molesta un bambino senza testa…”), motivo per il quale non mi ero nemmeno iscritto a Brinzio. C’era una alta probabilità che si avverasse il sogno di trascorrere almeno un giorno intero a rotolarmi tra le coperte del letto o tra i cuscini del divano per recuperare.

Sabato pomeriggio però è arrivato forte il richiamo “Chilometri! Chilometri! Chilometri!”. Occorre mettere chilometri nelle gambe se voglio affrontare con le energie necessarie i prossimi impegni! E’ stato così che domenica mattina all’alba mi sono alzato, infilato nei calzoncini e nella termica (che si rivelerà poi abbastanza inutile) e mi sono presentato al via della mezza maratona della Certosa di Pavia organizzata dalla società con cui collabora anche il collega seduto due metri dietro di me in ufficio (il mio è un ufficio strano… possiamo sembrare tutti dei mollaccioni, io per primo, ma il numero di borse da palestra che compaiono ogni giorno è esagerato, ed inoltre in 5 si sono appena presentati al via della Stramilano della settimana precedente!).

Sono passati gli anni nei quali una mezza maratona, o giù di lì, una domenica si ed una domenica no erano il mio pane. Adesso gli impegni me li devo andare a cercare con molta cura(mi sento pur sempre sfinito = demolito + spappolato) ma il tipo di terreno della mezza maratona che mi aspetta è quello che più si avvicina alle mie caratteristiche: piatto, totalmente piatto, inderogabilmente piatto! D’altra parte non è la prima volta che dico che dalle mie parti, se vogliamo andare a cercare il dislivello, dobbiamo usare il cavalcavia sopra l’autostrada… Il panorama non è quindi all’altezza di certe corse brianzole con vista sulla Grigna, sul Lissolo, sul Tetto della Brianza; il mio percorso non affronterà tratti caratteristici come il temibile “piramidone” del Memorial Longoni a Barzanò, o salite all’Alpe del Tal-dei-Tali: ognuno deve fare il suo mestiere, ma pur essendo cresciuto in una località di montagna, il mio terreno preferito è quello della bassa padana tra Milano e Pavia; almeno qui non mi devo cimentare su percorsi che sembrano fatti da tracciatori sadomaso che talvolta ti fanno salire un dislivello assurdo per poi farti scendere pochi metri più in là, al solo scopo di aggiungere un “D+” (dislivello positivo) alla corsa… sono disponibile a fare dislivello se questo sforzo mi consente di vedere qualche bel posto, o di passare per un sentiero che altrimenti non farei, ma non se è funzionale solo a salire di 200 metri di dislivello di botto per poi farmi girare i tacchi e scendere dalla stessa strada o pochi metri più in là a riprendere il percorso originale! Non mi chiamo mica Alvin, o “il Moro”, o tutti quanti gli altri amici matti di Dario “Darietto la carogna” Stefani che si fanno la UltraBericus come aperitivo!!!

E’ una domenica mattina fresca, che si scalderà solo nel finale di gara, ed alle 8 del mattino io ho il mio Ipod nelle orecchie, il cartellino per i controlli in tasca, la maglia di ordinanza blu-come-il-cielo-luminoso fornitami da Banka Koper (ormai mio sponsor personale) e parto con un ritmo tranquillo perché non voglio rischiare di finire cotto e stracotto a due terzi della mia fatica. Il primo tratto di percorso, dopo un giro nel parco di Certosa, si sviluppa sulla ciclabile del Naviglio Pavese: una tirata di qualche chilometro che sembra tracciata dalla pallottola di un fucileda tanto è dritta e sembra non finire mai. Istintivamente, nonostante la musica nelle orecchie mi tenga compagnia e mi generi qualche bella scossa emotiva, cerco di agganciarmi a qualche trenino di podisti; l’unico risultato è quello di trovare altro materiale per la mia tesi di laurea in medicina sportiva applicata agli impiegati panzottelli: la “sindrome da corridore solitario”.

Per raccontarla in breve (Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!): possibile che, tra tutti i corridore al via, solo io sempre io nient’altro che io non riesco mai a trovare qualcuno che va al mio ritmo? Ok… io parto da solo, mentre ci sono parecchi attorno a me che si presentano al via insieme, si allenano probabilmente insieme, sanno di avere lo stesso passo o comunque uno molto simile. So anche che non è bello accordarsi passivamente ad un gruppetto di due o più amici (come un succhiaruote)che magari tra una curva e l’altra si fanno e si raccontano i fatti loro, soprattutto se nel gruppetto corre qualcuna delle rare donzelle al via che sembra di essere uno che si vuol fare bello davanti alle amiche degli altri. Però non mi sembra davvero possibile che, quando corro, lo spazio tra me ed il\i podisti più vicini sia sempre di una ventina di metri! E si tratta di gente che o mi ha appena passato a velocità warp con un missile piazzato nel didietro, oppure di gente che si è trovata davanti all’improvviso ed al terzo chilometro sta già patendo la distanza, o che non è capace di tenere un ritmo costante!

Sono qui che ascolto la mia musica e sviluppo la mia tesi di laurea, ed all’improvviso mi sfila una maglia bianca e azzurra di una qualche squadra AVIS della zona; colgo il nome sulle spalle (mi pare “Lorena”) e vengo colto da una specie di odio diffusoper l’umanità intera con pochissime eccezioni: si tratterebbe solo dell’ennesimo classico esemplare di podista dei circuiti della bassa padana, se non fosse che è alta 1 metro e 45 a dire tanto, mulina le gambette ad un ritmo che al confronto Chris Froome quando scatta sull’Alpe d’Huez  è un dilettante, e mi sta staccando come nemmeno Bip-Bip quando vuole smettere di divertirsi con Wile.E.Coyote… A quel punto guardo l’orologio, faccio due conti, e capisco che va bene il ritmo tranquillo da “demoliti e spappolati di tutto il mondo unitevi”… ma a tutto c’è un limite e quindi è il caso di darsi una mossa.

La prima cosa da fare, intanto, è andare a riprendere “Lorena” che è avanti a me una cinquantina di metri. Ma con calma, senza strappi, usando il metodo che usava Paavo Nurmi quando lasciava andare via gli avversari e poi si immaginava di cominciare a ripescarli con la canna da pesca, finché essi  dovevano per forza di cose “retrocedere verso di lui”. Mentre sono qui all’ombra del primo sole a fare il pescatore di tappe-che-mulinano-gambette, Lorena (o come diavolo si chiama) ad un certo punto scompare come volatilizzata! Dietro non è, fermata non si è… Ah! Capito tutto. Siamo al bivio dei percorsi: a sinistra proseguono i (mezzi) maratoneti, a destra vanno quelli della 13 km. Improvvisamente, davanti a me, il vuoto totale! Hanno girato tutti quanti, o quasi, a destra e devo convincermi che sono ancora sul mio percorso cercando le balisea bordo strada. Allora ditelo! Scrivetevelo con un pennarello sulla schiena! Non “Lorena” o “il drago della bassa” o “non seguitemi mi sono perso”! Scrivete: “sto facendo la 13 km e quindi non demoralizzarti , oh tu che fai la 21 km, se ti sfreccio a fianco”.

Da solo e senza altre Lorene da raggiungere, torno ad affidarmi all’Ipod ed alle sensazioni nelle gambe fino al ristoro del settimo km abbondante posizionato all’interno dell’”oasi”, una zona protetta per gli uccelli migratori che viene aperta al passaggio dei podisti solo in occasione di questa corsa. Un ristoro fatto al volo mi consente di uscire dall’oasi con un trenino di altri tre podisti, così almeno non sono sempre da solo (anche se sono il quarto del gruppetto, staccato sempre di qualche decina di metri); osservando i miei compagni di avventura, vengo colto da un pensiero sgradevole: ma quanto corrono male questi qui?!? In particolare uno, quello che è davanti a me di appena una ventina di metri, a vederlo non offre una bella impressione: bassottello, tarchiato, corre veramente piano ed in un modo tutto sgraziato, al punto che il mio primo pensiero è: “questo perché non se ne è stato a casa sua, anziché venire qui a farsi del male?”. E’ bassottello, mentre io sono alto, è tarchiato… vabbé… su questo non ci posso fare molto!, corre veramente piano e in modo sgraziato e… ehi! E’ davanti a me! E per quanto a me sembri di correre bello, pulito e plastico come Abebe Bikila, non c’è verso di raggiungerlo. Forse che anche dietro di me c’è qualcuno che sta pensando (di me) “e questo perché non se ne è stato a casa sua, anziché venire qui a farsi del male?” ??? Me ne convinco a tal punto che mi giro a controllare, ma dietro c’è sempre il vuoto pneumatico.

Ok. Allora è giunto il momento di farsi avanti. Pian piano riduco le distanze e lo supero, e questo si incolla dietro di me. “Ecco chi è il succhiaruote!” penso… ma non passano nemmeno 500 metri che questo parte con uno scatto come nemmeno Usain Bolte recupera la cinquantina di metri che ci separano dai due davanti e si attacca a loro! E io chi sono? Di scattare in quel modo non se ne parla proprio, perché mi ritroverei piegato in due a vomitare alla curva successiva. Registro lo strano comportamento di quel tizio e mi metto di buzzo buono a limare qualche curva per provare a raggiungere l’improvvisato terzetto. Attraversiamo paesini di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza (chi ha mai sentito parlare di Baselica Bologna???), autentici ghost-village graziosi e carini ma che, rimasti fuori dalle principali vie di comunicazione statali o provinciali e da quelle che portano a qualche centro commerciale, sembrano finiti persino fuori dal tempo. La distanza tra me ed il terzetto di riduce centimetro dopo centimetro, sto per prenderli finalmente e… uno di questi si ferma di botto! Ma cos’è? Ti ho seguito per 5 km dopo il ristoro e adesso che ti ho preso abbandoni? Mentre passo a fianco, chiedo se va tutto bene e mi sento rispondere “no… solo un dolorino… lascio che passi e riprendo”. Il suo compagno di allenamenti si ferma pure lui, il tracagnotto fa un altro scatto violento e si riporta avanti di 50 metri almeno, ed io continuo a correre tutto solo.

Al ristoro del 15 km siamo tutti insieme ed io faccio altri due conti. Qui con me ci sono: uno che sembra un fustino del Dash e che fa le ripetute, uno che si ferma perché ha i dolorini… e io allora chi sono? Sono solo uno che, evidentemente, non ha molta voce in capitolo quando si tratta di prestazioni atletiche. Mi rimetto comunque di buzzo buono e, in uscita dal ristoro, aumento un po’ l’andatura approfittando del ritmo blando tenuto all’inizio. Tanto corro sempre da solo. Faccio entrare qualche bella “power song” nell’Ipod e la scossa alle gambe mi aiuta ad arrivare agli ultimi chilometri. Al cartello dell’ultimo chilometro allungo ancora ed arrivo in bella spinta al traguardo: non sono nemmeno stanco come potevo immaginare, e non patisco i 21 km né durante il pomeriggio di domenica né il giorno successivo. Forse avrei potuto dare di più, ma non volevo proprio rischiare di finire la benzina a tre quarti del percorso.

Un bel percorso, da rifare e suggerire agli amici (almeno a quelli che non disdegnano di correre nella “bassa”), magari con l’aggiunta di qualche garetta serale più corta visto che adesso parte anche il circuito delle infrasettimanali. Tuttavia esco da Certosa con un dubbio amletico: non è che quando corro, o quando faccio orienteering, la gente pensa davvero di me “questo perché non se ne è stato a casa sua, anziché venire qui a farsi del male?”.
Post scriptum: per i soli finali, il tarchiato che faceva le ripetute è arrivato che io mi ero già cambiato e rifocillato…

Breve riassunto delle puntate precedenti… (parte 1 - Cansiglio)

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La notizia non era ufficiale prima di oggi, ma credo che almeno fosse nell’aria. Questa settimana uno dei più grandi atleti espressi dalla storia dello sport italiano “aggiorna” la sua posizione, passa di ruolo, lascia di fatto il suo ruolo predominante in cima alle classifiche ed ai ranking per andare ad occupare una posizione diversa, non meno defilata ma semplicemente non più così agonistica.

Il bello del 21° secolo è che queste cose non vengono annunciate sulla Gazzetta dello Sport, o con una bella conferenza stampa, ma su Facebook. E’ stato Facebook il primo social network a far trapelare la notizia, a lasciare il primo brivido nelle vene dei tanti tifosi, a scatenare l’onda dei ricordi dei tanti successi passati che ormai fanno parte della storia. No, non sto passando dell’addio alle competizioni di Valentina Vezzali (che considero la più grande atleta che l’Italia abbia mai espresso, e se fosse stata tedesca a quest’ora avrebbe una statua dedicata sulla Unter Den Linden di Berlino). Non sto nemmeno anticipando quella che potrebbe rappresentare l’ultima pagina della carriera di Francesco Totti, lui come pochi altri “nemo propheta in patria” soprattutto nell’ultima parte della sua carriera (sono solo i tifosi di tutte le altre squadre a pensare a “come sarebbe stato se avesse giocato per noi…”?); una ultima parte di campionato che avrebbe potuto essere celebrata in tutti gli stadi nello stesso modo in cui è stato celebrato Kobe Bryant ovunque abbia giocato le sue ultime partite. D’altra parte il connubio “Italia + calcio” non sempre è foriero di eventi di cui andare fieri…

No. Sto parlando di ben altro tipo di sport, di ben altra caratura e spessore di atleta. Un autentico atleta di peso che ha attraversato come un tornado gli ultimi 20 anni di attività sportiva nazionale ed internazionale: sto parlando di orienteering e sto parlando di me! Anche se non potevo saperlo prima, le ultime gare hanno costituito un autentico “rito del passaggio”, e la cosa è diventata palese dopo uno scambio di pareri (dal vivo sul campo di gara e poi su facebook) che la dicono lunga:

Sul campo di gara di Cansiglio:

  • Ciao Stefano, ci sarai alla gara Tal dei tali del giorno X?
  • “Certo che ci sarò, anzi non vedo l’ora!”
Dopo qualche giorno su Facebook…

  • Ciao Stefano, mi hanno detto che sarai speaker alla nostra gara. Volevo ringraziarti…
  • “Speaker? Vengo volentieri ma… nessuno me lo ha chiesto…”
  • Ah… mi dispiace per l’equivoco ma, quando mi hanno detto che saresti venuto alla gara Tal dei tali, davamo tutti per scontato che sarebbe stato come speaker, non come concorrente”.
Tum! Tum! Tum! Tum! TUM! TUUUMMM!!! Il rumore dei chiodi che chiudono la bara delle mie velleità di  partecipare alle gare nelle vesti di mega-super-grande-atleta (cosa che non sono mai stato, a scanso di equivoci). Ovviamente tutto questo preambolo serve a confermare che, da parecchio tempo, nessuno fosse pure il più scrauso degli Esordienti avrebbe paura di me in una classifica finale. Tuttavia… tuttavia la soddisfazione nel prendere parte ad una gara di orienteering sta nel fatto che in ogni occasione, fosse anche solo per una tratta del percorso. C’è una risicata speranza di poter fare una scelta migliore del campione più decorato (vero Marco Giovannini che ti ricordi di Pasi Ikonen?), di poter strappare un tempo migliore del nazionale più medagliato, di riuscire anche solo a vedere una sola “mossa” o una strategia più valida di quella del fenomeno più celebrato.

Io non sarei in grado di correre più veloce di un maratoneta keniano nemmeno se quest’ultimo fosse sul lettino del massaggiatore! Ma nel corso degli anni, rimanendo sempre ben aderente alle ultime posizioni del gruppo, qualche volta (e dico solo qualche volta in 20 anni) una lode ben pronunciata da parte di un affermato campione è stata la mia medaglia da portare a casa e tenere nel baule dei ricordi.

Eppure ce l’ho sempre messa tutta, soprattutto nelle ultime gare di aprile alle quali sono arrivato spesso in debito di ossigeno già alla partenza, sbarcando da aerei e imbarcandomi su treni che diventavano passaggi in auto. Prendiamo ad esempio la gara di Coppa Italia al Pian del Cansiglio… no, non comincio dalla gara di Coppa Italia per copiare la prosa memorabile di Dopolavoriche ha iniziato a scrivere del fine settimana del 16 e 17 aprile dalla fine. Parto dalla gara di domenica perché è stata la prima che ho corso: di venerdì pomeriggio. La storia di questi ultimi mesi, come si è arrivati al venerd’ della mia gara, narra di una long distance di Coppa Italia a Pian del Cansiglio annunciata come troppo lunga e troppo impegnativa per le mie possibilità di “quasi cinquantenne”. Ovviamente non tutti sanno che, se voglio fare una cosa, non c’è che da ripetermi “non ce la puoi fare!” per darmi qualche motivazione in più. Però era palese il fatto che sarebbe stata una gara da oltre tre ore di percorrenza nel bosco, e con il successivo impegno come speaker, probabilmente non ci sarebbero stati i tempi tecnici per completare il percorso.


Mi vengono però in soccorso l’Orienteering Tarzo (Ercole Pin) in primis, e la Forestale (Carlo Pilat in primis) ed improvvisamente davanti a me si apre la possibilità di salire a Cansiglio venerdì e di provare il percorso come apripista, nel primo pomeriggio. Le informazioni dicono che il crepuscolo arriverà solo alle ore 20 circa, e quindi se riesco a prendere il via alle 15 potrei avere tutto il tempo per tentare di portare a casa la long distance del Cansiglio, proprio su quella cartina che ai Campionati Italiani di parecchi anni fa mi respinse a calci nel culo e soprattutto a tuoni e lampi sulla testa. Nelle previsioni pre-gara, annunciate via mail, speravo (senza crederci troppo) di fare un tempo attorno a Pi Greco: 3 ore e 14 minuti.


Ora non starò a ripetere per l’ennesima volta quanto mi piaccia il bosco di Vallorch. Quello, come scritto sempre da Dopolavori, l’ho ripetuto allo sfinimento (di palle per chi mi ascoltava) dalla postazione dello speaker. Diciamo che è un “Bedolpian Mille Pini” ancora più pulito e finiamola qui. Mi sono fidato ad entrare nel bosco in calzoncini corti e, come previsto, ne sono uscito senza nemmeno un graffietto sulle gambe: l’unica cosa con la quale ci si può scontrare a Vallorch sono i tronchi degli alberi! Non starò ovviamente a fare un resoconto lanterna per lanterna del mio percorso, perché ai lettori non basterebbero le ferie per terminare il pezzo ma una catastrofe atomica che obblighi tutti a stare chiusi in un bunker per anni.

Mi limiterò a dire che al punto 4 il mio pensiero è stato: qui gli Elite veri (ah si! Perché sto facendo anche io il percorso Elite) viaggeranno a 4 minuti al chilometro sforzo! Questa la visibilità nel bosco dal punto 4:


(però che Vallorch sia un bosco da Esordienti me lo viene a dire solo chi era lì,
non chi stava sul divano di casa…)

E’ stato a questo punto, mentre ingurgitavo il primo carbogel del pomeriggio, che ho pensato che, se fossi riuscito a cavarmela nella zona delle rocce, il più sarebbe stato fatto: da lì in poi avrei solo dovuto avere pazienza e resistenza nelle gambe per terminare il primo giro, cambiare carta e poi completare la mia personale impresa. Già ma… come arrivare in sicurezza (orientistica) nella zona delle rocce? La soluzione la racconta il campione europeo e pluri campione italiano Misha Mamleev che, credo unico oltre a me, ha fatto questa scelta:


Si, poi lui a vinto VOLANDO letteralmente a 4 minuti al chilometro sforzo… ma volete mettere la soddisfazione di aver fatto la stessa scelta di Misha? (si… ok… io alla 5 sono arrivato un po’ a ovest, alla depressione, e da lì mi sono spostato ad est… ma era una cosa voluta!)

Vado con calma tra le rocce, il crepuscolo arriverà molto tardi… sbaglio la 7 perché cerco un naso e la lanterna è nell’avvallamentino subito dietro. Sbaglio la 8 perché arrivo sulla carbonaia a sud, scendo di corsa e quando arrivo alla carbonaia a nord del punto mi sembra di essere un cretino patentato. Per la 9 mi sposto ad est e poi devo solo morire un po’ fino alla cima della collina, ma quando mi metto a correre nell’avvallamento mi sembra di che l’unica cosa che manca è un aquilone da trascinarmi dietro. La 11 non è sbagliabile (anche se arrivo alle roccette appena a nord) e poi da lì fino alla 13 devo soltanto seguire i passi del posatori, che hanno lasciato nella moquette del bosco una traccia impercettibile appena più lucida del terreno attorno, cosicché arrivo alla 12 e poi alla 13 che mi sembra di essere un incrocio tra il campione del mondo e Tiger Jack che segue le tracce con Tex Willer. Mi frega un po’ la 14 che cerco sul costone; non trovandola,  e non avendo pensieri del tipo “sto buttando via la gara”, decido di scendere sul fondo della valletta per vedere bene il costone da sotto e… la lanterna è proprio sul fondo.

Cambio carta. Prima di partire avevo lasciato una bottiglietta d’acqua a Ercole Pin per avere un minimo di ristoro a metà gara. Ercole aveva lasciato la bottiglietta nel punto preciso pattuito, ma poi sono arrivati i ragazzi del Tarzo a montare la zona arrivo e… cosa fanno per prima cosa ‘sti benedetti meravigliosi ragazzi?Per prima cosa raccattano tutta la (rarissima) spazzatura presente in tutta l’area dell’arena di gara, perché l’arena di Vallorch è un salotto con vista sul Paradiso e come tale la dovremo lasciare. Ed ecco che anche la mia bottiglietta va a farsi un giro… per fortuna al mio arrivo al cambio carta Ercole ha già fatto in tempo a scendere a Cadolten a correre il model event, tornare e procurarmene un’altra!


Buco l’unica zona di colore verde che il tipografo ha dovuto colorare… sassone e poi su fino alla buca: dritto! Poi ancora su (fatica e gambe che urlano!) ma il re di tutti i cocuzzoli è lì che mi aspetta e lo vedo da 100 metri di distanza. Da lì capisco che, se arrivo alla 18, poi è andata. Salgo ancora con le gambe che urlano di più, cercando di sfruttare il più possibile la costa salendo dolcemente: prima pista da sci, seconda pista da sci, la collinetta a forma di uncino mi appare grande come una cattedrale! Il laghetto è mio amico, ed il sentiero che verso ovest porta al ristoro e verso nord al Villaggio Cimbro è stupendo (comincia la mia personale litanìa del tipo “se dovessi morire, seppellitemi qui… no lì! No meglio ancora lì!!!”. Sentierino verso ovest “ma da qui non ero già passato per andare alla 12? Allora sono proprio a casa!” e mi accorgo che c’è una specie di Mississippi che fa da linea di arresto per me. Quando arrivo alle roccette, e comincio ad essere davvero stanco, penso: “se la lanterna e qua dietro, sono stato bravo…”. E’ lì dietro. Mi fermo il tempo necessario per prendere il secondo carbogel e prendere fiato, e mandare un messaggino a Tenani per dire dove sono e che sono ancora vivo, che sono “live” dal bosco e che da adesso gli faccio la cronaca diretta!

La 19, dalla cima della collina, non è sbagliabile nemmeno bendato, ed io comincio a pensare che potrei correre in questa parte di bosco a piedi nudi senza pericolo. Anche la lanterna della 21 la vedo da lontano, e poiché ho ancora un carbogel decido di ingurgitarlo e intanto faccio (e mano a Teno) un’altra foto:

(questo sarebbe un avvallamento???)

Con le roccette della 22 e la collina della 23 ormai ho fatto un accordo pre-matrimoniale, la buca della 24… beh!...  Ci sono due recinti a destra e un Mississippi a sinistra! La 25 decido di prenderla da sentiero ad ovest, anche perché la combinazione dei due fattori “vado lento come una tartaruga rovesciata” + “ho appena bevuto due carbogel” mette improvvisamente il turbo ai miei poveri piedi… e la sbaglio!!! Cioè: la sbaglio per gli standard di questa gara! Non mi accorgo che scollino e, alle due rocce, mi sembra di essere tornato un Esordiente. Torno indietro e punzono e, guardando attorno a me, penso che manca poco per finire e lasciare questo angolo di Paradiso (mi sfiorerà il pensiero di provare, domenica mattina, un altro percorso… ma le gambe diranno “no!”); l’altro pensiero è che la visibilità qui è di 200 metri e che domenica mattina a molti basterà tenere la testa alta, non solo per evitare gli alberi ma anche per vedere dove va a punzonare qualcuno che sta 1 o 2 minuti davanti…

Scollino di nuovo e vado a riprendere il sentiero che porta al Villaggio Cimbro, che è stupendo. Il laghetto ormai è diventato mio cugino, il terreno è morbido che sembra di correre su un tappeto, la 26 non la posso sbagliare nemmeno in stato di ubriachezza molesta… ma mi sorprendo a pensare che se fosse un po’ più difficile potrei sbagliarla e rimanere ancora qualche minuto in questo posto bellissimo. Le rocce della 27 ormai non mi sorprendono più, ed io rido! Rido perché l’orologio segna 2 ore e 34 minuti… altro che Pi Greco, e mi piacerebbe tanto poter essere nel bosco domenica mattina a vedere passare gli Elite con la loro velocità supersonica, e anche tutti gli altri: vedere le facce che fanno quando sono nel bosco e scrutare se anche loro stanno pensando qualcosa del tipo “seppellitemi qui”.

Arrivo alla 100, già posizionata, e per stanchezza sbaglio a girare in laghetto e mi tocca fare un giro completo in senso antiorario per rispettare il corridoio di arrivo che dovrà ancora essere posato. Finita. Finita… ma il primo pensiero è: perché deve essere finita? Non posso tornare là dentro a giocare?

(foto by Ercole Pin)

Cosa sta facendo quest’uomo?

  1. Crede di essere Papa Francesco e benedice i presenti
  2. Crede di essere un grande atleta e maledice il tracciatore
  3. Crede di essere una persona fortunata e racconta “sono andato via in costa…”

Domenica 17 toccherà agli altri divertirsi. Io mi dovrò “accontentare” della postazione speaker…


… ma chiedo scusa a tutti se in qualche momento della mia cronaca live, vedendo passare gli atleti, siano essi super-atleti o soltanto amici orientisti di fondo classifica, il mio unico pensiero è stato “perché loro sono ancora lì dentro a giocare ed io no?”.


Dedicato a tutti i ragazzi e ragazze dell'Orienteering Tarzo e del GS Forestale.
E dedicato a Misha, che ha davvero volato la gara a 4 minuti al chilometrosforzo. Lo invidio tanto, ma anche io mi sono divertito tantissimo.

E poi adesso io e lui siamo “fratelli di scelta lunga”… :-)

 

Tutti gli altri riassunti... da Revine al letto di dolore

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“Cade! Urla la folla. No, non cade”. Quando bastano poche parole per raccontare una storia, vuol dire che quella storia è degna di essere raccontata; o che il narratore è riuscito nel suo compito: le sette parole con le quali Georges Magnane introduce il dramma vissuto da Etienne Gailly alle Olimpiadi di Londra 1948. Avevo nove anni, nel 1976 Google e Youtube non erano ancora nemmeno nella mente dei loro inventori, e passavo parte del mio tempo a cercare in giro ritagli e racconti di sport nei giornali che trovavo in cantina o nelle raccolte di carta fatte per la scuola. Etienne. Gailly. Un nome ed un cognome che mi colpirono subito. Mia madre mi aveva spiegato che “Etienne” era la traduzione in francese del mio nome (Guetsch Patti sarebbe arrivata molto dopo…). “Gailly” era un cognome abbastanza simile al mio. Quella di Georges Magnane era la storia del paracadutista belga entrato primo, ma sull’orlo della morte per sfinimento, nello Stadio Olimpico di Londra e poi giunto terzo al traguardo. Non l’ho mai dimenticata.

Mi fa ridere che, oggi, sulla copertina di GQ ci sia la brutta faccia di Vincent Cassel che recita “Noi cinquantenni facciamo paura per quanto ci regge il fisico”. Se GQ fosse un giornalino per adolescenti, probabilmente in copertina ci sarebbe Justin Bieber a raccontare la stessa frase con qualche anno di meno nella citazione… ma credo che in fondo il target di vendita di GQ sia abbastanza diverso da quello adolescenziale, e quindi ognuno mette in copertina le cose che fanno tiratura per il proprio pubblico. Certo che vorrei vedere Vincent Cassel alle prese con una maratona olimpica, ma forse… chissà… se la caverebbe molto meglio di me: nonostante la brutta faccia da “maldit”, credo che Cassel abbia goduto di più agi in vita sua di quanti potrebbe averne avuti in una vita il povero Gailly, che si fece pure la guerra di Corea ed ebbe una gamba amputata.

Io, che cinquantenne non sono ancora anche se manca proprio poco, non faccio di certo paura per il mio fisico. Se è vero che all’età di nove anni ero rimasto colpito dal racconto di Gailly, quella storia ha lasciato dentro di me è un senso dello “scorrere delle cose” che mi accompagna ancora oggi: Gailly continuava a mettere un piede davanti all’altro sapendo che, presto o tardi, la meta sarebbe arrivata. Il significato dello spazio e del tempo forse sono nati in me leggendo quel pezzo di Georges Magnane. Per contrappasso, a distanza di quasi 40 anni, da speaker avrei finito per dire frasi come “l’orienteering è l’unico sport nel quale ogni metro che si percorre non è detto che ti porti più vicino al traguardo”, e non è che me le invento dall’oggi al domani (d’altra parte Per Forsberg è diventato famoso per “OhiOhiOhiOhiOhi!!!”…). Lo spazio si percorre, talvolta a prezzo di sforzi indicibili; il tempo scorre in modo ineluttabile. E se alla fine ho scelto di praticare uno sport nel quale lo spazio di aggroviglia su se stesso peggio che il cavo di un auricolare, il tempo rappresentano una meta o un traguardo che nel corso degli ultimi anni ho imparato a valutare in termini di “distanza dall’obiettivo”. Questo succedeva alcuni anni fa quando, lavorativamente parlando, mi trovavo a far fronte ad impegni che prevedevano 3 o 4 week-end consecutivi di lavoro: sapevo che il primo momento di pausa sarebbe arrivato a distanza magari di un mese o più, ma sapevo che ogni secondo trascorso mi avrebbe avvicinato a quella meta. Questo succede oggi, quando il calendario degli impegni agonistici si affastella di appuntamenti irrinunciabili che, necessariamente, finiscono per diventare molto demanding sul mio fisico che non ha di certo la resistenza di quello di Vincent Cassel.

Ecco perché oggi sono qui a scrivere nel pieno delirio della febbre… Le ultime 4 settimane sono state tra le più intense della mia vita recente, in senso orientistico si intende. Non so quanti chilometri ho percorso tra viaggi di lavoro e trasferte sportive; non so quante ore ho trascorso parlando a potenziali clienti o agli orientisti che ancora mi sopportano. Ignoro quante maledizioni mi ha tirato il mio povero fisico, malridotto da sveglie all’alba, viaggi aerei in sedili sui quali starebbe stretto un brevilineo, ricerche di passaggi anche in autostop per arrivare per primo al campo di gara. Revine, poi Magreglio, poi Vedàno e Merate, infine Caoria e Calaita sono state le tappe che mi hanno portato in lungo ed in largo per il nord Italia a spendere tutte le energie che avevo, spesso a spenderle in modo decisamente spregiudicato (almeno a leggere i risultati più recenti). Ma non mi lamento: anche se ho ceduto proprio in vista del traguardo, mentre si avvicinava il week-end del 14 maggio che avevo messo nel mirino come “primo momento di stacco” (nonostante la concomitanza con la Due giorni del Ticino), devo ammettere con il senno di poi che non avrei rinunciato per nulla al mondo alle gare che ho elencato sopra. E se alla fine il fisico ha reclamato il conto… pazienza!

Poiché il post definitivo, definitivissimo, su TUTTE le gare di orienteering lo ha scritto dopolavori per celebrare (o solo raccontare?) la sua medaglia d’argento ai Campionati Italiani Sprint a Caorìa, questa modesta pagina vergata da me diventa il semplice diario delle mie fatiche, un diario che consulto sempre più spesso quando gli amici mi chiedono “ma dove eravamo il giorno X del tal mese del tal anno?”. Aprire il blog, controllare le date e trovare la risposta è diventato un gioco da ragazzi, con il quale riannodare anche tanti fili della memoria emozionanti e sorprendenti. Certo… non vincerò mai il premio Pulitzer come ori-scrittore, ma se un giorno dovessi comparire davanti al giudice e sentirmi rivolgere la domanda “Imputato! Dove era il giorno X alle ore Y?”, potrei sempre rispondere “controllate il blog, Vostro Onore”.

Avevo lasciato il racconto alle pendici del bosco di Vallorch, Pian del Cansiglio, in un venerdì di           metà aprile, e mi ritrovo a casa messo a letto dalla febbre il giorno 10 maggio. In mezzo ci sono state:

  • una gara sprint a Revine, che era l’antipasto di Vallorch… ma in realtà per me è stata il dessert;
  • le tre-gare-tre del “Rocks around the CLOC” (come avevo deciso di chiamarlo prima che qualcuno sul sito FISO parlasse di “Worl Cup”…) nelle quali il Nirvana Verde mi ha messo al tappeto non una, non due ma tre volte;
  • il week-end sprint lombardo di Vedano al Lambro e di Merate, nel quale direi che Merate ha rappresentato il top della mia prestazione agonistica del mese;
  • il week-end di Campionati Italiani, quello sprint a Caoria e quello middle al Lago di Calaita, nel quale ho letteralmente “agonizzato” sotto gli occhi esterrefatti del pubblico.

Arrivato a casa, il fisico ha ceduto; febbre, faringite, infezione alla gola, ancora febbre. Nel delirio degli incubi che mi colgono quando ho la febbre, compaiono fugaci immagini di gare passate o di gare future alle quali non ho ancora preso parte, o semplicemente immagini di orienteering che semplicemente non possono esistere nella realtà. Ma in fondo chi può dire quanta parte delle mie recenti gare sia stata reale e quanta parte io l’abbia vissuta quasi da spettatore esterno, che si chiede ad ogni passo faticoso chi glielo faccia fare, a quel panzone lì, di provare ancora a mettersi la bussola sul pollice sinistro e la si-card sul medio destro e cercare di far quadrare la fatica quotidiana con le salite, i terreni impervi, il sole che picchia ed il sadismo di qualche tracciatore?

REVINE – Sprint Race Tour – 16 aprile

Sono reduce dalla gara Long di Vallorch, e le mie gambe si fanno sentire eccome nonostante una notte di sonno meraviglioso a casa della mamma di Roland Pin a Sotto Croda. Revine mi appare subito come appare un paese dalle pendenze significative, d’altra parte lo diceva pure wikipedia (e tutto ciò costituirà l’inizio della cronaca diretta), che è meglio percorrere sull’apecar anziché con le scarpette da corsa; ma tutto posso pensare tranne che quel diavolo di Roland ci manderà a fare la spesa (di lanterne) fino al santuario in cima al monte, dal quale si tiene a bada tutto il paese…  Che faticaccia! Comprovata dalla pozza di sudore lasciata pochi metri dopo il traguardo mentre, affannatissimo, raccontavo le mie scelte di percorso al tracciatore. Un’altra bella sprint in Elite, dopo quella di Pieve di Soligo, decisamente azzeccata in previsione dei Campionati Italiani di Caorìa.


(preparazione della partenza, con Carlo Pilat)
(ma chissà che cosa gli stavo raccontando… si nota il mio fisico “a pera”?)

(pochi istanti prima della partenza: esiste anche un filmato della partenza – made by Ercole Pin – che riprende nell’ordine: Carlo che quasi si ammazza nello scendere dal gradino, io e Carlo che giochiamo all’autoscontro alla prima curva perché le nostre tracce si incrociavano, io che sbanfando in salita come un asino cerco di allontanarmi il più velocemente possibile dalla zona delle operazioni per paura che Ercole stia correndo dietro a me e riprendendo la mia gara… invece per fortuna era andato dietro a Carlo)

(il punto santuario… e gli “accidenti” che non sono volati!!!)

(primo giro Elite maschile)

(secondo giro Elite maschile, dal punto 19 ho goduto della compagnia di Carlo, che la sua gara l’aveva già finita da un pezzo, ma spero di avergli fatto vedere che corro ancora con una certa baldanza… in discesa!)
(postazione speaker approntata da Edoardo Tona, da cui si evince che non è necessario che lo speaker conosca a memoria tempi e nomi di tutti coloro che arrivano sul traguardo…)
(qui sembro quasi bello!)

(in intervista volante con un Alessandro De Noni finalmente sorridente per la sua gara)

(si… alla fine sull’apecar di papà Bernardi ci sono salito davvero! Ed è stato più emozionante del Tuono Blu a Gardaland)
Se qualcuno dovesse ripassare da Revine, sappiate che OFFRO DA BERE a chiunque mi porti la foto di QUEL CARTELLO (!) che dice “pendenza 3%”, laddove in realtà c’era una strada sconnessa in salita con pendenza “30%” da sbucciarsi il naso. Altro che Koppemberg! Lì si che ho pensato di avere le allucinazioni! Il mio naso era così vicino all’asfalto che ho pensato che se la salita era davvero al tre per cento, allora stavo strisciando!!!

Altre due birre daranno pagate a chiunque mi porti due motivazioni valide delle due citazioni nascoste nell’ultima frase: “QUEL CARTELLO (!)” e “da sbucciarsi il naso”.

“Rocks around the CLOC” – Magreglio – 23 + 23 e poi anche 24 aprile

Diciamo subito che il nome alla tre giorni gliel’ho dato io (perché siamo sempre allo “scusate se Shakespeare mi fa una pippa”) e sia finita lì. CLOC, per tutti coloro che non sono avvezzi con la morfologia lombarda, credo stia per “Como Lake Orienteering Championship” ovvero il nome che il Nirvana Verde ha dato alla DUE giorni di TRE gare di Magreglio. Io gliene do un altro, quello nel titolo appunto, ma avrei anche potuto scrivere “The Como Lake Massacre”. D’altra parte le premesse c’erano tutte. Innanzitutto io arrivo da… boh?!?... chi si ricorda da quale viaggio ero reduce?... e quindi c’è la concreta possibilità che io arrivi a Magreglio direttamente da Linate o Malpensa, con trolley al seguito (cosa che si verificherà puntualmente la settimana successiva, e poi quella dopo ancora). In secondo luogo dovevo sapere che ci sono tre condizioni ben precise per optare per una scelta di categoria “conservativa” (nel senso di conservare pelle e dignità), ovvero di SCENDERE REPENTINAMENTE DI CATEGORIA: quando il tracciatore è Marco Bezzi, quando il tracciatore è Andrea Rinaldi e la gara è in notturna, oppure per tutto ciò che riguarda il Nirvana Verde.

Non è colpa loro, ovviamente, ma mia.Però è da tempi non sospetti, da quando commentavo le gare dei Piani Resinelli o di Carvico, che mi sono convinto che i ragazzi del Nirvana verde (tutti, nessuno escluso) siano i più tosti, duri, coriacei e temibili tracciatori del circondario. Sapevo quindi che il CLOC sarebbe stato uno scoglio molto duro da superare, sommandosi anche la difficoltà logistica. Tra le possibilità, c’era quella di rinunciare del tutto alle gare, ma in una consultazione del fine settimana precedente si era stabilito che a Piero sarebbe piaciuto salire a Magreglio il sabato per la middle distance, anche per la coincidenza con una successiva “city race” serale a Magreglio, e che a Roberta e Attilio sarebbe piaciuto salire la domenica per la long distance. Quando c’è da prendere decisioni avventate, non sono secondo a nessuno: sarei salito a Magreglio sia il sabato che la domenica.

Sabato la media distanza è davvero tosta per le mie energie residue, e la mia posizione in griglia come ultimo partente (questo era un aiuto arrivato dagli organizzatori in previsione del mio arrivo da oltre confine) mi vede nella condizione di non poter approfittare di alcun “traino” nel bosco. Il percorso è tosto, ma ancora non mi capacito degli errori continui di orientamento che faccio durante tutta la gara! Fatta eccezione per la prima lanterna, dove bastava seguire in discesa le tracce di chi era passato prima di me, per il resto metto assieme solo orrori e scempi. Più volte passo a pochi metri dalla lanterna senza vederla, convinto peraltro che il mio punto sia più avanti, o più a destra, o più a sinistra ma sempre e comunque in un posto diverso. Di sicuro faccio una bella gara di “ricollocamento”, visto che ogni volta devo capire dove sono finito e come ritornare sulla retta via, ma tutto posso dire tranne che aver reso omaggio allo sport dell’orienteering.

Riesco persino a sbagliare il percorso fettucciato (20 metri!) tra la lanterna 100 e l’arrivo…

Come ultimo a partire nella middle distance pomeridiana, sono probabilmente l’ultimo sul traguardo e quindi non c’è molto tempo prima della partenza della city race serale ed i muscoli (seppure di piombo) non si raffreddano molto. Una “city race” sembra il classico appuntamento di puro divertimento per poter dire agli amici di aver fatto una gara in più e tornare a casa con una cartina che gli altri non hanno. Mi aspetto una cosa semplice, tanto il paese di Magreglio è lì che sembra fatto apposta per una corsetta di 15 minuti (per i più forti).

Avevo dimenticato il “fattore Nirvana Verde” (e no, Mario! E’ inutile che mi racconti che la gara non l’ha tracciata uno del Nirvana… gli possino!!! Si vede che basta solo la vostra vicinanza per alzare il livello di puro sadismo dei tracciatori).

Punto 36, poi punto 50 e soprattutto punto 34! Altro che il punto alla base del Santuario di Revine! La partenza è in massa con tutti i ragazzi più forti schierati nelle prime file. Io mi metto in fondo per evitare di essere calpestato dal branco di scalmanati, ed al primo bivio vedo distintamente il gruppone andare a destra ed il solo Marco Seppi andare a sinistra; il mio cervello in un nanosecondo fa l’operazione “Marco Seppi + finali ai Campionati mondiali sprint = si va a sinistra!”. Ovviamente Marco si dilegua a tutta velocità nei successivi 4 nanosecondi. Alla lanterna 46 io entro nel parchetto che lui sta uscendo, alla 44 io entro nella via verso est che lui sta tornando indietro verso ovest, per la 32 decido di girare in senso antiorario attraverso i boschetti grezzi (molto più percorribili di come diceva la carta) ma Marco è già sparito. Il cancello che dovrebbe portare fuori dal parchetto della 60 è sprangato: mentre scavalco l’inferriata sento la voce di una vecchietta a pochi metri che racconta al cellulare “… mi hanno rubato anche il… quello che mi avevano rubato anche la volta scorsa e che avevano poi ritrovato…”. Ho come la sensazione che i presenti, sentendo le parole della vecchietta e vedendo me che vestito in modo improbabile sto scavalcando una recinzione, stiano per tirare fuori la spingarda caricata a sale grosso!

Poiché sono da solo e sto girando in senso opposto rispetto a tutti gli altri, penso “sarà molto bello incrociare il gruppetto dei primi e vedere che si stanno dando battaglia”. Errore. Vedo passare Emiliano. Da solo. Dopo qualche minuto Sanuele. Da solo. Poi Luigi. Sempre da solo. Il percorso è talmente duro che anche i migliori si sono dispersi con distacchi che si misurano con il campanile di Magreglio. L’uscita dalla 36 verso nord-ovest è penosa; per la risalita verso la 34 (e così a prima vista credo che manchino delle curve di livello tra il bordo del recinto e la roccia) vorrei avere in sottofondo l’accompagnamento delle litanìe di Luca Mapelli. Andando verso la 50 incrocio Farah e Roberta che stanno spingendo i passeggini (ma pure il percorso “mamme con il passeggino” è così tosto???) e dico loro di recapitare al traguardo i miei accidenti perché ormai dubito di sopravvivere al massacro. L’ultima parte si corre nel borgo, davvero carino, di Magreglio e mi vede alle prese con qualche passaggio in carta che non corrisponde alla realtà, cosicché mi sorbisco altro dislivello ed altra strada inutile. Al traguardo, completamente “terminato”, ho due sole parole per il tracciatore: “Ma vaff…ulo!!!”. E chiedo di poter cambiare categoria per il giorno successivo.

Dopo una notte di sonno tormentata, risalgo domenica mattina a Magreglio pensando di gareggiare in over-45 (non che sia meno tosta, ma almeno è meno lunga). Lì comincia una specie di fiera degli equivoci… Nelle griglie esposte sono ancora in MA: ok, metto in conto che mi ritirerò a metà percorso e comincio a prepararmi. Poi incrocio Marco Colombo che mi dice che mi ha spostato in M45 (grazie Marco!). Però poi mi dice che il mio orario di partenza è già passato… Alla fine, spiegati gli equivoci alla partenza, partirò per ultimo anche nella Long.


Che è una bella long distance! Solo che allo scoccare dell’ora di gara finisco davvero la benzina residua e, per arrivare alla 14, impiego un tempo da vergognarsi… Comunque tutto è bene quel che finisce bene, ma la prossima volta che il Nirvana Verde ed io incrociamo i nostri passi devo stare molto e bene attento a mettere in chiaro subito le cose al momento di fare l’iscrizione. E di “city race” ne riparliamo… J

Lombardia sprint week-end – 30 aprile e 1° maggio

Si arriva da un altro viaggio, direttamente con il trolley fin sul campo di gara. Il sabato si gareggia a Vedano al Lambro, il meteo dice che dal cielo verrà giù di tutto e quindi sul campo di gara si appoggia una cappa di umidità che mi prosciuga. Come sprint del sabato non è affatto male… davanti a me parte Christopher Gallo che ha appena fatto il record sulla 50 km Lecco-Trezzo, e quindi posso pensare di prenderlo solo se gli tiro addosso un missile Cruise alla partenza.


Dietro di me parte Antonio Cancelli, e devo soprattutto a lui (che i raggiunge e quindi mi tira) il fatto di essere uscito indenne dalle due tirate 7-8 e 9-10… Cerco di conservare quel minimo di dignità nelle prime tratte del Parco di Monda a bordo parabolica, visto che il parco è pieno di famigliole in gita, mi difendo con un po’ di grinta nell’incrocio 10-11-12-13 in mezzo alla piantagione di erba cipollina (le mie scarpe non perderanno mai quell’odore di cipolla!!!), ma la risalita alla 14 sulla collinetta di Vedano è pietosa. Ancora più pietosa la successiva sequenza tra le vie del paese: mi rendo conto di essere davvero lento, ma poi riesco a sbagliare in pieno la 23 e soprattutto la 25 (mi infilo in un cortile privato senza nemmeno essermi accorto di aver superato la stradina dove dovevo svoltare) e sono ad un passo dal mandare a pallino tutte le mie velleità orientistiche maturate in 20 anni di onorata carriera.

La foto simbolo del pomeriggio dovrebbe essere quella di me che, dopo la gara, stanco ed abbattuto, mi allontano verso la statale trascinandomi appresso il trolley. Almeno, così si ricorda di avermi visto Giorgio Gatti… per fortuna quella foto non c’è! E per fortuna che poi la notte tra sabato e domenica si dorme, così il diluvio che alla fine arriva nottetempo rinfresca le idee ed il giorno dopo c’è la bella sprint di Merate.

Sarò sempre legato a Merate, perché lì è dove mi sono laureato all’Osservatorio Astronomico; durante alcune giornate passate a scrivere la tesi, ogni tanto facevo tappa in centro per incontrare qualche essere umano (non che in Osservatorio non ce ne fossero, ma erano tutti così intenti a studiare!) ma non avevo mai osservato così approfonditamente le vie del centro. Irene e Mery tirano fuori da Merate un bel percorso labirintico, ed il mio tempo finale di gara non si avvicina nemmeno un po’ al doppio del tempo di un finalista ai Mondiali come Andrea Seppi che, mi dicono, ha provato il percorso in allenamento durante la settimana per suggerire gli ultimi ritocchi.

Ci sarebbe quindi da pensare di andare a Caorìa e Calaita per i Campionati Italiani Sprint e Middle con un minimo di ambizioni di fare sempre qualcosa di meglio del doppio del tempo del vincitore in Elite…

Campionati Italiani Sprint e Middle – 7 e 8 maggio

… se non fosse che ci arrivo dall’ennesimo viaggio, e l’ago della benzina è in zona rossa, rossa, rossa che più rossa di così c’è solo il bordeaux. Intendiamoci, con tanta o poca benzina salire alla Valle del Vanoi per dei Campionati Italiani vale sempre il prezzo del viaggio e della distanza, soprattutto quando si può contare su uno spettacolo come queste montagne (in caso di maltempo, sarebbe stato da “si salvi chi può!”…).


Anche il paesino di Caorìa si dimostra una bella location per un campionato italiano: un paesino striminzito, una carta lunga molto più che larga (e meno male, perché “largo” avrebbe significato “alto”, ovvero tante curve di livello da attraversare visto che la montagna è a strapiombo sul paese), poche strade ma tanti passaggi tra le case disposte in modo irregolare tra il torrente e la montagna; la location dell’arena di gara è davvero carina anche se molto piccola, con la caratteristica che i percorsi più lunghi (Elite, under-20, over-35) hanno un cambio carta al punto spettacolo, lo stesso punto che per tutte le altre categoria era la “lanterna 100”, ovvero l’ultimo punto di controllo prima del 30 metri finali in curva e in salita. Ne sono venute fuori delle belle scenette… perché non tutti gli atleti hanno letto il comunicato gara o hanno capito se dovevano entrare subito nel curvilineo di arrivo (andando a destra dopo la 100) o proseguire per il secondo loop dopo il cambio carta (andando a sinistra). Si sono visti atleti anche forti, anche fortissimi, anche con esperienza ai Mondiali (Assoluti!) andare verso l’arrivo per poi tornare indietro, o prendere a sinistra anche dopo il secondo giro per poi arrivare a punzonare il finish da direzioni assurde; tutto questo a causa della solita mania di seguire l’atleta che sta davanti!

Alcuni atleti non si sono resi conto che “cambio carta” non significa trovare un’altra serie di cassette da dove raccogliere la seconda mappa, ma semplicemente “girare la carta imbustata dall’altra parte”, dove c’era la seconda mappa con il secondo percorso… il grido “Ma dove è il cambio carta???” seguito dal grido “Gira il foglio, cretino!!!” credo che risuoni ancora nella valle.

Io affronto la partenza, fin troppo in salita, sotto la caldazza delle ore 14 di un assolato pomeriggio nel quale le frequenti fontane diventano una attrazione quasi irresistibile. Se devo dare retta al memorabile resoconto di Dopolavori cui ho messo il link, le mie gambe hanno gareggiato a Caorìa portandosi appresso non solo il ciuchino, ma anche tutti i trolley e tutte le masserizie che ho scarrozzato avanti e indietro per aeroporti in queste ultime settimane. Per fortuna che il passaggio al punto spettacolo – che sarebbe anche la lanterna 100 – è in discesa e mi consente, per l’ultima volta, di fare un po’ bella figura davanti al pubblico…

Nonostante io ce la metta tutta, questa volta il miraggio di fare meno del doppio del tempo del vincitore rimane, appunto, un miraggio. Non mi aiuta di certo il fatto che nel corso del primo giro tra il punto 13 ed il punto 14 provo l’irresistibile desiderio di rotolarmi tra le ortiche, passando per primo nel punto più scosceso del percorso e, di fatto, tracciando il sentiero per tutti gli altri. Per fortuna non ci sono immagini del sottoscritto che si rotola lungo il pendio, ma ce ne sono in abbondanza di un arrivo nel quale la sofferenza incisa sul mio volto racconta più di mille parole… ed era solo una gara sprint!

Sarebbe bello dire che tengo le ultime energie per onorare la gara di domenica al Lago di Calaita, sotto le Pale di San Martino, ma la verità è che di energie non ne ho più. Se ne accorge subito Fabio Dalla Riva che, alle 8 del mattino di un FREDDO mattino di montagna, mi vede arrivare alla partenza dalla parte sbagliata, mi vede partire nella direzione sbagliata e, dopo avermi fermato e spiegato dove mi trovo, esclama con tutto l’amore che ha per il sottoscritto (siamo vecchi amici): “Ma ti sei svegliato stamattina o stai ancora dormendo???”.
Le gambe non ne hanno più. Cerco almeno di limitare i danni facendo almeno un buon orientamento, ma anche quello rimane abbastanza fuori dalla mia portata. Il finale di gara, sotto gli occhi abbastanza attoniti di tutta l’arena di gara che si gode lo spettacolo dell’area nella quale sono posate le ultime lanterne, è a metà strada tra l’increscioso, il “da vergognarsi” e il “ma dove crede di andare quello lì?”. Non credo neppure di aver conservato molta dignità, ma non avevo più nemmeno una goccia di carburante da spendere.



Il fisico, fin da domenica sera al rientro a Milano, ha presentato il conto… E adesso? Adesso si pensa già alle prossime uscite, no? Forse Cunardo (se mi sarò ripreso) e poi il gran week-end della Relay of the Dolomites prima dell’ultimo fine settimana di Coppa Italia pre-ferie estive. Perché sono stanco, sono distrutto, sono demolito… ma sono prima di tutto un orientista: io guardo sempre dove sta la prossima lanterna. Nella speranza di trovarla con un po’ più di vigore, di ardimento, di energia rispetto a come sono andato loro incontro nelle ultime uscite!

Rallies e Relay...

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C’è sempre un senso di sollievo nel tornare a casa dopo una lunga serie di trasferte, che siano per lavoro o per diletto, e nello scoprire di essere ancora in piedi, di avere ancora tanta voglia di vedere qual è il prossimo appuntamento ma, soprattutto, di avere almeno un paio di mutande pulite che avanzano per andare in ufficio il giorno successivo! Le mie doti di resistenza, messe alla prova in varie edizioni della O-Marathon, alle O-Ringen o persino ai raduni trentini, ormai, si misurano in una unità di misura che sarà presto ufficializzata a Parigi (alle sfilate di Parigi, intendo): le mutande pulite.

Si comincia con il primo fine settimana di gare, e nelle borse che fanno la loro apparizione in corridoio, cominciano ad essere infilate: una mutanda per la gara, una per il dopo gara, una per riserva… ma subito dopo arriva la trasferta all’estero: questo significa 4 mutande per precauzione dato che il viaggio è di tre giorni! Però poi al rientro in aeroporto ci si mette subito in moto per andare al fine settimana di gare successivo: due gare = tre mutande… ah no! C’è anche l’allenamento del venerdì! Il cassetto delle mutande si svuota progressivamente mentre si accumulano in corridoio le borse, le valigie, i post-it appoggiati ad ogni valigia con l’elenco delle cose che vanno prelevate da una borsa e messe in quella immediatamente successiva (il promemoria contiene, per ogni oggetto, il posto da cui proviene e la valigia in cui deve andare senza rischiare di finire in giro per la vituperata casetta).

Il loop gare-trasferte di lavoro prosegue per qualche settimana, dopodiché comincio ad accorgermi che il numero delle valigie in corridoio diminuisce, e che contemporaneamente il cassetto delle mutande agonizza; ma i calcoli fatti – che quelli di Los Alamos erano dilettanti! - per mantenere quella mutanda di margine si confermano esatti: le trasferte finiscono, la mutanda sopravvissutaè quella che mi consente di andare in ufficio lunedì senza puzzare di bosco, e intanto la lavatrice comincia a tremare! Cunardo, Relay of the Dolomites e le gare di Coppa Italia in Valsugana e Tesino. Questo è stato il menu proposto nelle ultime tre settimane di gare. Un menu che, dal punto di vista dell’atleta impiegato panzottello che ogni tanto mette in mostra una leggera punta di orgoglio, posso dire di aver gestito meglio rispetto a quello dei Campionati Italiani alla Valle del Vanoi.

Primo episodio: Cunardo

L’antipasto di questa serie di gare è costituito da una gara di Trofeo Lombardia su una carta appena a sud del confine di Ponte Tresa a circa 80 minuti di macchina da casa. A Cunardo ho corso sia per il TMO svizzero che per la seconda tappa di ExpOri nel 2015, ed onestamente ho dei ricordi migliori della gara svizzera rispetto a quella lombarda! L’anno scorso, infatti, la gara di Cunardo fu di una durezza spaventosa, resa ancora più assurda dalla terribile caldazza che si era abbattuta sul nord Italia in quel periodo (e di cui avemmo ulteriore prova due giorni dopo durante la gara di Milano, con coccoloni, svenimenti e crolli vari); una gara che, modestamente, ho vintoma se avete davvero voglia di andare a guardare il link siete “bastardi inside”: diciamo che per il sito Fiso sono stato l’unico italiano ad arrivare al traguardo, con un tempo inguardabile e da fuori tempo massimo (dal divano di casa, sempre dal divano di casa) conquistato a prezzo di terribili sofferenze, ansie, botte di caldo, passaggi ripetuti e molteplici dai ristori per bere qualunque cosa fosse rimasta…

Quando avevo trovato il volantino della gara 2016, ed il nome del tracciatore “Laura Piatti”, avevo detto a me stesso “quest’anno anche no, grazie”. Però il volantino riporta la parolina magica “media distanza”… e allora, memore del bosco davvero carino che avevo trovato nel finale di gara e dei cespugli di fiori azzurri bellissimi che mi ero ben guardato dall’avvicinare, mi sono detto “vabbé… andiamo a mettere il culo sulla pedata anche questa volta”. A conti fatti (e a gara finita) mai perplessità fu più immeritata: la gara 2016 non solo mi è piaciuta, ma è riuscita anche a farmi riconciliare con l’orienteering dopo le sofferenze (solo fisiche) e le scene di panico nei boschi di Lago di Calaita, quando non solo non riuscivo a raccapezzarmi per nulla con la testa, ma il fisico mandava segnali tra il preoccupante e l’inquietante.
La gara mi è piaciuta assai, con una fase iniziale in salita a guadagnare dislivello ed una prima lanterna trovata leggendo benissimo (piano ma benissimo) il verdino appena accennato ad ovest del punto. Dalla 1 alla 6 viaggio praticamente sotto la linea magenta, mentre per andare alla 7 mi concedo una digressione per andare a vedere con i miei occhi la 10. Dalla 7 alla 11 sono sempre sotto la linea magenta e mi fido persino ad indicare a Bibi di stare con me un paio di lanterne “che ce la porto io al punto” (ma era in grado di arrivarci tranquillamente da sola!); un unico errore di giornata di una ventina di secondi alla 12: mi basta vedere Luca Battistoni, che corre lungo il sentierino con la faccia di Mel Gibson che sta rincorrendo il cattivo in Arma Letale, per capire che ha già trovato la lanterna e se ne sta allontanando… Il finale di gara è decisamente carino (sto sempre andando “piano ma benissimo”) e alle lanterne 17 e 19, seppur buttate là in mezzo ai sassi come se non ci fosse un motivo, ci arrivo dritto e per la via più breve e senza esitazioni. Mi godo anche il mio “Maurizio Grassi moment” di giornata alla lanterna 13 quando, superato di gran carriera sulla tratta 12-13 da un trenino di tre campioni, li vedo pascolare indecisi sul cocuzzolo a bordo cerchietto finché uno esclama “là c’è Galletti che punzona!” e me li vedo tornare indietro un po’ meno baldanzosi.


Secondo episodio – Relay of the Dolomites


… per la serie: quando Misha Mamleev ti dice ad una gara “mi piacerebbe averti come speaker”, non ci sono santi! A quella gara uno ci deve andare! Che poi, a Castelrotto, io ci sarei andato anche se Misha non mi avesse chiesto di fare da speaker! “Relay of the Dolomites”: una idea del campione europeo e medaglia di bronzo mondiale che, nelle speranze mie ma non solo, dovrebbe\potrebbe diventare una sorta di Tiomila-de-noaltri, alla latitudine dell’Alto Adige per intenderci. A Castelrotto, sede dei mondiali juniores 1993, io non avevo mai corso prima e sentivo questa cosa come una grave lacuna nel mio palmares. Non mi avrebbe frenato il fatto che il format di gara prevedeva una staffetta a 5 frazionisti con almeno due under-16 o due over-55 per quadra: non li abbiamo, ma del resto non eravamo nemmeno in 5! Avremmo coperto i buchi lì per lì, ma a Castelrotto avremmo corso: questo era l’imperativo categorico del mese di maggio 2016. Consueto schieramento con Attilio in apertura, Bibi in seconda frazione, Piero in terza, Mister X in quarta ed io a chiudere nella “quinta, decisiva e temibile frazione” (parole dello speaker)… ah già, ma prima c’è da andare al Voelser Weiher per l’allenamento del venerdì!


Allenamento… che allenamento vuoi che sia se traccia Mamleev in persona (che poi personalmente ti da la carta di gara e due dritte sul tipo di bosco), ma soprattutto se nel parcheggio dei laghetti trovi gli amici bastardi che ti sfidano sul percorso Middle??? Considerato che siamo arrivati in zona Castelrotto da 10 minuti, che abbiamo solo fatto in tempo a farci tamponare da un avvocato tedesco al casello di Chiusa, e che c’è un caldo umido da far sudare una statua di marmo… le premesse non sono proprio cristalline. Invece tutto va per il verso giusto, il bosco dei Laghetti si conferma proprio adatto alle mie caratteristiche tecniche; quelle fisiche no, visto che nomino un notevole numero di santi nella tratta 12-13 ma soprattutto sulla terribile 6-7, lanterna trovata con una dose di cul… di fortuna! che mi sarebbe bastata per due o tre gare di Coppa Italia future. Bell’allenamento, decisamente bello!

Il tutto per prepararsi mentalmente alla quinta frazione della Relay of the Dolomites, gara internazionale che si sarebbe corsa domenica mattina sperando nel tempo meteorologico poco avverso. Io, invece, la mia quinta frazione l’avrei corsa il sabato mattina, in solitaria ma con un occhio al tempo di gara. Ecco… quando Misha mi allunga QUESTA COSA QUI e mi dice che in modalità gara lui è stato ben sotto i 50 minuti, io capisco che sto per trascorrere le due ore più esilaranti, faticose, incerte ed inebrianti del 2016!


27 punti di controllo, e confermo sulla testa di Sipe Santapukki che io ho trovato 26 fascette. L’unica che non ho trovato è quella cacchio di 11, ma sono sicuro di esserci arrivato perché l’avvallamento dietro alla collinetta era evidente, ma come faccio a sapere se la fascetta è a terra, appoggiata ad un rametto o chissà dove?!? Giusto per dire come ho passato 2 ore e 7 minuti della mia vita (“meno di 50 minuti”??? Ma mi faccia il piacere, signor Misha!)… 1: giù verso la strada, strada strada strada... sentierino e fascetta sotto il roccione. 2: facile, soprattutto se vado a prenderla dalla strada. 3: sarebbe il “King of the Hill” della gara, ma anche ”King of the Sick” quando arrivo in cima e mi metto a quattro zampe a vomitare la colazione. 4: semplicemente esaltante…


5: sentiero sentiero sentiero, fila di rocce, punto. 6: sotto la linea magenta. E così via fino alla 9: tutte scelte in modalità survivor, ma tranquillo che i punti mi vengono incontro ed io mi sento a mio agio come se fossi nel bosco di casa… dopo la 9 decido di andare fuori carta! Prendo il sentiero grosso, quello che sembra la statale del Brennero che va verso nord, e salto NON UNO MA DUE USCITE autostradali e imbocco la discesa! Per fortuna me ne accorgo presto, ma volano tante cattive parole (indirizzate a me medesimo) e la risalita penosa e pietosa sulla provinciale che porta al sentierino per la 10 è la giusta punizione per la mia protervia. 11 in scioltezza, 12 in sicurezza girando sul sentiero: mentre vado verso il punto tenendo la palude a destra e la collina a sinistra mi vengono in mente solo scene di O-Ringen svedesi (una prima tappa a caso dell’anno scorso…). Vado molto piano alla 13, perché ho dato una occhiata alla carta che mi aspetta e so che dopo quel punto mi posso appoggiare tanto ai sentieri: ad esempio per andare alla 15 non mi salta nemmeno in testa di salire in cima alla collina,  ma giro in senso orario e l’avvallamento si vede benissimo dal sentiero (e la fettuccia si vede da 20 metri, o forse sono io che sono entrato in modalità “radar”).

Al passaggio allo “spectator control” i ragazzi del TOL che stanno montando l’arrivo mi incitano (o forse è solo un respiro di sollievo, visto che sono sparito da almeno 90 minuti). Per la 19 e la 20 ci sono i sentieri, la 21 è una roccia a forma di palla che c’è da chiedersi solo come fa a stare ferma al suo posto. La 22 è l’emblema della mia gara: arrivo dritto dalla curva del sentiero e mi fermo in mezzo alle due macchioline evidenti di verde; di fettucce nemmeno l’ombra: ad ovest c’è il prato con il gabbiotto, lì c’è la macchiolina di verde, qui l’altra, io sto in mezzo su una specie di traccia fatta dai cercatori di funghi… guardo attorno a me: niente fettuccia! CI SONO APPOGGIATO CONTRO CON LA GAMBA!!! Per la 23 mi faccio tutta la serie di rocce: arrivato al quarto roccione, vedo che sotto non c’è niente, guardo in su e vedo la fettuccia 5 metri sopra di me attaccata al roccione che avevo ispezionato pochi secondi prima. E così via fino al traguardo. Ok. La Relay of the Dolomites 2016 avrà nominato il suo primo “vincitore del lancio” (Fabiano), i suoi primi “King and Queen of the Hill” (Lukas e Martina)… ma il primo speaker e il primo a finire un percorso sono stato io! Quando tra 50 anni festeggerete l’anniversario, ricordatevi di me!!!

Oh… Sipe Santapukki è questo signore qui. Guardate a destra… la parte a destra della foto…HO DETTO LA META’ DI DESTRA!!! E che cosa ci fa quella mano che sbuca dietro la schiena della mia amica Minna? TIRA VIA QUELLA MANO!!! (Minna l’avete riconosciuta tutti, vero?).


Ancora sudato dalle due ore meravigliose passate a Castelrotto, mi trasferisco a Laranza per il Campionato Regionale a Media Distanza. Per la cronaca (il particolare non poteva mancare, isn’t it?) ho indosso le stesse mutande indossate a Castelrotto, quindi “guadagno” una mutanda che potrebbe tornare utile nel computo finale… Il caldo è allucinante: si capisce lontano un miglio che è l’afa che precede la tempesta, ma intanto sul campo di calcio di Laranza picchia un sole cocente che mi asciuga. Enrico Isma, saputo che arrivo direttamente da Castelrotto, mi dice che sicuramente “sono già in carta” e che almeno oggi “vedrò le curve di livello in 3D”. Ne convengo, ed in effetti fino alla 5 sono lento ma tranquillamente aderente alla carta senza alcun problema.


Il problema è che dopo la 5 viene la 6. Il mio “piano”, che al confronto il varo della Regalskeppet Vasa è un successo, è di navigare tra le rocce e, quando non ne vedo più sotto a me, capire che sono arrivato al punto giusto… cito dal Vangelo secondo Dario Beltramba “eh si… di rocce ce ne sono ancora di sotto, ma non sono state disegnate in mappa”. SGRUNT! Perdo qualche minuto (di tempo) e molta benzina proprio prima di affrontare la salita alla 7, salita che mi manda definitivamente in tilt. Dal divano di casa, il piano dell’impiegato panzottello sarebbe quello di salire penosamente altre curve di livello, “appoggiarsi al sentiero” e poi una volta arrivato al cocuzzolo ci si butta ad ovest verso le rocce. Dal punto 7 dopo le due ore a Castelrotto, l’impiegato panzottello non vede il sentiero, e cerca di navigare in costa tra le rocce ad una andatura che farebbe schifo ad una lumaca morta… Rimango tra quelle rocce un tempo immemorabile, al punto che mi convinco di aver superato il sentierino, di essere sulla collina a sud, di essere finito fuori carta o in un’altra dimensione… dopo una sosta per raccattare i polmoni e le ginocchia, decido di prendere il coraggio a due mani e salire di quota per raccapezzarmi e poi… TOH! Due rocce parallele con una lanterna in mezzo: è la mia! Per la serie: non importa quanto bene si sa leggere una carta, ma quanto culo si ha nel trovare i punti!!!

Da lì non è difficile arrivare al traguardo, dato che il sentierone che parte dal campo di calcio e fa tutto il giro della collina è un ottimo punto di riferimento, dato che il punto 13 (che sembra volerci la mente di ingrandimento per capirci qualcosa) lo si attacca benissimo dal suddetto sentiero, e dato che dalla 13 al traguardo il bosco è una favola e non disdegnerei di fare qualche altro errore per poterci stare dentro più a lungo, prima di poter dichiarare chiuso anche il secondo week-end di gare e potermi dedicare al commento live della Relay of The Dolomites (nel quale esordirò parlando della prima edizione in questo anno di grazia 2015… ma diciamo che ero ancora sotto effetto delle tossine accumulate il sabato).

Terzo episodio: Borgo Valsugana e Coppa Italia

Il giro che ho fatto per arrivare preparato al meglio alle due gare di Coppa Italia di Borgo Valsugana e Val Malene (dove sarei stato anche speaker) è stato un po’ tortuoso: trasferta di lavoro, poi treno per Rimini, sosta e poi ripartenza per Trento dove sarei stato raccattato con Bibi dalla macchina in arrivo da Milano con Attilio e Piero. La sosta a Rimini era giustificata dal fatto che avrei preso parte alla gara di corsa chiamata “Skechers performance” (dove ho mancato l’obiettivo per soli 5 secondi!)…

… e nel frattempo visualizzato qualche nuova tendenza sportiva che va per la maggiore non solo alle nostre latitudini (ma dico subito che la musica che usano mi fa schifo, soprattutto la cover di “Sweet Dreams”)…


… e nel frattempo visualizzato anche chi visualizzava…


… e anche altre cose (queste si chiamano “foto attira click”, o giù di lì)

Giunto a Borgo Valsugana nella tarda serata di venerdì, arrivato a cuccia grazie ad una incomparabile gara di Mobile-O con Manuela Divina al telefono, sabato mattina ho messo le mie gambe in azione per la gara sprint di Borgo, con risultati devo dire tutto sommato lusinghieri:


Oh! Diciamo che non è l’O-Ringen e nemmeno Castelrotto, ma le gambe giravano ed il fatto di aver limitato il mio tempo al 60% in più di quello del vincitore Elite mi da una certa soddisfazione



(in ordine sparso: Corrado – che ha messo a disposizione un signor impianto audio -, lo speaker, due campionesse italiane ed un futuro campione italiano)

Nel corso del week-end di Borgo e Val Malene credo che la FISO si sia giocata tutte le carte che valgono “allontana la pioggia da qui”, perché nonostante gli annunci terrificanti sia del Meteo che degli anziani del posto, a Borgo pioverà proprio pochino e in Val Malene vedremo la pioggia solo due secondi dopo il termine delle più rapide premiazioni della storia (tutto questo grazie al Panda Valsugana, che le fa partire in anticipo, e ad Elisabetta Rosso che smazza via premimeglio di Tony Binarelli con le carte da gioco).

In Val Malene faccio la M45, perché è una gara sulla lunga distanza e non c’è il tempo materiale per provare l’Elite che mi sarebbe costata almeno tre ore di permanenza sul terreno… ma a giudicare dal radar che avevo anche domenica, credo che sarei riuscito a finirla! Il percorso M45 non è così ostico come me lo sono immaginato quando prendo il via (primo pensiero: non ce la farò mai a finirlo), anche se spesso si tratta di fare delle scelte in modalità “survivor” come per andare alla 2: su per il sentiero fino ad arrivare a nord del punto, e poi giù di testa fino alla roccia. Scopro procedendo punto dopo punto che il percorso non è così difficile: la 4 si vede benissimo dal bivio dei sentieri, che “infila” proprio la direzione nella quale si sviluppa la canaletta; la 5 è una carbonaia e io sono campione del mondo di navigazione tra le carbonaie.
La lanterna che volevo proprio trovare è la 6, visto che mi avevano parlato di paludi “finlandesi”… ed infatti ecco l’impiegato panzottello che affronta la 6 dalla strada (da dove parte il sentiero che va dall’altra parte); scendo con molta circospezione, immaginando di sprofondare ad ogni passo e di perdere la direzione giusta, ma impiego poco a capire che il fondo della palude è molto più solido di quanto immaginassi, e che davanti a me ci sono dei sassi e che quindi al punto ci sono arrivato benissimo! 7 e 8 inseguendo Milena Cipriani che sta posando i punti, la 9 non è sbagliabile nelle condizioni “radar” in cui gareggio oggi… e infatti sbaglio la 10! La sbaglio dopo esserci arrivato a 4 metri DRITTO SOTTO LA LINEA MAGENTA! Non vedo che la lanterna è infilata sotto le frasche dell’albero, in una piccola buchetta, e pensando di essere lungo torno verso sud-ovest fino ai due sassi… li riconosco… metto la bussola in direzione, ritorno sui miei passi fino allo stesso albero, mi fermo a 3 metri, vedo la lanterna e schiaccio “play” sulla traccia audio che snocciola i santi del Paradiso.

Da lì ricominciano le lanterne non-altrimenti-sbagliabili: la 11 è proprio sulla cresta, la 12 si vede dall’attraversamento del torrente, la 13 è una roccia grande come un condominio, per la 14 basta arrivare al rudere e la 15 E’ IL RUDERE! A quel punto c’è solo da smazzarsi il ritorno verso l’arena di gara. Mi dico che l’ultima penosa risalita dal sentiero è quella per la 16... la 17 si attacca dal sasso a bordo prato dove c’è un punto degli Esordienti,  e per la 18 l’unica difficoltà è che nel prato in mezzo alla tratta pascolano i cavalli e quindi lo devo aggirare stando nella rumenta ad est del prato (ecco che poi il Panda sarà costretto a mettere qualcuno in aiuto agli Esordienti che quel prato lo dovevano attraversare… ma i cavalli erano arrivati lì solo il pomeriggio del sabato!). Le energie a quel punto sono proprio al lumicino, infatti per la 19 non vedo il sentiero grosso come una strada statale che rimane in costa e infilo la strada asfaltata che sale qualche curva di troppo, e infine c’è solo da correre fino alla 20. Qui capisco che le spinte ai ciclisti sui tornanti alpini del Giro d’Italia sono davvero efficaci, visto che riesco nell’impresa di farmi spingere per una ventina di metri da Helmuth Murer sugli ultimi due metri di dislivello (sui quali stavo rantolando…) prima di arrivare al traguardo.
Quasi due ore di gara, ma se vado con il pensiero agli istanti prima della partenza quando mi sono detto “io questa gara non riesco a finirla”, mi scopro abbastanza orgoglioso del fatto mio. Questo prima di vedere il tempo dei migliori… Ma questo vuol dire anche un’altra cosa: lassù qualcuno ama vedermi faticare, o vuole solo sapere che anche questa volta ho riempito pagine di orienteering che nessuno leggerà mai perché nessuno ha ferie da buttare via per leggere il mio blog, o per qualche altra ragione vuole che io continui a fare questa cosa che gli altri chiamano orienteering e io chiamo “Maurizio Grassi moment” o in mille altri modi ancora. Perché se lassù qualcuno in questi tre fine settimana avesse fatto fare “punzonatura errata” a tutti quanti gli altri, io avrei vinto la Coppa Italia e avrei appeso le scarpe al chiodo, ritirandomi a fare lo speaker… e invece sabato e domenica prossima , il 25 e 26 giugno a Passo Coe in notturna e all’alba, sarò ancora lì a provarci un'altra volta.
Che io è da un po’ che dico: Passo Coe IN NOTTURNA?!?!?!? Io mi ci perdo anche di giorno sui sentieri e con le palìne che indicano la direzione!!! Mi chiedo fin d’ora se sarò capace di tornare indietro…

SOW – Every day is not the hardest day…

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(che sia chiaro per tutti: “SOW” non significa una brutta parola inglese per indicare una ragazza non particolarmente attraente; sta per “Swiss Orienteering Week”… chissà se gli svizzeri sono consapevoli di questa strana associazione)
 
Sono passati 19 anni dalla mia prima, ed ultima, partecipazione alla 6 giorni di Svizzera. Dal 1997 ad oggi sono trascorsi 19 anni durante i quali il mio sport è cambiato profondamente! Una volta usavamo ancora il cartellino cartaceo (che puntualmente, in quella fredda e bagnata estate del ’97, persi durante la sesta ed ultima gara a caccia…), le carte di gara erano precise ma anche abbastanza generalizzate senza tutto il diluvio di dettagli che possono essere proposti oggi; le divise di gara erano molto più spartane, una accozzaglia di colori messi assieme al solo scopo di sembrare variopinti… tanto “Orienteering is not a fashion event!” recitava qualcuno; a giudicare dagli abbinamenti cromatici e dalla aerodinamicità, anche in questo campo l’orienteering ha fatto passi da gigante: oggi il 99% degli atleti gareggia con i pantaloni attillati sui polpacci e niente affatto svolazzanti (come invece continuo a fare io) per far vedere muscoli ben torniti e forme aggraziate (ed io non ho né gli uni né le altre da mostrare, quindi mi tengo i miei bragoni belli larghi). Nell’estate 1997 il viaggio verso Thun, e poi verso Friburgo, aveva avuto come massima base informativa il mio atlante del Touring Club Italiano stampato nell’anno del terremoto in Friuli…
(ed esiste ancora!)
 
… ed i risultati si videro purtroppo immediatamente, ancora prima di passare il confine; ora nell’anno di grazia 2016 ci affidiamo alle coordinate ed a Google Maps per raggiungere i ritrovi, anche se non è affatto detto che la cosa funzioni meglio. Quel bel tipo di Kornell Ulrich, che nel 1997 vinse in HElite la 6 giorni di Svizzera, l’ho ritrovato in cima alle classifiche anche nel 2016: ovviamente in un’altra categoria (la H50), ma continua a vincere come se per lui gli anni non fossero passati. Un altro per il quale gli anni non passano mai è il vecchio lupo Dieter Wolf, che continua imperterrito a correre (si… a correre!) in HElite anche se ormai gli anni dovrebbero essere ben superiori ai 60, che continua ad arrivare al traguardo come se niente fosse; così ogni volta che, seguendo il live di un campionato mondiale di orienteering a staffetta, vedo la Nuova Zelanda che naviga sempre nel gruppo di testa mi chiedo se anche in questo caso non ci sia lo zampino del vecchio lupo.
 
Cambia tutto per non cambiare nulla. Alla fine a conti fatti io stesso in questi ultimi 19 anni sarò invecchiato di qualche mese. Quello che di sicuro in 19 anni non è cambiato è la predilezione, per le organizzazione elvetiche, ed il gusto per utilizzare le soluzioni logistiche più complicate e che dalle nostre parti (se dessero origine a disguidi) darebbero lo spunto a tanti e tali casini da far parlare e polemizzare gli orientisti nostrani per decenni, scatenando ostracismi e litigi verso questo o quel territorio… Intendiamoci: i rossocrociati sono benissimo in grado di organizzare le loro gare come vogliono senza ascoltare i miei suggerimenti; se continuano a fare numeri come i 4000 iscritti della seconda multi-days consecutiva di metà luglio (perché la prima è stata quella in corrispondenza con i Mondiali Juniores disputati la settimana prima, sempre in Engadina), se continuano ad avere un seguito sempre maggiore di praticanti di tutte le età, e se il loro livello di punta continua a sfornare atleti in gradi di vincere 7 medaglie d’oro su 8 ai suddetti Mondiali, allora è possibile che le cose debbano proprio essere fatte come dicono loro. Alle mie latitudini, alcune variazioni sul tema dell’organizzazione logistica cadono sotto la voce “mettere il culo sulla pedata”, ma finché funziona…
La mia Swiss O Week nasce all’improvviso in un fine settimana di maggio, senza grandi prospettive, quando i compagni di squadra del GK si pronunciano “si va in Engadina!”. In fondo sono solo 3 ore di macchina (se va male) da Milano e senza dover dipendere dai bollini autostradali. L’Engadina è quella valle che attraversiamo tornando da Langenfeld, ed ogni volta che l’abbiamo fatto i nostri nasi si sono incollati ai vetri dell’auto prima di un diluvio di “chissà come sarebbe bello correre qui… e qui… e poi ancora lì…”. Così questa volta il GOK prende la balla al balzo, getta il cuore oltre l’ostacolo, getta il portafoglio ed i costi approssimativi oltre la decenza (4,5 euro per un chilo di pasta Barilla alla Coop???) ed è già l’ultimo giorno utile per le iscrizioni ed occorre scegliere la categoria da affrontare. E’ vacanza, è Svizzera, 6 giorni sono impegnativi. I filmati che Paolo Consoli ci ha fatto vedere nel corso degli anni, quelli relativi alle edizioni precedenti, parlano di gare tracciate senza risparmio di fatica per nessuno, su terreni infami e scoscesi a cui non sono tanto abituato. Vacanza + Svizzera + 6 giorni di gare mi fanno dunque propendere per una prudenziale H45K, la versione corta della categoria over-45. Corta ma orientisticamente tecnica, così penso… e in fondo in H45K si è iscritto anche il mio buon amico Espen Nilsen (Stavanger OK) che incrocerò dopo tanti anni!
 
Domenica 17 luglio si comincia a S-Chanf, che sarebbe anche il posto più lontano rispetto alla nostra cuccia di Maloggia. La prima cosa da fare quando si va ad una gara in Svizzera è capire come si arriva al ritrovo, e quali sono i tempi per poi arrivare alla partenza: non è raro trovare quelle descrizioni, che per noi sono agghiaccianti, del tipo “parcheggi a 20 minuti dal ritrovo, poi per arrivare in partenza ci sono 20 minuti di furgone e poi 30 minuti a piedi…” e alla fine magari l’arrivo è nel bosco a 30 minuti da dove hai lasciato (al ritrovo) i vestiti. Ma si vede che si diventa forti anche così. A proposito… nel parterre della gara girava un volantino di una due giorni in Svizzera nel quale l’informazione alla voce “come arrivare” faceva esplicito riferimento all’autostop! E basta. Come dicevo sopra: agghiacciante.
Così la prima cosa che studiamo PLab, Bibi ed io è come si arriva al ritrovo. E leggiamo che ci sono tre parcheggi: il primo (con le sue belle coordinate) si trova nei pressi del ritrovo; l’organizzazione scrive che quando il primo è pieno, si comincia a riempire il secondo che sta a 10 minuti di navetta. Se occorre, c’è un terzo parcheggio a 30 minuti di navetta… Poiché già di mio lavoro all’Ufficio Complicazioni Affari Semplici (e poi sono pessimista, polemico e negativo per natura) mi chiedo, e ci chiediamo: “E se ad un certo momento scoprono che il parcheggio è pieno e ci dicono di tornare indietro… come ci organizziamo con i tempi e gli spostamenti?”. Poiché non abbiamo una soluzione chiara (e forse siamo tutti pessimisti) decidiamo di partire all’alba per essere sicuri di guadagnarci un posto nel parcheggio comodo. Evidentemente la mia laurea in fisica non basta per capire le indicazioni elvetiche, perché al parcheggio ci arriviamo, eh?, ma non senza prima essere entrati con la macchina sul campo gara (ed essere passati ad un centimetro dalla lanterna con codice 90, ed esserci fermati solo quando abbiamo visto le fettucce del corridoio di arrivo…) perché la strada che indica Google Maps con le coordinate non  è quella che gli organizzatori ci vogliono far fare per arrivare al parcheggio (diciamo che questo però non è colpa loro!).
 
Alla fine di tutta questa storia con i parcheggi, la mia gara è questa:
 
Comincio a capire almeno un paio di cose. Uno: la mia categoria, oltre ad essere corta, è a tratti anche molto facile (da metà in poi siamo a livello di tapasciata podistica…). Due: ma è così che appaiono i boschi dopo il passaggio di così tante persone???
 
Si vede bene la traccia – e non è un sentiero! – che porta al primo punto? Sarà che per motivi di speakeraggio non sono abituato ad avere né affollamento nel bosco, né gente che mi chiede quasi ad ogni lanterna dove siamo, né tracce da seguire… ma così è proprio uno sport diverso!
 
(primo punto della prima tappa. A sinistra a fondovalle la zona di arrivo – immagine fornita dalla headcam sulla mia testa…)
 
Dal momento che l’approccio con i parcheggi della prima tappa non è stato così positivo, decidiamo di studiare meglio come arrivare alla seconda tappa che si svolge a God da Staz, una carta sulla collina che separa S. Moritz Bad (ed il suo bellissimo lago) da Celerina. Siamo in piena zona glamour, fashion e modaiola di S.Moritz, quindi dobbiamo cercare di comportarci bene! Le indicazioni dicono che, a parte i soliti pullman navetta (che, mi dicono i meglio informati, per la prima tappa erano sovraffollati oltre ogni limite di decenza), chi arriva in macchina da Maloggia può trovare posti auto – ma pochi! – ad una delle funivie di S. Moritz e poi farsi 3 o 4 chilometri a piedi per arrivare in zona ritrovo. In alternativa bisogna andare oltre S.Moritz, a Celerina, e “scollinare” a piedi per arrivare al ritrovo. Optiamo per la prima soluzione e ci alziamo di nuovo all’alba per essere certi di conquistare, riuscendoci, uno dei pochi posti auto a disposizione. Dopodiché ci mettiamo gli zaini in spalla e cominciamo a camminare.
La strada per arrivare al ritrovo, almeno a giudicare dal francobollo di cartina mostrato nelle istruzioni,  sembra quella sempre diritta che parte dal centro gare e costeggia il lago; in una gara con 4.000 persone non si fa fatica a distinguere la fila degli orientisti che procede verso la zona gara: davanti a tutti, ovviamente, due ragazzi con i colori del Kalevan Rasti (ripeto: ovviamente!), poi le tute verdi gialle e nere dell’NTNUI norvegese, poi ci siamo noi, più dietro il gruppo del Lokomotiva Plzen e poi arrivano degli austriaci. Procediamo diritti attraversando tutta S.Moritz Bad finché le case finiscono e ci troviamo davanti il bosco: finora di “balise” o di fettucce non ne abbiamo trovato nemmeno una e ci fermiamo a pensare che Claudio Valer e la sua collaudata truppa di balisatorifarebbe faville da queste parti. Seppur in assenza di qualunque altra segnalazione, i ragazzi del Kalevan Rasti si infilano dritti nel bosco e, visto che da almeno 12 anni c’è un pennellone alto e con il pizzetto ed i colori del Kalevan Rasti che insegna orienteering a tutto il globo, tutti andiamo dietro a loro! Il lago rimane in basso a sinistra, la direzione è quella giusta che punta verso la voce dello speaker… e presto cominciano a comparire le prime lanterne: siamo di nuovo finiti dritti dritti in mezzo al campo gara! In particolare, nella zona di bosco che vedrà impegnati i percorsi dei più giovani e dei supermaster…
 
Dopo tutto questo, la gara è questa qua…
 
… e anche questa volta è consentito a chi commenta dal divano dire che non è proprio una gara tecnicamente “demanding”, anzi! Mi tocca ammettere che Paolo Consoli, che mi fa vedere la sua gara con partenza da Celerina, si deve essere divertito molto di più; l’unica difficoltà della mia gara, per arrivare al primo punto, è avanzare nella erica spessa e lussureggiante presente in quella parte di bosco :-( … e poi ci sono sempre le solite tracce!)
Dopodiché ci mettiamo gli zaini in spalla e ricominciamo a macinare i chilometri che ci separano dal parcheggio... Dopo due tappe che definire “blande” è dire poco, possiamo concentrarci sulla terza tappa che, invece, minaccia di essere decisamente oltre la mia portata. Si sale infatti in quota oltre i 2.000 metri di Diavolezza, lungo la strada che porta al Passo Bernina, per la classica gara sul terreo aperto e brullo che si sviluppa oltre la linea degli ultimi alberi. Aperto, brullo e molto, ma molto, ma molto pietroso…
Per i parcheggi non c’è problema, in quanto abbiamo a disposizione tutta l’area a valle della funivia di Diavolezza. Per la gara invece di problemi ce ne sono eccome!
 
 
 
Innanzitutto l’altitudine, che mi toglie qualsiasi velleità di provare qualche passo di corsa già al primo punto di controllo; poi il fondo davvero insidioso del terreno, che per tutta la prima parte di gara (ma anche nella seconda) prevede una abbuffata di pietre, pietre ed ancora pietre. Io sono capace di fare una sola cosa alla volta: o mi oriento, o cerco di salvare la pelle! A Diavolezza, il mio cervello resta focalizzato sulla seconda opzione. Durante la gara colgo un paio di situazioni che coinvolgono un ragazzo dell’ASCO Lugano ed una signora dell’O92 Magadino nelle quali all’urlo di dolore fa seguito l’immagine dell’atleta che rimane a terra sulle pietre, ma in entrambi i casi vedo la scena piuttosto da lontano e la cosa buona è che in entrambi i casi i malcapitati vengono subito soccorsi dagli atleti che si trovano nelle immediate vicinanze. Giusto per dare una idea, nella over-45 dove gareggiano i vari Eidsmo, Ivarsson, Janne Salmi e compagnia cantante (tutta gente che vinceva le medaglie mondiali quando i mondiali erano ogni due anni e c’erano solo due gare…), a Diavolezza vince Stefano Maddalena! Lo dico perché così i pochi lettori che sono arrivati fin qui si possono rendere conto del fatto che quando lo speaker dice che “Maddalena è il più forte orientista che abbia mai corso dalle nostre parti” non fa solo un omaggio alla sua grandezza orientistica (e alle sue doti di ballerino dei terreni impestati che più impestati non si può) ma non va nemmeno troppo lontano dal vero.
 
Segue il giorno di riposo, e per la quarta tappa corriamo in casa, proprio a Maloggia, con arrivo nella zona della diga dell’Orden. Anzi: la nostra partenza corre proprio lungo tutto il ballatoio della diga dell’Orden: molto suggestivo! Meno suggestivo il fatto che, sorprendentemente visto che siamo in Svizzera e molto sorprendentemente visto che siamo reduci dalle infami pietraie di Diavolezza, alla partenza gli addetti ci ammoniscono in inglese “fate attenzione: ci sono molti più sassi oggi di quanti ne avete trovati nella terza tappa”. Come può essere possibile?
E’ possibile. Infatti stavolta NON è consentito a nessuno dire dal divano “bastava fare così e cosà”… Il fondo del terreno è costituito per lo più da sassi, che però sono nascosti da cespugli, erica, rododentri, erba alta. Tra i sassi si annidano buche e crepacci nei quali alcuni concorrenti letteralmente a volta scompaiono e li si deve tirare fuori prendendoli da sotto le ascelle (io lo faccio, intendo il tirare fuori una tizia da un buco tra le rocce). PLab addirittura si avventura sul ponte tibetano (!) che conduce ad uno dei primi punti… laddove io opterò per una scelta in costa su terreno infame e il ponte tibetano lo vedrò solo nel filmino di PLab.
 
La mia gara è, per una volta, decente. Mi piacciono i punti vicini tra loro e fino al sesto punto faccio del mio meglio per stare almeno nel secondo gruppetto di atleti in classifica. Poi per la tratta lunga mi si apre il dilemma: scendere lungo i prati ed attaccare il punto da sotto? Andare in curva di livello incontro ad un disastro di sassi e vegetazione fitta? O risalire mille curve di livello fino al sentiero che mi consentirebbe di arrivare facile facile al punto? Non so cosa abbiano fatto gli altri… io scelgo la terza opzione ma la risalita è penosa e pietosa, da far venire il vomito per la fatica appena arrivo in cima, e quando tocca a me finire lungo e disteso nella buca non c’è nessuno che mi dia una mano a tirarmene fuori. Molti altri probabilmente fanno meglio di me tirando dritto sulla curva di livello e sfruttando (forse) qualche traccia, con il risultato che in questa sola tratta perdo qualche decina di posizioni in classifica e mi faccio superare anche da Espen.
Dopo tutto questo, il fatto di avere la gara vicino alla nostra cuccia ci risparmia un’altra possibile apocalisse logistica (Maloggia era dichiarata come località priva di parcheggi e quindi raggiungibile solo via navetta); abbiamo quindi il tempo di preparare la vera Odissea della quinta tappa, che prevede la seconda gara in quota a Corvatsch. Durante tutta la quarta tappa lo speaker ha esortato gli atleti a non presentarsi alla partenza della funivia con un anticipo superiore alle due ore rispetto al proprio orario di partenza; la procedura prevede infatti di lasciare l’auto a Sils Maria (posto delizioso!), arrivare alla funivia per Corvatsch, salire in quota, andare all’arrivo che dista una ventina di minuti per lasciare qualche indumento, e poi salire per un’altra mezz’ora verso la partenza. Insomma… se tutto va bene, è una figata! Ma se qualcosa comincia ad andare storto, siamo in piena area “culo sulla pedata”. Il nostro gruppo ha orari di partenza attorno alle 13.30, a fondo griglia, e quindi arriviamo alla funivia verso le 11.25. La situazione della coda epocale per salire sulla funivia è ben immortalata dalla foto di Roberto Sanna
 
(e ce ne sono altrettanti davanti)
Trattandosi di funivia, la gente sale “a pacchetti”: la coda avanza, poi si ferma il tempo necessario a far scendere la cabina, far uscire chi ha già finito la gara, eccetera. La cosa positiva è che si tratta di una coda “svizzera”, nella quale tutti rispettano molto bene il loro ordine di posto. La cosa negativa è che il nostro gruppetto è sempre in fondo alla coda… C’è infatti un ragazzo dell’organizzazione, dotato di microfono e di uno spirito da martire superiore a quello di tutti gli altri, che ogni tanto richiama i ritardatari: tutti coloro che hanno un orario di partenza attorno alle 12.30 vadano alla corsia preferenziale!”… e SBADABEM! … tutti quelli che avevamo dietro di noi ci superano. Poi dieci minuti dopo (siamo attorno alle 11.45): “tutti quelli che hanno un orario di partenza attorno alle 13.00 vadano alla corsia preferenziale!”… e SBADABEM!... stessa cosa. Noi siamo sempre in fondo alla fila, siamo in coda insieme a tutti quanti i tapini che hanno partenza a fondo griglia e, a quel punto, pensiamo che tra un quarto d’ora il martire chiamerà alla corsia preferenziale tutti quelli che partono attorno alle 13.30… E CIOE’ TUTTI QUELLI RIMASTI in coda visto che le partenze alle 14 finiscono.
 
A quel punto anche gli svizzeri più sgamati cominciano a pensare che, a fondo griglia, qualcosa non andrà per il verso giusto con gli orari di partenza; ma mentre cominciamo a lambiccarci il cervello per immaginare cosa si inventeranno per farci fare la gara (magari una partenza con il tempo preso in modalità punching start?) il martire rimette mano al microfono; mentre stiamo per raccattare le nostre cose e fiondarci alla corsia preferenziale, ci viene dato invece l’annuncio che la gara è sospesa per maltempo in quota. Niente gara, niente quinta tappa.
Considerazioni sparse (e senza pretesa di essere nel giusto):
  • la possibilità di annullamento di una tappa per cause non dipendenti dagli organizzatori era citata nel libretto della gara, quindi possiamo solo recriminare per un costo pro tappa che, con l’annullamento di questa, è diventato ancora più esoso; mi chiedo che effetto farebbe questa cosa in Italia…
  • il meteo svizzero di solito ci azzecca, con orari puntuali come la cartella delle tasse: pensare ad un “piano B” e scambiare tra loro quinta e sesta tappa, visto che il sesto giorno correremo ancora a Sils Maria, con ritrovo nello stesso posto, ma nella parte bassa della carta?
  • O pensare addirittura ad un “piano C”, ovvero posizionare tutta la quinta gara in un posto vicino, fosse anche stata solo una sprint nel (ripeto: delizioso) paesino di Sils Maria? (cosa ci hanno chiesto a fare allora a tutti quanti un numero di cellulare per eventuali contatti?).
  • Bene senz’altro il discorso sicurezza: il sito SOLV.ch segnalerà la sera stessa come si fosse riunito urgentemente il “comitato di crisi” per giungere a quella decisione. Però che smacco!, e soprattutto: quando devi muovere 4.000 persone, forse non è il caso di mettere in campo logistiche così complesse ed estreme (navette, funivie, spostamenti a piedi…) per far apprezzare una 6 giorni che, per noi, resta purtroppo legata a “quella volta che non ci hanno fatto salire in funivia”. Altrimenti resta solo il commento, letto su facebook, che gli organizzatori si sono salvati da una figuraccia (far partire gli atleti con il punching start) solo grazie al maltempo…
Con lo spirito decisamente polemico e negativo si va quindi alla sesta tappa: ultima della manifestazione, si deve prima chiudere casa, riconsegnare le chiavi e ritornare sul luogo del misfatto. Il meteo è piovoso e i nostri orari di partenza sono tutti prima delle 9 del mattino (cosa che ci consentirà di essere a Milano in tempi rapidi).


Partenza in piedi e gara tutto sommato nemmeno tanto impegnativa (tutti quelli sul divano possono scatenarsi…). Molto bello correre a tutta velocità la canaletta nel prato che porta alla lanterna numero XXX, molto meno bella la discesa finale verso l’ultimo punto di controllo prima del rettilineo di arrivo, dove si rischiano per l’ultima volta le caviglie e dove, su un terreno viscidissimo, pianto un volo con salto mortale carpiato che mi fa atterrare (anzi: travolgere!) proprio i due paletti dell’ultima lanterna sotto gli occhi esterrefatti (prima) e in lacrime dalle risate (subito dopo) di due master svizzere che arrivavano dalla curva di livello.

Dopodiché resta solo il ricordo di un’altra 6 5 giorni… da capire ancora se la ricorderò più per i prezzi esorbitanti del costo della vita in Svizzera, per lo smacco della quinta tappa, per il terribile ma in fondo inusuale terreno di Diavolezza o per una scelta di categoria che mi avrebbe potuto vedere più coraggioso. La prossima edizione nel 2019, a Gstaad, posto che mi dicono essere caro quanto Davos o Nyon, sicuramente più di S.Moritz. C’è da mettersi fin d’ora le mani nei capelli!

5 days of Tesino

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Ci sono tanti modi diversi per trascorrere una settimana di ferie: la maggior parte dei miei colleghi si trasferisce in spiaggia, dove l’unica decisione da prendere consiste nello scegliere dove piazzare l’ombrellone, oppure in montagna a fare passeggiate rilassanti o crogiolarsi in qualche spa; io quest’anno ho deciso di andare sull’Altopiano del Tesino, dormendo nella struttura comunale di Cinte Tesino, mangiando i pasti preparati da Marco Bezzi e dormendo in una piccola mansarda con Eddy Sandri, o talvolta da solo.

La mia 5 giorni di Italia: 6 giorni di gare, 10 competizioni, 5 premiazioni, per 5 volte sono stato dietro al microfono a commentare le gare.  Non è stata una passeggiata di salute, probabilmente non lo è stata nemmeno per alcuni degli atleti che già il terzo giorno dimostravano di mal sopportare il mio pessimo inglese e il diluvio di parole che li sommergeva per 5 ore al giorno; solo per fare un confronto, lo speaker della 6 giorni di Svizzera si limita a dare gli aggiornamenti dei primi tre classificati nelle categorie Elite ed under-20 e a fare gli annunci di servizio che servono agli organizzatori. Io ho snocciolato interi alberi genealogici, fatto molto gossip, enunciato piazzamenti in classifica oltre la X-esima posizione (con X anche molto alto). Devo ammettere che alla lunga tutto questo potrebbe anche aver stancato le orecchie degli ascoltatori… insomma: devo imparare a darmi una calmata!. Tuttavia ogni sera, rientrando nella mia cuccia a Cinte Tesino, ho pensato di essermi meritato la cena preparata da Marco o le mani di carte a Whist, sollevato per il fatto di essere riuscito a fare il meglio che potevo. Da un punto di vista strettamente sportivo, devo invece ammettere che la maggior parte delle mie gare non hanno avuto l’esito che speravo… si, diciamo proprio che ho fatto abbastanza schifo in tutte le gare!

Gare che cominciano il 2 luglio a Drio Castello, subito dopo aver provato con molta infamia e scarsissima lode nonché infiniti gradi di incomprensione il percorso di trail-O. Il cielo non promette nulla di buono, ma le previsioni del tempo fornite da quell’autentico ufficio meteorologico che sono le ossa del Sig. Gozzer dicono che la pioggia dovrebbe salvare la prima tappa degli atleti. Degli atleti, appunto: di quelli che partono nell’orario canonico di gara. Ma io parto prima (e non so nemmeno se sono un atleta!).

E’ circa mezzogiorno quando vengo lanciato nel bosco da Alessandro Conci. Nel bosco… la mia scelta per la prima lanterna della prima tappa della 5 giorni prevede una abbondante dose di strada asfaltata, percorsa fino a raggiungere la linea tra il punto 1 ed il punto 2: Emil Wingstedt, il tre volte campione del mondo che doveva gareggiare contro di me (astenersi dalle risate, prego!) in H40 e che, poi, ha preferito rifugiarsi in Elite, mi dirà che la mia scelta è giusta, e che la sua scelta sotto la linea magenta lo ha costretto ad aprire la strada nella vegetazione fitta a tutti quanti gli altri.

Dopo la salita violenta al terzo punto, affrontato dall’avvallamento situato molto più in basso, vado via abbastanza tranquillo fino al punto 9, cercando soprattutto di stare sul sicuro perché i posatori non sono ancora passati nella zona con le rocce e ci sono solo i paletti. Alla 9 vivo il momento “sgurz” della giornata: l’idea originale è quella di uscire dal punto in direzione nord-ovest, andare a prendere la strada, girare in senso orario attorno alla grande parete rocciosa e raggiungere il punto 10 per la strada più lunga ma più facile. Dal divano, però, è sempre facile… nella realtà vado in direzione nord, infilo il sentierino che sta nell’avvallamento tra due alte pareti di bosco e capisco che sto tornando verso la partenza. Come sanno bene gli amici del GOK, io sono campione del mondo nell’arte di ripassare dalla partenza durante la mia gara! Non “in zona partenza”… ma proprio dai cancelli e dal gazebo delle partenze. Ancora non mi è stato mostrato un articolo del regolamento (e di articoli ne abbiamo mille milioni) che me lo vieta! E poi il triangolo di partenza è, solitamente, un punto certo sulla mappa. Mentre corro verso il basso ed elucubro tutto ciò, vedo un nastro bianco e rosso che attraversa il sentierino, ed anche un cartello “DON’T CROSS” rivolto verso di me che sono nel bosco; i successivi pensieri sono due: UNO: non esiste da nessuna parte che io faccia dietrofront in salita DUE: non so leggere, sono analfabeta, non conosco l’inglese… Quindi tiro dritto fregandomene del cartello.

La 10 la raggiungo dal prato a sud, scalando tante curve di livello e contraddicendo la mia scelta di percorso originale. Per la 11 rifaccio il giro dal campo di calcio, ripassando nella zona della 1, e infine per la 12 passo nella zona delle case dove la gente normale sta già mangiando e mi guarda come se io fossi un miraggio o una allucinazione (ma nessuno che mi offre neppure un bicchiere di acqua!). A proposito di acqua, da qualche minuto piove che Dio la manda: il bosco viene rischiarato ogni tanto dai lampi sempre più vicini, ed i botti che seguono parlano di un temporale che si sta sviluppando a non più di qualche centinaio di metri da me che sono in mezzo agli alberi e sto cercando dei paletti metallici conficcati nel terreno (la legge 626 mi fa un baffo…). Dalla 12 alla 16 bisogna solo scendere un migliaio di curve di livello, e poi per arrivare alla 17 bisogna affrontare sotto il diluvio torrenziale una zona (quella sotto alla linea elettrica) dove le felci e la vegetazione mi arrivano letteralmente al mento; felci fradicie, il che vuol dire che è come farsi largo in una , foresta di asciugamani zuppi d’acqua: se casco per terra qui mi troveranno solo in primavera se verranno a falciare la zona. Il finale di gara è poi quantomeno insensato perché nella tratta 17-18 occorre attraversare una profonda palude di acqua sporca, liquami vari e fangoche ricorda solo e purtroppo certi film sulla battaglia delle Ardenne, e non c’è diluvio che tenga per farmi arrivare al traguardo almeno un po’ pulito…

(l’abbigliamento è da “partenza con il sole”… e notare le scarpette da corsa)

Anche la seconda tappa parte con propositi di gara bagnata (durante la notte si è abbattuto sul Tesino un mezzo nubifragio che ha fatto rimbombare le pareti della mia mansardina, o era Marco Bezzi che russava???), ma in realtà alla fine il tempo terrà per tutta la giornata. Monte Mezza è proprio una bella carta di gara, che ricordavo dai tempi della finale dei Campionati Italiani Middle. Di tutte le prime 13 lanterne, la parte più difficile consiste nel salire lungo il sentiero pieno di fango fino al triangolo di partenza (mi chiedo in che razza di “fanghéo” abbiano messo i piedi gli ultimi). E’ veramente un bel bosco, amichevole, senza pendenze difficili e con una ampia visibilità… c’è da chiedersi a che velocità potrebbe correrci uno come Wingstedt! Incontro al punto 3 il coach Cristian Bellotto che sta posando i punti, poi nessun problema sui rimbalzi fino al punto 9, ed al punto 10 incontro il Campione del Mondo di trail-O Michele Cera che sta controllando il percorso. Arriviamo insieme alla 11, in una zona nella quale il numero di sassi cartografati è decisamente inferiore a quelli presenti sul terreno, e ci separiamo definitivamente sulla strada verso la 13.

O sono andato un po’ troppo allegro nella prima parte di gara, oppure sono veramente scarso; spendo infatti le ultime energie per risalire le curve di livello fino alla 14 (il sasso si vede benissimo da fondo valle, ma li mortacci non ho la ragnatela dell’Uomo Ragno per tirare verso di me la lanterna…) ed alla 15 non ne ho più. E qui comincia la parte difficile della giornata, perché la 16 e la 17 sono posizionate ad una quota molto più alta, e soprattutto si trovano in una zona nella quale felci ed erbacce sono alte tanto quanto il paletto: tocca quindi come al solito a me, e poi anche ai primi a partire, aprire la strada a tutti quanti gli altri che troveranno sicuramente delle autentiche autostrade per arrivare al punto. Percorro quindi tutto il sentiero che porta fuori carta arrivo al punto 18, poi cammino penosamente nell’erba alta ed invadente fino alla radice che sta tra la 17 e la 16… scendo alla 16 (per fortuna i miei piedi trovano la canaletta prima ancora che io la veda); a questo punto posso risalire ancora più penosamente alla 17 (chissà perché l’immagine che mi viene sempre in mente è quella di Sean Connery ne “La collina del disonore”), ritorno alla 18 trovando per fortuna le stesse tracce che avevo fatto all’andata e poi è solo discesa.

Segue poi una giornata al microfono durante la quale il momento clou è quello nel quale devo annunciare della “scomparsa” del piccolo Marek, 7 anni, arrivato dalla Repubblica Ceca: quando invito qualche partecipante di quella nazione a venire al microfono per lanciare un appello in lingua autoctona (sono già intervenuti anche i vigili del fuoco e sono tutti un po’ agitati…) la risposta che ricevo è di questo tenore: “Si è perso un bambino? Ma chi è… per caso è Marek? Lasciatelo fuori per carità e non cercatelo più, che forse è la volta buona che ce ne liberiamo!!! Quello ormai lo conosce tutta quanta la Repubblica Ceca e non solo!”. Diciamo che mi segno nome e cognome del bambino, e aspetto di leggerne il nome in cronaca.

Il terzo giorno ha un connotato decisamente turistico, perché la 5 giorni arriva sulla spiaggia del lago di Levico Terme per la sprint. Io arrivo a Levico un po’ con il fiatone, ma anche con il morale sotto i tacchi dopo aver preso parte alla gara a staffetta di Trail-O del mattino, nella quale riesco nell’impresa di far naufragare una squadra che oltre a me schiera ben due campioni europei in carica (potrei anche dilungarmi a parlare dell’atteggiamento poco sportivo di alcuni partecipanti, ma ormai non mi meraviglio più di niente…)

(il Gabibbo…)

I ragazzi dell’organizzazione Crea Rossa mi consentono di partire molto presto (umidità fuori scala) ,a per fortuna posso archiviare in fretta la mia pratica, la mia gara sprint, prima che i pensieri e la delusione per la gara del mattino possano avere il sopravvento.

Levico è ovviamente ben nota ai più per il finale “filante” lungo il torrentello fino alla spiaggia, spiaggia che si anima nel corso del pomeriggio con tanti orientisti arrivati a gareggiare (forse finalmente) in una vera località turistica. Ci sono parecchi nordici che non perdono occasione per fare il bagno, o per stendere le loro stuoie sul prato per prendere il sole. I più sfortunati sono quelli dell’MS Parma (i finlandesi che nel nome del team ricordano quel delizioso insetto che dalle nostre parti prende il nome di “tafano”) che si trovano proprio nel cono degli altoparlanti che partono sparando a bomba la musica dei Black Eyed Peas e che si allontanano decisamente infastiditi e contrariati nei confronti dello speaker.

Per la quarta e la quinta tappa si sale fino a Monte Agaro, sugli ultimi tornanti del Passo Brocon che volge verso la Valle del Vanoi dove abbiamo disputato quest’anno i Campionati Italiani Sprint e Middle. E’ una località del tutto nuova per me, e forse anche per gli ultimi 20 anni di orienteering italiano; una valle sicuramente suggestiva per paesaggi e quasi totale assenza di antropizzazione, e l’organizzazione è aiutata da un tempo che si manterrà clemente per i due giorni di gara che dobbiamo fare in questa zona abbastanza disabitata e quasi desolata del Trentino. Sicuramente è il momento nel quale anche noi andiamo a “mettere il culo sulla possibile pedata”: se avesse piovuto a Monte Agaro non so come ce la saremmo cavata con il piano parcheggi e la possibilità di dare riparo a centinaia di orientisti, ma la fortuna ci aiuta e tutto  bene quel che finirà bene.

Quella che per gli altri Xcentonovantanove orientisti in gara è il giorno della quarta tappa, per me è il giorno della quinta e viceversa: la quinta tappa è troppo lunga per essere corsa in solitaria il mattino del’ultimo giorno all’alba, e quindi (dato che tutti i punti sono già marcati sul terreno) decido di approfittare del giorno di riposo per correre la quinta tappa, sempre dopo la consueta “avventura” nel trail-O.

Devo ammettere che il “diavolo” è più brutto a vederlo che a percorrerlo. Quella che dal divano di casa sembrerà sicuramente una follia, dal vivo si rivela solo una mezza follia… il trucco consiste nell’andare piano, con calma, mantenendo sempre il dito sulla posizione in carta e senza lasciarsi prendere dai facili entusiasmo del tipo “la lanterna è sicuramente là!”. E io sono campione nel mondo di “andare con calma”… Una volta scalata per la via più breve la pista da sci che mi porta in partenza, l’inizio è abbastanza tranquillo: anche alla lanterna 3 che sembrava posizionata oltre le Colonne d’Ercole ci si arriva percorrendo tutta la mulattiera etrusca e poi andando a cercare l’ultima propaggine di bosco. Decisamente impegnativa la discesa verso il punto 4, perché il bosco bianco è in realtà un autentico merdaio di felci, avvallamenti, buche piene di vegetazione ed un terreno che più irregolare non si può. Mi fermo alla 5 a prendere il primo carbogel prima di affrontare il punto 6 (che non è sbagliabile) ed il 7 (che ovviamente lo è ancora meno),  prima di prendere una “stringa” terribile scontrandomi con il recinto elettrificato tra la 7 e la 8.

Secondo carbogel al punto 10, salvifico sia perché sto per affrontare nell’ora più calda della giornata la salita al punto 11 (ma so o immagino, sbagliando, che è l’ultima asperità di giornata), sia perché il punto 12 è introvabile! Dal divano sembra facile, dal bosco è un casino! Per raccapezzarmi, dopo aver girato a vuoro per qualche minuto, devo tornare ad ovest fino a vedere di nuovo le rocce che sovrastano la mulattiera… Non mi piace, ma quando mai mi può piacere?, la discesa che dalla 14 porta alla 15, una discesa che mi mette paura solo a guardare giù (mannaggia a me che mi ostino a correre con le scarpe da jogging lisce…), e a quel punto non mi resta altro da fare se non risalire la fila delle ultime lanterne verso l’arrivo.

Se non fosse che nella zona della 16 incontro alcuni concorrenti della gara di trail-O che stanno facendo l’esame post-mortem alle piazzole di gara e si chiedono chi io sia e perché ci sia un matto che sta gareggiando alle due del pomeriggio; cerco di darmi un contegno e di assumere l’andatura di un vero atleta (ma quando mai?!?!?!?), ma è evidente che la zona non è proprio adatta per alimentare le mie personali ambizioni di sembrare figo (remember Lago di Calaita)… cerco di dileguarmi alla loro vista verso la 17 scendendo nel bosco, ma quel bosco bianco e quel dolce avvallamento che compare in cartina è nella realtà un oceano terrificante di felci alte così, quella classica situazione dove il primo che passa è un eroe. E il primo che passa sono io, cazzarola!

Impossibile sperare di restare in piedi a lungo nonostante tutte le mie speranze e le mie preghiere… infatti non ho nemmeno il tempo di pensarlo che sto facendo un volo olimpionico tra le felci e nelle ortiche! Mentre rotolo senza possibilità di fermarmi, disegnando una autostrada tra le ortiche, vedo gli occhiali che partono in una direzione, la testa che va dall’altra ed un masso che viene proprio incontro ad essa: in un nanosecondo mi chiudo come una testuggine, mi viene in mente nel successivo nanosecondo il ricordo di Tavernaro che si schianta contro un masso in preparazione dei Mondiali e viene portato via in elicottero, ma alla fine finisce tutto bene e ritrovo pure gli occhiali (andrà bene anche alla farmacia di Pieve Tesino, che svaligerò acquistandone tutta la scorta di Polaramina per dare sollievo alla mia pelle). E non è ancora finita… perché avrò ancora occasione di vomitare le ultime energie sulla tratta 20-21, su quei 40 metri di dislivello, messi lì gratis nel finale.

Avendo messo in saccoccia con due giorni di anticipo la quinta tappa, posso concentrami il giorno successivo a correre la quarta tappa sulla media distanza. Come avevano anticipato sia Antonio Loss che Fabio Hueller, i tracciatori, avrei potuto giovarmi dell’esperienza del giorno prima al primo impatto con Monte Agaro per correrci nel secondo giorno consecutivo. In effetti fino al quinto punto mi sembra di essere a casa mia: la roccetta dove c’è il punto 4 la avevo identificata durante le mie peregrinazioni attorno al 12esimo punto del giorno prima, e dal punto 5 ci ero addirittura già passato e avevo visto già il paletto. Tuttavia le energie cominciano ad essere al lumicino: il tratto di bosco dopo la linea elettrica per arrivare al sesto punto è ancora uno di quelli del tipo “impossibile restare in piedi”. La scalata al punto 7 è impietosa anche se, grazie a Dio, almeno si tratta dello stesso punto che avevo già trovato il giorno prima…

Raduno le penultime energie per andare alla ricerca del punto 8, che mi sembra l’ultima importante insidia orientistica, dove Marco Bezzi e Carlo Cristellon stanno “lavorando” (e si stanno cristonando l’un l’altro) per posare le stazioni e controllare i punti; infine mi metto di buzzo buono per l’ultima salita davvero penosa della 5 giorni, quella per arrivare alla stessa quota del punto 9 utilizzando il sentiero. Il parziale di circa 13 minuti, con molte soste, per andare dal punto 9 al punto 10 mi mette direttamente nell categoria “bradipi in decomposizione che farebbero meglio a giocare a whist”. Da lì è soltanto fiatone, allucinazioni che spero siano dovute solo all’altitudine (e non avevo ancora fatto la 6 giorni di Svizzera!), pietre ed ulteriori scivolate nell’erica alta per scendere al dodicesimo punto. Con le scarpette da corsa a suola liscia, stabilisco che è meglio mettere il culone per terra nella discesa al punto 14 (che era uno dei punti a tempo della gara di Trail-O) e “remare” con i piedi per arrivare fino al punto 16.

Dopodiché posso dichiarare chiusa anche questa avventura… (anche se mancherebbero ancora il commento al microfono della gara che ho appena concluso, l’ultima gara di trail-O a Cinte Tesino – andata anche questa in modo pessimo! – ed il commento dell’ultima gara). Il premio per la mia caparbietà? Questo:
Perché dopo 5 giorni di commento dietro al microfono, ho scoperto che c’è un ragazzino norvegese - che un giorno sarà un campione - che andrà a raccontare ai compagni di classe di uno speaker italiano che diceva che il suo Halden Skiklubb è il Real Madrid dell’orienteering; e raccontava al microfono che se l’Halden SK è il Real Madrid dell’orienteering, allora suo papà Emil Wingstedt non può che essere il Cristiano Ronaldo dell’orienteering… Sempre per la serie “Shakespeare mi fa una pippa”, e chissà quante altre ne devo aver raccontate durante questa 5 giorni d’Italia 2016…!

Gare da bollino fucsia

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La somma di fattori fa poche grinze: è un momento nel quale, causa brutte traversie famigliari, sono obbligato a scegliere i miei momenti orientistici in base alla prossimità geografica rispetto alla mia vituperata casetta; inoltre la mia estate orientistica 2016 è stata caratterizzata sostanzialmente dalla “5 giorni di Svizzera” in Engadina. Con queste premesse, l’occhio si sofferma più facilmente sul calendario di gare ticinesi alla ricerca di qualche approdo che sia raggiungibile in tempi relativamente brevi  e dal quale ci si possa altrettanto facilmente disimpegnare qualora le suddette traversie dovessero virare al peggio.

Purtroppo non sempre “Ticino” fa rima con “vicino”. Da un lato i ticinesi sono ovviamente liberissimi di sfruttare in lungo ed in largo il loro territorio - e le loro curve di livello - fino ai semiaperti ed alle altitudini del Passo del Lucomagno, dall’altra anche i lombardi ci mettono lo zampino andando a definire nel calendario regionale che la gara annuale di Trofeo Lombardia da disputare in Ticino, quella valida per il Trofeo Insubrico, avrà come terreno di gara Lodrino…

A me queste cose lasciano sempre un po’ di retrogusto amaro in bocca. Chi risiede in zone limitrofe al confine, anche se non fa per abitudine la spola con la dogana di Brogeda, di Bizzarrone o qualunque altra, è abbastanza probabile che sia munito – anche per motivi non prettamente orientistici - del famoso bollino annuale delle autostrade svizzere, che nell’anno di grazia 2016 è quello color fucsia del costo di 40 CHF (al cambio in vigore nel momento in cui scrivo, sono 36,55 euro)

Bollino che diventa indispensabile per raggiungere una località come Lodrino che, per chi guarda la mappa dalla zona sud di Milano, diventa irraggiungibile tanto quanto Brobdingnag ne I viaggi di Gulliver o la meno aulica “fanculonia” spesso citata da Marco Bezzi (che, quando vuole, diventa poeta e narratore insigne).
Se io volessi partire da casa ed andare alla gara, dovrei farmi (secondo ViaMichelin) un’oretta di viaggio per arrivare via autostrada alla dogana di Maslianico e poi 126 minuti di strada cantonaleper arrivare fino a Lodrino; tralasciando poi i 50-60 minuti, comprensivi di 25 minuti di furgone, per arrivare alla partenza … ma queste ultime cose riguardano solo l’organizzazione elvetica che avrà i suoi buoni motivi – senz’altro lo è il raggiungimento di una bella area di gara – per aver impostato gli spostamenti in questo modo. Per una gara di Trofeo Lombardia, anche no grazie (mi chiedo cosa ne penserebbe il buon Corrado Arduini, che per anni ha scarrozzato i suoi ragazzi sullo scassato pulmino Interflumina partendo da Casalmaggiore…).

A pensare male si fa quasi sempre peccato. Ma a pensare male, a me vengono in mente solo tre cose:
(1) l’ASTi ticinese si è stufata di avere tra i piedi questo “Trofeo Insubrico”, in comune con i lombardi, che genera casini organizzativi con le categorie sfasate (i lombardi hanno la over-35-45-55, i ticinesi la over 40-50-60) e con le tariffe di iscrizione decisamente diverse tra chi arriva da un lato o dall’altro del confine.
(2) gli estensori del calendario lombardo hanno visto che l’organizzazione della parte ticinese del trofeo 2016 era a cura della SCOM Mendrisio, sodalizio che più vicino ai confini italiani non si può (prova ne sono i tanti orientisti italiani tesserati per la SCOM), e quindi si sono fidati a mettere in calendario la gara di Trofeo Lombardia senza nemmeno controllare la carta geografica.
(3)è stata una decisione presa sulla base delle proprie personali attitudini e convenzioni, senza pensare a tutta quella parte di popolo orientistico lombardo che, magari, non abita a ridosso del confine e di comperare il bollino autostradale svizzero per una unica comparsata annuale oltre confine non ci pensa proprio.

Nonostante tutto, però, due gare in Ticino negli ultimi tempi sono riuscito a farle. Si tratta di due gare sprint, una nel paese di Dino e valida per il Trofeo “Fra.G.Ori” organizzato dall’AGET Lugano, l’altra a Lugano Bré che assegnava i titoli di Campione Ticinese: due località che sito proprio al confine della raggiungibilità per chi, come me, non è munito di bollino autostradale svizzero (ma, con l’aiuto dell’OK Bovec, l’impresa è stata resa molto più facile…).

La prima impressione che ne ho ricavato è che, a meno che la Federazione Internazionale non ci metta lo zampino, domenica 6 maggio 2018 sarò seduto in qualche posto con una connessione internet almeno decente a gustarmi una signora finale di Campionato Europeo Sprint. Quel giorno infatti in Ticino, dove non lo sa ancora nessuno, si correrà la finale del Campionato Europeo di Orienteering; sono sempre più fermamente convinto dopo aver visto le carte dei Mondiali degli ultimi anni, quelli precedenti e successivi a Venezia che è stato un Vero Grande Evento, che ticinesi ed italiani sappiano tracciare gare sprint come pochi altri. Sicuramente meglio degli svedesi! Se agli ottuagenari dell’IOF piacciono le gare sprint che ci concludono con 6 atleti al traguardo chiusi in 6 secondi… beh! Allora che vadano a Oslo, Zurigo o Stoccolma a vedersi un meeting in pista della Diamond League. Gara sprint significa “gara ultra veloce” e non “gara banale” che si decide su una unica scelta di percorso in 15 minuti; e non significa nemmeno che si deve concludere con un arrivo in volata spalla a spalla (che tale diventa solo nella immaginazione degli orientisti e solo DOPO aver guardato la classifica finale).

Almeno, questo è il mio parere. E, come diceva il mio primo maestro di scacchi, “è il mio parere, e come tale lo difendo”.

Nei miei sogni, nel 2018 potrei sentire la voce di Per Forsberg commentare un Europeo Sprint dal Corso Bello di Mendrisio dove si erano disputati i KOM tanti anni fa, o dallo Stadio Comunale di Bellinzona dopo che i concorrenti si sono cimentati con i castelli che sovrastano la città. Ma il vero sogno sarebbe quello di un arrivo indoor DENTRO l’impianto hockeistico della Resega di Lugano… Poi, per carità, gli organizzatori potrebbero benissimo decidere di farci scoprire un borgo nuovo, un nuovo labirinto, o farci tornare in una area già nota e degna di ospitare un simile evento ed il corollario di pubblico (Giubiasco?). Ma, per favore, cara IOF: lascia lavorare e sbizzarrire i ticinesi come meglio credono! Ne guadagnerà lo spettacolo, perché i ticinesi in queste cose ci sanno fare. Tu, cara IOF, no.

*** ***

Dino e Bré, quindi. Due gare in poche ore con un conceptdecisamente diverso. Fra.G.Ori rappresenta da tanti anni una sorta di palestra agonistica per tutti coloro che vogliono rimanere a contatto con la cartina: le gare non assegnano punti per questo o quel trofeo (a parte, appunto, il Fra.G.Ori stesso) ma sono frequentate da una marea di appassionati – a Dino erano 206– che si sfidano su percorsi gender parity (cara IOF… “gender parity”: ti fischiano un po’ le orecchie?), disegnati talvolta da giovani AGETini che hanno appena completato il corso tracciatori e si fanno le ossa supervisionati da atleti più esperti. Serate frizzanti all’insegna dell’easy orienteering, con orari di partenza liberi e griglia che prevede partenze ogni minuto, e poi lasciamo che siano gli orientisti stessi a decidere chi sfida chi e che cosa c’è in palio! (ah! La regolamentite…)

Io ad esempio ero salito a Dino con l’unico obiettivo di “staccare” un po’… con un orecchio sempre incollato al cellulare per captare eventuali notizie da casa.  Al ritrovo con il gruppo misto OK Bovec-OriComo con il quale avrei condiviso il ritorno (Metka, Kristian, Giada), non avevo velleità di sorta se quello di sopravvivere decentemente allo spostamento del mio tonnellaggio dalla partenza all’arrivo. Questo finché non ho scoperto che, a fronte della scelta casuale degli orari di partenza (ognuno fa la fila e sceglie dal mucchio l’orario di partenza che più aggrada), ci siamo così trovati: Metka al minuto 1, Giada a quello 1+1, io a quello 1+2 e Kristian a quello 1+3.

Assodato che Kristian mi avrebbe “palàto” di parecchi minuti, dato più o meno per scontato – e non me ne voglia Metka – che alla fine sarei riuscito a lasciare indietro la piccola-bimba-dell’-Est non fosse altro per il fatto che si porta dietro, o dovrei dire davanti?... il prossimo nascituro già da oltre 5 mesi (quel bambino diventerà un campione di orienteering o un manichino da crash test), restava il duello tra me e Giada. Io sarò anche un sostenitore della parità di genere, e faccio battaglie per invitare chi parla di sport ad evitare l’uso dell’articolo “la” davanti al nome o al cognome della atleta durante le cronache, ma se si tratta di duellare non faccio sconti a nessuno\a ed esce anche tutto il mio pregiudizio latente… quindi ho pensato che dall’alto dell’esperienza data dalle mie “millecentordici” gare fatte in carriera non avrei impiegato troppo a raggiungere una ragazza più giovane di me di 20 anni, più magra di me di 40 chili, più atletica di me anche nelle mie migliori condizioni storiche… ma che di gare ne avrà fatte si e no una decina.

Tutto questo lo dico solo adesso… mai mi sarei permesso di scherzarci sopra alla partenza. Perché infatti le cose sono andate ben diversamente.

Alla partenza affronto i gradini in salita che mi portano alla lanterna svedese (che in Ticino si chiama ancora così… altro che delayed start) come se fossi uno che fa il parkour. Infatti ho già il fiatone! Mi butto a destra appena si apre il cortile ed entro in una di quelle zone che tanto mi piacciono quando faccio una gara sprint: anche se avrei bisogno di un ingrandimento 1:1000 della zona per capire cosa devo fare per arrivare alla lanterna 2, sento distintamente nel cervello la voce di George A. Taylor, del 116° reggimento di fanteria che si fa sentire forte e chiara nella mia testa a colpi di “porta via il culo da qui!!!”. D’altra parte non ho mai visto una lanterna corrermi incontro… (PLab si, e quella lanterna ce l’avevo in mano io, ma è un’altra storia).
Sulla salita dalla 5 alla 6 comincio a capire che le mie velleità di raggiungere presto Metka e Giada tali sono: velleitarie, appunto. Incrocio i loro passi mentre vado alla 6 (e loro stanno andando alla 7), alla 7 (e loro vanno alla 8), alla 8 (e loro vanno alla 9). In realtà. sfruttando la mia innata abilità di solutore di labirinti, le raggiungo alla 10 anche se per arrivarci faccio il “giro del fullo”. E’ tale la mia autostima che non mi rendo neppure conto che per andare alla undici attraverso la strada cantonale, quella disegnata in viola sulla carta. SGRUNT!!! Di questo me ne accorgerò solo nella analisi post gara con Kristian, quando ormai le classifiche sono pubblicate persino sul sito solv.ch…

Dalla 11 in poi, su un tipo di terreno che è l’unico reso possibile da questa mappa, non ne azzecco una!Tratta 11-12: parto in direzione nord con dietro Giada e Metka, poi mi fermo perché scambio la curva di livello principale che taglia perpendicolarmente la strada per un recinto non attraversabile (voce di Giada dopo la gara: “ma ti pare che mettono un recinto che interrompe la strada?!?!?”). Tratta 12-13: vado verso nord per lo stesso identico motivo! Tratta 13-14: ad est anziché ad ovest. Nel frattempo Giada scompare alla mia vista e, sui rari incroci, il cronometro dice che si è ripresa con gli interessi il minuto di vantaggio che aveva in partenza. L’ultimo sfondone è sulla tratta 17-18, che va ovviamente fatta in senso antiorario. Io invece vado verso nord-ovest perché mi convinco che, in zona “18”, sotto al numero “3” e al numero “2” non ci si passa… Dopo tutti questi obbrobri, e considerato che sarei da squalificare per il taglio tra la 10 e la 11, il risultato del confronto tra Giada e me è da rimandare ad una prossima (se mai ci sarà) occasione.

A distanza di poche ore si torna a Lugano, precisamente a Lugano Brè dove “A Brè ci si va solo se c’è un perché” (come dice Lidia). Sono iscritto nella categoria dei “tori” (HAL) ma solo perché la gara è sprint… e non essendo di passaporto elvetico sono messo davanti nella griglia di partenza insieme a Stefano Brambilla, Cesare Mattiroli e il solito Kristian: l’unico che non mi passerà sulle orecchieè Sbrambi, ma solo perché parte davanti a me! Il nucleo di Bré è bello bellissimo per farci una sprint, e Pier Brazzola è proprio il tracciatore ideale per far prendere qualche soddisfazione anche agli impiegati panzottelli come me... se non fosse che è proprio piccolo piccolo! Pier quindi è costretto a farci partire in alto in una zona di bosco che, nonostante la mia insipienza tecnica, riesco a domare con una certa soddisfazione grazie alla scala 1:4.000 che mi piace tanto: di fatto sono un bradipo addormentato, ma qualche volta mi capita di essere preciso e dritto sul punto.
Tra la 5 e la 6 mi passa sulle orecchie Cesare, che se è in nazionale non lo è certo per futili motivi. Arrivo bene fino alla 7, ma per andare alla 8 metto insieme un tempo che al vincitore basterebbe per fare metà percorso: la discesa ripida, come la salita (anche non ripida), non è proprio il mio pane; se in sovrappiù c’è anche il rischio che qualche rovo avviluppato attorno ai piedi mi faccia passare in un nanosecondo da “discesista cauto” a “caduta masso”, mi tiro indietro subito (i miei occhi stanno a più di due metri dal prossimo punto nel quale dovrei posare il piede, ed è una distanza che mi mette abbastanza paura). Vedo passare il grande Manuel Asmus e mi fisso pure di cercare di seguirlo da lontano: così facendo vado dalla 8 alla 10… perché nel tempo che io giro attorno alla collinetta della 8 e punzono, lui ha fatto la 9 e non l’ho visto!!! Ultimo loop e poi  tempo di andare a sfidare Pier Brazzola nella parte figosa del percorso, il nucleo di Bre: qui si che c’è da divertirsi come un matto! (peccato che sia così PICCOLO!!!). Finale tutto da correre per arrivare nella bella arena di gara, e sprint finale tirato a tutta con Reto Depedrini che mi sente arrivare alle spalle (aveva un paio di metri di vantaggio alla 100) e sprinta forte incitato dai suoi compagni di squadra dell’O-92: arriviamo contemporaneamente sul traguardo, e finisce a pacche sulle spalle, come è giusto e bello che sia.

Poi arriva il momento di riprendere la strada di casa, non prima di aver fatto rilevare che se gli svizzeri imparassero ad appendere al contrario la classifica della HAL, io sarei sempre campione ticinese. Ah! Ma appena divento presidente IOF, le classifiche le faccio appendere come voglio io… e come Presidente IOF imporrò che le gare di Trofeo Lombardia oltre confine si facciano in località più vicine!!!

Una cosina semplice semplice...

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Dopo le svariate tirate di orecchie che mi sono arrivate per via dei commenti pre-gara di Lodrino nel mio post precedente, è tempo di tornare a parlare bene delle gare lombarde (a quanto pare, in tutti questi anni di blog io avrei parlato bene solo delle gare trentine o di quelle organizzate dall’Erebus… non mi pare proprio, ma lasciamo perdere). Certo: per parlare bene di una gara lombarda, bisognerebbe innanzitutto avere sotto mano una gara lombarda… E infatti eccola qua! Promozionale a Muggiò organizzata dalla Punto Nord Monza.

Quando si parla di gare promozionali, talvolta si pensa ad eventi trascurabili, dedicati ai soli neofiti dell’orienteering che magari abitano nei paraggi ed hanno deciso, complice il bel tempo, di andare a passare una domenica mattina diversa dal solito; gente che vedremo una volta e basta, fino alla prossima gara nella stessa località (perché se poi si propone loro di andare a fare la prossima gara a Lodrino… mannaggia a me perché non sto mai zitto?!?!?). In un evento di questo tipo, sarebbe molto facile per gli organizzatori concedersi un po’ di agio, di tranquillità, di facilità nel mettere insieme tutti i tasselli che alla fine compongono l’evento orientistico. Attenzione! Non sto accennando in alcun modo ad una voluta dose di trascuratezza o di sciatteria o banalmente di disinteresse nel proporre la gara (il ritrovo, i percorsi, l’ambientazione…). Semplicemente, i più esperti possono ritenere ex ante che ad una gara promozionale la qualità della carta di gara può anche non essere quella del Mondiale (e menomale!!! Difficile fare peggio!), che il rilievo della mappa può prestarsi a qualche piccola lacuna (… e se penso sempre al Mondiale…), che i percorsi potrebbero non essere così succulenti o a prova di bomba.

Bene. Per il mio modestissimo parere la gara di Muggiò valeva tranquillamente una gara di Trofeo Lombardia, ed è almeno già la seconda volta quest’anno che una gara promozionale lombarda fa tornare a casa veramente contento l’orientista che è in me! (a giudicare dalla mole che mi porto appresso, dovrei dire “tutti gli orientisti che sono in me”). A Muggiò, promitionalibus promotionandis, troviamo l’aggiunta di tutta una serie di benefits che l’avrebbero resa molto appetibile a tanti altri orientisti, sicuramente a molti più di coloro che hanno costituito la sparuta presenza che è andata a correre nella caldazza della Brianza: ritrovo facile da raggiungere, partenza vicina, orario di partenza libero, nessun problema se Tizio si mette in coda in partenza proprio dietro a Caio per sfruttare l’”effetto treno”… tutto organizzato in modo molto famigliare, molto amichevole ed easy, tra amici che si salutano, avversari di categoria che si sfidano senza andare troppo per il sottile ma sempre in modo sportivissimo, classifiche che escono quasi in tempo reale e torte di compleanno che compaiono all’improvviso a complemento del ristoro. Non ci siete venuti? Peggio per voi!

In tutto questo non posso dimenticare che la maggior parte del lavoro l’ha fatta il tracciatore, Luca Pompele; non so quale nume tutelare sia sceso dal cielo a dargli ispirazione per i percorsi, se Daniel Hubmann, o Ruslan Gritsan (potrebbe…, visto che Luca è un fortissimo biker), o quell’impiegato panzottello che alle prese con una cartina ancora priva di cerchietti si chiede sempre “ma a questi che vengono a correre… dove mai potrebbe risultare piacevole essere scaraventati lungo il percorso?”. Ripensando al percorso di Muggiò e ad una intervista che gli feci nel 2012 per il Nuovo Lanternino, secondo me Luca potrebbe benissimo essere stato ispirato dal suo idolo Derrick Rose, l’allora playmaker dei Chicago Bulls; come Rose, anche Luca si è buttato sul disegno del percorso senza paura, senza tirarsi indietro, con il cuore e con la grinta.
Io non sono un tracciatore, non ho titoli orientistici per entrare in qualsivoglia rango federale, non sono nemmeno forte… ma nemmeno un cicinìno! Infatti anche a Muggiò, nella caldazza umida dei 33 gradi di questo settembre (temperatura percepita: altoforno siderurgico), ho trascinato i piedi da una lanterna all’altra ad una velocità tale da far sembrare Usain Bolt persino una lumaca schiacciata da un Tir. Non ho vinto nulla, non succede mai, ed al mio passaggio sui marciapiedi le persone non si sono dovute scansare di colpo per paura di essere investite: anzi un ragazzo delle medie che mi ha visto da lontano lungo la tratta 8-9 deve aver fatto in tempo a diplomarsi prima che ci incrociassimo! Nonostante questo, obiettività vuole che io dica che il percorso mi è davvero piaciuto, che mi è piaciuta la partenza in modalità labirinto (punti 2-3-4) e l’idea di attraversare il parchetto storico fin dalle prime battute. Mi sono divertito all’idea che nel loop dalla 11 alla 16 ci fosse il margine anche per un vecchio asfittico come me per limare ai giovincelli qualche metro andando a tagliare in mezzo alla vegetazione (fatto!); ed infine mi sono divertito all’idea che nella tratta 17-18 fosse più vantaggioso affrontare il Mont Ventoux (definition by Paolo Bocchiola), ovvero il ponticello a zig zag sopra il Villoresi, la zona del porticato ed il campo da calcio anziché finire evaporato e disidratato facendo il giro lungo su strada.


Credo che nessuno sia uscito indenne dal percorso senza un errore, una sbavatura, una incertezza che si riflette nel tempo finale di gara (e nell’esito di qualche sfida incrociata al calore bianco). E questo senza trucchi e senza inganni, solo con 19 cerchietti messi giù sulla mappa con passione. Tanto mi basta.

5 giorni dello (S)Carso in Elite

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“Oggi potete essere venuti fin qui per partecipare o per vincere. Se siete qui per partecipare, siete i benvenuti e nessuno potrà rimproverarvi per un piazzamento lontano dal vincitore. Uno solo vince la gara. Ma se siete qui per cercare di essere quell’uno, allora dovete essere pronti ad arrivare al traguardo con la maglia sporca ed i pantaloni strappati, stringendo i denti e respingendo la fatica e le lacrime. Questa è Gropada signori! E Gropada non perdona. A voi la scelta, se farne un enorme parcheggio fino al confine con la Slovenia ed oltre, o se farne una carta da orienteering… io propendo ancora per la carta da orienteering.”

Così parla l’Angelo Sterminatore
Poi parte la musica di “Welcome to the jungle” dei Guns ‘n Roses. 

E pensare che eravamo solo al primo pomeriggio di venerdì, ancora nella prima metà di quella che si sarebbe dimostrata una faticosa, lunga, a tratti interminabile, esaltante “5 giorni del Carso”. Per fortuna che dietro al microfono c’era anche Wolfgang Poetsch, altrimenti le cose sarebbero andate in modo molto diverso; in primo luogo credo che non avrei potuto terminare la mia gara a lunga distanza in MElite, forse l’ultima MElite Long della mia carriera? In secondo luogo il tasso di follia, che parte dalle vene del cervello ed arriva alla mia bocca e si travasa nel microfono, stava già mostrando un ingresso in piena “zona pericolo” ed eravamo appena alla terza gara… addirittura solo alla prima gara con il pienone di atleti e pubblico. Se fossi rimasto al microfono da solo, temo che avrei potuto dire cose irripetibili.

Adesso l’obiettivo del diario dovrebbe essere quello di spiegare come sono arrivato fino a Gropada e come l’avventura è proseguita fino al traguardo.

Comincio con il dire che, anche questa volta, il mio arrivo in zona gara martedì sera è stato tra il delirante ed il drammatico. Tre giorni prima, avevo infatti annunciato la mia rinuncia alla trasferta a causa delle condizioni del papà che non potevano lasciarmi assolutamente tranquillo (ed il Carso non è purtroppo all’angolo della strada…). Poi c’è una schiarita nelle condizioni, mio padre comincia a tornare (almeno come spirito) quello che fino ad un paio di anni fa si faceva 100 vasche a delfino ogni giorno, mia madre si mette tranquilla e tutti insieme decidiamo che posso partire. Con un orecchio sempre al cellulare, ma con una concreta speranza di arrivare fino al termine della 5 giorni. Risultato: martedì sera tardi, dopo 5 ore di viaggio solitario in auto, mi accascio sul letto a Duino ma sono pronto per aprire le danze il mattino dopo al Villaggio del Pescatore, prima tappa, in Elite.

Questa faccenda dell’Elite era una boutade che avrebbe dovuto servire più che altro come stimolo mentale, non tanto fisico. Nel bollettino di gara avevo letto: middle, middle, middle (a Gropada… quindi mica tanto middle), campionato italiano lunga distanza, poi sprint e staffetta. Per la sprint non c’è problema. Per la staffetta sono iscritto in M45 con Paolo e Lucia. Le tre middle, trattandosi di tappe di una 5 giorni, non saranno così insidiose (Gropada a parte). Quindi lascio perdere le mie velleità, che sono poi semplici speranze destinate ad infrangersi sulla carta di gara, di completare la gara Long e mi iscrivo in Elite: se devo commentare le gare degli Elite, meglio essere nelle condizioni di sapere cosa faranno, dove andranno, quanto patiranno. Cosa… dove… perché. Il “chi” di un normale pezzo di cronaca rimane il sottoscritto. Il “perché” è sempre nascosto nelle nebbie della follia.

Mercoledì mattina, con un vento di borino che lévati, inizio dunque la mia avventura sulle rive del Timavo. Sarà la tensione accumulata nei giorni precedenti, sarà la prima notte di sonno profondo che ho appena passato, sarà che finalmente mi sento pervaso da un po’ di tranquillità che manca da più di un mese… affronto la gara con un piglio decisamente pimpante e l’orienteering mi sembra tutto facile.
Probabilmente non si tratta del terreno più difficile del mondo, ma appoggiandomi a tutte le tracce di sentiero ed a tutti i gialli (prati) e giallini (prati appena più grezzi) riesco a venire bene a capo di tutte le lanterne. Mi azzardo persino a dire che l’errore più grosso di giornata (le indecisioni, al mio livello, non si contano come errori) lo faccio alla 8, che è a bordo strada e che pensavo di vedere da lontano; invece è dietro un cespuglio, ed i 20 secondi che resto lì come quello della maschèrpa ad aspettare che salti fuori lei da sola mi sembreranno alla fine un errore gravissimo. Dalla 9 fino al passaggio al punto spettacolo si tratta di scegliere con cura il sentiero da percorrere, Dio mi scampi che io mi metta a correre fuori dai sentieri!, e magari soffermarsi un attimo a guardare la piccola insenatura ed il mare alla 10, in quello che è davvero il punto spettacolo della gara ma solo per le categorie che hanno la fortuna di arrivarci. Poi (sembra incredibile) per arrivare alla 15 non c’è niente di meglio da fare che raggiungere la trincea e correrci agevolmente dentro fino al punto. Sbaglio, quella si, la 16 arrivando fino a vedere la linea elettrica che sta oltre la 17, ma mi riprendo bene ed addirittura mi posso bullare della mia tratta 19-20, tutta in bussola e dritta sotto la linea rossa (lasciando invero molta pelle sul ginepro ed i rovi di quella zona verde), laddove parecchi concorrenti che sentirò nel dopo gara cercano di fare il giro da sotto e finiscono per perdersi in un labirinto di cespugli che invero è più fitto dell’aperto brullo che compare in mappa.

1 ora e 13 minuti di gara per me e possiamo mettere un “fatto!” sulla prima tappa. Il migliore è un ragazzino austriaco alto, molto magro (secondo i miei parametri), molto bello (secondo tutte le ragazzine della Punto Nord Monza) che ci mette 48 minuti, ma in fondo lui è l’ottavo del mondiale junior mentre io sono solo l’ottavo del mondiale di “cene a base di schifezze” dietro a Ciccio di Nonna Papera e davanti al John Belushi di Animal House, quindi torno a cuccia con un bel po’ di fierezza in testa.

La magia orientistica del primo giorno sembra però abbandonarmi già durante la seconda tappa, nella quale devo lottare come un ossesso per arrivare al traguardo. Ennesima carta di gara nuova , per me, quella del Santuario di Monte Grisa.
Parto al mattino con un bel freschetto e la prima parte di gara è velocissima, e si si può anche appoggiare ai sentieri. Oddio… velocissima… per dire che io sono velocissimo dovrei perlomeno dimenticare i 3 minuti passati a girare come un allocco nella zona della 1, al centro di un’area delimitata da un-sentiero, una-strada, una-bucaconsassi: tutte cose evidentissime, perché o ci corro sopra (il sentiero), o la guardo da pochi metri (la strada) o ci butto un occhio dentro (la buca con i sassi). Ma ci metto pur sempre 3 minuti per trovare la buca giusta! Riparto come un centravanti inseguito da Franco Baresi e picchio dritto sulla 2, la 3, la 4 e la 5 (il bellissimo “menhir” che in realtà serviva per il puntamento a nord dei cannoni dal forte di Trieste, a ricordo di tempi passati molto brutti e di un Carso completamente brullo). Dritto alla 6 “come faccio ad arrivare al mio punto se sta al centro di una zona delimitata dalle fettucce rosse?!?!?... ah! Le fettucce sono solo dalla mia parte della buca…”. Dritto alla 7 che per fortuna ha una specie di scivolo per scendere in fondo alla dolina. Dritto alla 8 che Poetsch non sarà in grado di trovare (ARH! ARH! ARH!) e sentiero fino alla 9, con il bosco dalla parte sud della collina che sembra una pineta di Bedolpian.

Qui finisce il mio paradiso orientistico. Per andare alla 10, il mio piano prevede di scendere fino alla strada, bucare di slancio (diciamo pure “con il mio peso e la forza della gravità”) quel sottile strato di verde1, entrare in una zona di bosco che mi aspetto paragonabile ai Mille Pini di Bedolpian e raggiungere facilmente il punto. Purtroppo il “sottile strato di verde1” è pura giungla del delta del Mekong, e fino al muretto è solo un verde2 da parolacce e brutte cose dette sulle mamme altrui. Conservo un indimenticabile ricordo di me stesso che corre con il vento a favore e l’erba leggermente mossa dal borìno, come in una pubblicità della Nike, sul pianetto che dalla 11 porta alla 12. Poi arriva il momento di affrontare il loop 13-18 di cui conservo dimenticabili ricordi, e milioni di abrasioni! Cerco invano di contare i muretti, di stare in piedi sul terreno carsico che di più non si può, di dire a me stesso “coraggio! E’ il primo impatto con il Carso! Ti servirà per i prossimi giorni!” laddove però impatto vuol dire con i sassi sul terreno, con i muretti che franano sotto di me, e con i rovi e le spine di ogni maledetto cespuglio. Perdo 5 minuti e mezzo alla 14, perché la mia mappa non riporta in corrispondenza del punto 61 la relativa descrizione: con il senno di poi (e l’ingrandimento al 250% di uno scan 300x300dpi massima risoluzione) mi accorgo che quella che dovrei cercare è una buca. Nella realtà mi ritrovo in un anfiteatro di muri, muretti, sassi e curve di livello: non so cosa cercare e su che cosa concentrarmi! Guardo dietro ogni sasso, muretto e roccia, e solo dopo vane ricerche per disperazione mi accorgo di una buca dietro ad un sasso, che nasconde la lanterna.

Lo chiamo “effetto funghi o fragole”: da bambino, quando mia madre mi mandava nel bosco, se andavo con il cestino ed il coltellino era per i funghi che servivano al risotto, e l’occhio rimaneva concentrato a scorgere scodellette e vaciotti tra il muschio e l’erba. Se mi mandava con il contenitore lungo di plastica per le fragole della macedonia, l’occhio riconosceva ogni pixel rosso. Non mi è mai capitato di trovare, nella stessa spedizione, funghi E fragole! Inutile: devo sapere cosa vado a cercare, e quella descrizione punto mi sarebbe proprio servita.

Dalla 18 ad andare verso sud è un altro attraversamento di un verde2 terribile; le energie vanno rapidamente in riserva ed il mio tempo di gara di 85 minuti sarebbe menzionabile solo se gli altri Elite facessero ancora cilecca. Invece arriva il solito ragazzino austriaco alto e magro (e bello… si! Ho capito Alessia Eleonora e Anita! E’ bello…) e mi dice il suo tempo “....ty-eight”. Io penso “forty-eight” e dico “not bad!”. E lui “Not …tyeight, …ty-eight!”. E io “Yes, forty-eight, understood”. E lui “NOT FORTY-EIGHT! THIRTY-EIGHT! THREE EIGHT!” e mi fa segno anche con le dita. Lo calmerò spedendolo immediatamente a fare l’intervista con la RAI.

Una cosa curiosa è che a Monte Grisa non c’è stato speakeraggio. Avevamo già capito, vista la sacralità della zona, che avremmo dovuto limitare il contributo di rumore al minimo; non ci aspettavamo, nessuno degli organizzatori si aspettava, che non avremmo potuto montare l’impianto audio perché proprio quel giorno e all’ora di gara (e dopo TRE ANNI di attesa) gli alti prelati del luogo avevano deciso di far arrivare la processione con la nuova mega statua del vescovo che aveva inaugurato tanti anni prima il santuario. Niente speaker, quindi, ed un po’ di delusione quando la “processione” si è rivelata essere un camion che portava la sola statua da innalzare e nessun altro. Forse qualcuno non voleva proprio sentirci blaterare!

Venerdì si arriva dunque a Gropada, carta con la quale ho un conto in sospeso da saldare ampiamente. Nella mia unica apparizione da queste parti, non ero riuscito a concludere la gara, ubriaco di muretti e in ritardo per dare il benvenuto come speaker agli atleti in gara per la Coppa Italia. La middle di Gropada parte alle 14, unica volta in cui riesco a dormire fino ad un orario decente e arrivare con calma in zona gara, e vengo accompagnato in partenza da tutta una serie di raccomandazioni e consigli: pare che ciò che ho patito nella seconda parte di gara a Monte Grisa sarà nulla rispetto a quello che affronterò a Gropada; e che, per continuità, Gropada non sarà nulla rispetto al terreno di Sgonico. Io continuo a pensare “andiamo bene!”, che finirà nuovamente con un risultato Stegal 0 – Gropada 1 e che l’Elite a Sgonico è un passo troppo lungo per le mie gambe.

In effetti, guardando la carta di gara…
… non si fa alcuna fatica a capire che la gara di Gropada è divisa in due parti distinte: una nella quale mi sembra di viaggiare bene, di “essere in carta”, di fare bene il mio compito e tutto sommato di non patire proprio le difficoltà del percorso. L’altra è la parte nella quale tiro giù svariati mòccoli, mi pento e mi dolgo di aver scelto la categoria Elite, mi chiedo se ce la farò a finire il percorso, eccetera.

La cosa strana è che la parte in cui mi sento fìgoè la prima metà del percorso, quella nell’inferno. La parte in cui mi sento il solito inguardabile impiegato panzottello è la seconda, dalla lanterna 14 in poi!

Ok… non è che io abbia viaggiato all’inizio alla velocità del TGV (Thierry Gueorgiou Velociraptor): sono andato a prendere tutti i sentieri , ed anche la strada per andare dalla 2 alla 3 e poi dalla 5 alla 6. Anche per andare dalla 12 alla 13 ho fatto la scelta “sentiero verso est e poi verso nord”; dalla 14 alla 15 ho fatto il sentierone verso nord-ovest e poi quello verso est (dopo aver accoppato a pacche su tutto il corpo un nugolo di mosche cavalline… le odio!), ma la missione era sopravvivere e credo di esserci riuscito abbastanza bene. 93 minuti per una middle sono una roba tremenda, soprattutto se confrontato con il tempo del ragazzino austriaco altomagrobelloeoraancheantipatico, ma mi ha confortato il fatto che 93 minuti per due sono tre ore e 6 minuti, e che la middle di Gropada era la metà della Long di Sgonico. Avrei messo nel mirino della Long le tre ore di gara, e poi vediamo che succede (tanto Wolfgang Poetsch può dare il benvenuto a tutti alle 9 del mattino e proseguire da solo fino al mio arrivo).

Così venerdì sera si va a dormire presto con il solo conforto di una Pleskavica preparata da Peter Ferluga in persona. Dormire presto perché l’indomani si prospetta decisamente impegnativo: 
  • Sveglia ore 5.30, dal letto salto direttamente nella tuta da gara
  • Faccio il taping rinforzato ad entrambe le caviglie
  • Alle 5.50 scendo a svegliare Goggi e a cercare di mangiare qualcosa, ma è praticamente impossibile visto l’orario (il mio stomaco si rifiuta di incamerare qualsiasi cibo, nonostante io lo minacci con la prospettiva delle tre ore di gara)
  • Alle 6.15 saliamo in auto. 
  • Alle 6.25 siamo davanti alla zona arrivo. Parcheggio l’auto dove capita (memore di quanto feci l’anno scorso a Pietranera, dove al buio lasciai l’auto nello stesso modo e rischiai di bloccare tutto il traffico veicolare…)
  • Alle 6.35 prendo la strada già fettucciata verso la partenza (tutto il percorso è già predisposto)
  • Alle 7.03 parto verso l’ignoto

Non starò ovviamente a raccontare il mio peregrinare per i boschi di Sgonico step by step. La mia tattica per sopravvivere fino al traguardo è una sola: sentieri e sentieri, tracce e tracce. Tutte. Anche a costo di allungare parecchio la strada. Conosco la zona della 1 dagli europei master di qualche anno fa, e la 2 non è sbagliabile. Il terreno mi sembra persino meno insidioso di come lo ricordavo o era stato descritto, e per la 3 si può fare un ampio giro su sentiero fino a sotto il punto, ugualmente non sbagliabile.

Per andare alla 4 devo solo seguire con calma e pazienza ogni piccolo sentiero; mi “perdo” nella zona del Triangolo delle Bermude che inghiottirà in uno strano e invisibile bivio verso sud anche i due Scalet, Pezzati, Negrello, Bettega e (se non vado errato) Tenani, ma dopo un interminabile numero di minuti arrivo alla 4, che affronto larga cercando di stare il più possibile sul sentierino. Sbaglio la 6, che trovo più per culo che per anima, ma mi rifaccio alla 7 dalla quale ero già passato prima in uno strano impeto da “passiamoci adesso, che magari dopo mi ricordo dov’è”. Adesso si tratta solo di far passare la seconda ora di gara, dopo che la prima è andata via liscia e con fiducia: è un’ora cruciale perché arriva con le energie già ampiamente spese e con il pensiero che ce ne sarà una terza assai più dura subito dopo.

La 8  una collinetta larga più o meno quanto uno sputo: infatti la manco, arrivo sul sentiero, risalgo fino al prato e da lì devo remare duro per ritrovarla. E’ come la sequenza 6-7: sbaglio la 8 ma faccio bene (piano ma bene) la 9, la 10 e la 11 perché sono tutte disposte lungo la “Santa Traccia prega per noi poveri orientisti”. Utilizzo tutto il sentiero che gira attorno al prato (e il ristoro, maledizione, non c’è ancora) per arrivare alla 12, e poi ne combino di tutti i colori alla 13: penso che quel muretto non sia sbagliabile, e invece finisco per girare come una gallina senza testa attorno a tutti i cespugli, i verdini, gli alberi caduti… preso dalla disperazione, quando credo di aver identificato il sentierino ad ovest del punto, lo percorro scendendo fino al bivio (sono già più vicino alla 14 che alla 13), risalgo il sentiero che sta ad est fino a che incrocio il muretto e da lì il punto torna ad essere facile.
Per gli amanti dell’orrido:
  • In rosso la parte dalla partenza alla 4 e dalla 14 alla 15
  • In blu la parte centrale, dalla 8 alla 12.
Dalla 14, per arrivare alla 15 impiego poco meno del tempo della tratta 3-4: sono davvero stanco (prenderò il terzo carbogel troppo tardi, alla 15) e non mi fido più del mio orientamento; bussola ad ovest fino al sentiero che ripercorrerò verso sud per andare alla 18, poi su lungo il sentiero fino a trovare l’altra carrabile, ma le ultime curve di livello sono terribili. Ancora più terribili quelle che devo fare per andare alla 16, in quel pezzo di gara che si rivela una autentica “salita delle lacrime e delle bestemmie” (ma io non sono blasfemo e mi devo limitare alle lacrime). Per fortuna c’è la traccia di sentiero ad ovest della 16 e 17, altrimenti ero ancora lì a cercare. Poi è (quasi) solo discesa. Ancora una volta passo da un ristoro (quello della 18) e non trovo nulla. La 19 è banale, la 20 di più e da lì si gode una vista sensazionale sulla arena di gara che si è animata di 1000 orientisti che si vedono, si fanno sentire e mi sembra addirittura di percepire che qualcuno mi ha visto e sta facendo il tifo per me. Per la 22 affido l’anima al mio Angelo Custode, che deve essere andato a lezione da Gueorgiou perché arrivo al punto dritto sotto la linea rossa! Poi è soltanto fatica, in mezzo ai recinti ed alle vigne fino all’ultimo attraversamento del terreno grezzo che mi porta al punto 24. Sento le voci degli atleti, le macchine che passano per la strada ma i piedi fanno davvero fatica a muoversi mentre l’orologio ha già scollinato le tre ore di gara.

Sbuco sul pratone in discesa e cerco di correre un po’ dandomi un contegno. Nessuno sa a che ora sono partito, nessuno sa che sono in giro da 3 ore e 4 minuti. Forse la mia andatura davvero stanca non è il massimo che ci si aspetta di vedere dal primo che arriva al traguardo, ma mentre affronto l’ultima discesa sento distintamente tra il brusio e gli incitamenti una voce che arriva direttamente da dentro la mia testa: “Ce l’hai fatta stavolta!!!”. Quello che non ero riuscito a fare l’anno scorso in Liguria, me lo sono ripreso con gli interessi ad un anno di distanza a Sgonico.

Poi ci sarà un commento interminabile della Long Distance fino al finale thrilling in volata tra Misha e Klaus per il titolo italiano. Ci sarà il trasferimento a Gradisca d’Isonzo per una sprint davvero carina ma affrontata con i piedi e le gambe che all’inizio SI RIFIUTANO di muovere altri passi di corsa.
Ci sarà una premiazione interminabile e, a 18 ore di distanza dalla sveglia, sarò in grado di tornare a letto a stomaco vuoto.

L’indomani rientro nei passi più agevoli di un over-45 per la mia frazione a staffetta, che mi fa ripercorrere buona parte degli ultimi 40 minuti della gara long.
E ci saranno altri commenti al microfono, altre premiazioni ed infine il “rompete le righe e tutti a casa”. In tutta onestà una parte di me si sta ancora chiedendo se sia un segnale più di coraggio o più di follia pensare, alle 6 e mezzo di un mattino di inizio autunno, di muovermi dalla zona di arrivo per andare a fare una gara che non ho più nelle corde da un pezzo. La risposta che mi do è sempre la stessa, ed è molto semplice: non potrei mai pensare di commentare al microfono la gara di qualcuno, se prima non ho provato io stesso a vivere quella medesima gara. So che al microfono ci sono esperti più bravi di me, che non si lasciano nemmeno cadere nella tentazione di fare qualche battuta sulla performance di questo o quella atleta. A me capita di sicuro di sbilanciarmi in qualche commento che può risultare non molto felice ma nessuno, fino ad ora e da dieci anni (infatti non è mai successo), può dirmi “provaci tu se ne sei capace”.

Forse non ne sono del tutto capace, ma almeno ci ho sempre provato.

La leggenda del Banditore

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C’erano una volta due prodi cavalieri medievali che di nome facevano Don Pedrotte e Sir Ruggiério. Erano tra i più forti, leali e valorosi cavalieri di tutto il reame di Orientonia, e le loro gesta facevano scrivere agli aédi pagine e pagine di racconti epici e sensazionali dai quali emergeva tutto il loro valore.
Va detto, per aiutare il lettore impreparato, che in tutto il reame di Orientonia gli abitanti si dedicavano tutto il santo giorno ad una sola attività: la caccia ai draghi. Orientonia era disseminata di draghi per ogni dove ed i suoi abitanti, al fine di stabilire gerarchie, meriti e onori, non facevano altro che dare la caccia ai draghi. Tale caccia, ai sensi del Reale Tomo Fondamentale (da sempre noto come RTF), si svolgeva in modo del tutto incruento: in tutto il reame di Orientonia, a turno uno dei baroni o dei marchesi o dei duchi, che là abitavano, organizzava una tenzone alla quale erano invitati tutti i cavalieri. Ad essi veniva consegnata una mappa con l’indicazione della posizione delle tane di tutti i draghi che riposavano nelle vicinanze (perché i draghi, in tutte le storie, all’inizio dormono sempre!); i cavalieri, a turno, dovevano salire in groppa al proprio destriero e, nel più breve tempo possibile, fare il giro di tutte le tane dei draghi, lasciando un segno sulla zampa di ciascun drago detta “punzonatura”. Quando il drago, risvegliatosi, volava alto nel cielo, era possibile verificare quali cavalieri avevano eseguito tutte le punzonature, e celebrare tutti insieme chi si fosse dimostrato più bravo.
Don Pedrotte e Sir Ruggiério erano davvero tra i più bravi, nonostante la loro età avanzasse di gran carriera e il colore dei loro capelli tendesse ad incanutirsi. Tanti cavalieri più giovani potevano vantare, in ogni tenzone, un valore paragonabile a quello di Don Pedrotte e Sir Ruggiério: tra tutti il conte Alessio della Tenania o la principessa Cristina Kirchelecchenaria. Tutti costoro erano entrati ormai nel mito del popolo di Orientonia che ogni settimana attendeva l’emanazione del resoconto ufficiale del torneo da parte del Parlatore Imperiale (meglio noto come P.I.) per verificare se la bilancia del fato e della gloria pendeva più sul lato dell’uno o dell’altro.
Tutti gli abitanti di Orientonia, nessuno escluso, erano coinvolti in questi tornei. Non tutti erano abili come Don Pedrotte e Sir Ruggiério, ma tutti quanti si dedicavano con passione alle tenzoni, attendevano nelle arene di gara i loro beniamini, esplodevano in applausi scroscianti al loro passaggio, e poi andavano ad apprendere i segreti dei due Master Knight quando Don Pedrotte appendeva nelle bacheche araldiche il resoconto delle sue gesta; Sir Ruggiério era un cavaliere assai poco propenso a raccontare le sue gesta, preferendo talvolta un semplice e lapidario commento sulla bacheca del FacciasLibrus. Tuttavia, ogni qualvolta Don Pedrotte scriveva con una prosa fluente e coinvolgente, Sir Ruggiério non poteva trattenersi dal dire la sua per ribadire (se ce ne fosse stato bisogno) che la dea Nike non aveva ancora deciso chi dei due era destinato a prevalere nella leggenda.
Capitava anche che, in occasione del Tornei più importanti, i duchi o marchesi o baroni che organizzavano la tenzone chiamassero una figura molto meno nota di Don Pedrotte e Sir Ruggiério, per allietare gli astanti e distrarli momentaneamente dalle abbondanti libagioni e bevute che venivano predisposte.
Egli era conosciuto molto semplicemente come “il Banditore”.
La sua missione risaliva la notte dei tempi. Dovete sapere infatti che i draghi creano la loro tana lontano dalla piazza principale del borgo dove veniva organizzata la tenzone. E tutti coloro che vi prendevano parte o vi assistevano soltanto si sarebbero annoiati alquanto se avessero dovuto limitarsi ad attendere il ritorno dei cavalieri ed il palesarsi dei draghi per sapere chi si fosse aggiudicato la contesa. Il Banditore aveva quindi il compito di riempire i tempi morti della tenzone, aggiornando gli abitanti di Orientonia con informazioni che attingeva da una sfera di cristallo con una faccia invero molto piatta e di forma rettangolare, o che sembravano raggiungerlo per magia, o interpretando una strana turbolenza udibile in lontananza come una sicura evidenza della avvenuta prodezza o della caduta di un cavaliere.
Il Banditore, va detto, era un autentico ciarlatano. Quelle strane turbolenze o segnali provenienti dalle foreste circostanti i boschi di Orientonia, per lo più se le inventava di sana pianta, sicuro del fatto che il pubblico si sarebbe dimenticato delle sue osservazioni non appena avesse potuto ammirare con i propri occhi il ritorno dei cavalieri ed il risultato delle loro imprese. Però tanti accettavano di buon grado l’accompagnamento vocale della tenzone, sperando di essere citati dal Banditore per qualche loro personale prodezza (anche se non potevano rivaleggiare con Don Pedrotte e Sir Ruggiério), o augurandosi di essere lasciati nel dimenticatoio quando la tenzone li aveva visti sconfitti in malo modo.
Il Banditore era anche una figura strana. Aveva preso il posto del banditore precedente in circostanze che definire misteriose è poco. C’era chi parlava di un matrimonio che aveva costretto il banditore precedente ad eclissarsi (ed al suo ritorno non aveva più trovato il suo posto), o di qualche altra strana magia. Ma nel reame di Orientonia c’erano alcuni giovani virgulti che ambivano al posto di Banditore. Va detto che i giovani avevano una idea un po’ balénga del Banditore. In molti lo immaginavano ricoperto di onori e di denari, rifocillato ad ogni tenzone con delizie di ogni genere, ospitato tra mille lussi nelle migliori stanze dei palazzi reali, accompagnato ogni notte da ninfe ed odalische che non vedevano l’ora di gettarsi tra le sue braccia. Il Banditore sapeva che la realtà era tutta un’altra cosa… Tuttavia, sempre più spesso, il duca o il barone o il marchese che organizzava il torneo segnalava al Banditore, en passant, che nella sua landa stava crescendo qualche giovane leva in grado, chissa?, prima o poi di spodestarlo dalla sua posizione. Quando il Banditore cominciò a sentire questo ritornello sempre più spesso, capì che i suoi giorni cominciavano ad essere contati: l’età ed il vigore non erano più quelli di un tempo, presto sarebbe venuto anche per lui il tempo di cedere lo scettro della Banditura e ritornare nell’oblio.
Tuttavia il Banditore aveva un’arma segreta. Segreta… era talmente sotto gli occhi di tutti al punto da essere diventata quasi invisibile (perché il banditore aveva letto “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe). Dovete sapere infatti che il Banditore in passato era stato anche lui un cavaliere; non era certo abile come Don Pedrotte o Sir Ruggiério, ma aveva sempre partecipato con passione a tutte le tenzoni alle quali era stato invitato. Non aveva mai raccolto onori paragonabili a quelli dei migliori cavalieri, ma una volta diventato Banditore aveva giurato a sé stesso che finché fosse stato possibile non avrebbe rinnegato la sua anima di cavaliere. Così, ogni volta che il Banditore veniva chiamato ad accompagnare una tenzone, egli era sempre il primo a cercare di trovare le tane di tutti i draghi indicati sulla mappa. Con il buio o all’alba, muovendosi da solo attraverso le foreste, il banditore cercava di individuare tutti i draghi e di memorizzare le caratteristiche della tana, al fine di poter accompagnare il commento vocale con particolari che solo chi era stato nella foresta, e chi aveva davvero visto tutti i draghi, poteva conoscere.
Certo… il fatto di muoversi da solo e ad orari impossibili, senza riferimenti e spesso senza neppure avere avuto la possibilità di rifocillarsi, annacquava le possibilità ormai pari a zero che il Banditore, nelle vesti di cavaliere, potesse raggiungere risultati pari a quelli di Don Pedrotte o Sir Ruggiério. Ma tanto gli bastava: “meglio un giorno da leone che cento da Bjorn Persson!” diceva. Anche perché questa particolare caratteristica del Banditore era un unicum: neppure il Banditore noto come “Gogghius” della vicina OrientOsterreich, che pure vantava un passato di grande cavaliere, si azzardava a fare quello che il Banditore di Orientonia cercava di fare. E persino il grande e inarrivabile mago PerForsberghio, della lontana SvezOrientland, si limitava a bofonchiare “I’m not here for that” quando vedeva il Banditore di Orientonia prendere la strada della foresta alla solitaria ricerca di draghi.
I giovani aspiranti banditori scalpitavano sempre di più, finché giunsero alla decisione di liberarsi del Banditore nell’ultimo fine settimana di ottobre, con quella che i posteri avrebbero chiamato “la congiura degli aspiranti banditori”.
La tenzone, quella volta, aveva avuto luogo nella lontana terra di Ligurionia: una landa famosa per le sue curve e tornanti, nonché per l’ospitalità degli osti locali che alla richiesta di un po’ di grana da mettere sulla pasta rispondono immancabilmente “se sposti i primi pezzi e guardi bene sotto, vedi che un po’ ne abbiamo già messo”. Per la precisione, la tenzone avrebbe impegnato i cavalieri (e quindi anche il banditore) sulla mappa di “Dolore”, altrimenti noto come Monte Beigua, nota a tutti i cavalieri per la sua difficoltà e per i pericoli ivi nascosti. Lì i giovani virgulti avrebbero dimostrato a tutti gli abitanti di Orientonia che il Banditore ormai era troppo vecchio e stanco per continuare la sua missione.
Al Banditore venne chiesto come prima cosa di intrattenere la rapida tenzone che si sarebbe svolta nel borgo di Savona. I draghi lì non erano così pericolosi, e le tane erano tutte vicine tra loro. Il Banditore riuscì a disimpegnarsi in poco più di mezz’ora nel suo ruolo di cavaliere, ma dovette far fronte ad insidie inaspettate: un ponte levatoio che si apriva e si chiudeva più o meno quando cacchio pareva a lui, una compagnia di teatranti che stavano mettendo in scena uno spettacolo proprio sul ponte levatoio, un venditore di almanacchi che si mostrava in grado di aprire e chiudere un passaggio cruciale del percorso da una tana all’altra con la semplice apposizione di una lastra metallica…
Nonostante tutto, nonostante la limitata capacità del Banditor-cavaliere di domare le labirintiche fortezze medievali, nonostante gli avventori delle taverne e le comitive di pellegrini ed un diluvio torrenziale, la tenzone poté dirsi portata a termine con regolarità. Ma il Banditore se ne andò a dormire sulla cima del “Dolore” ad ora tardissima, assai poco predisposto ad affrontare la tenzone del giorno successivo.
Giorno successivo che arrivò a pochi battiti di ciglia dal momento in cui era finalmente riuscito ad addormentarsi. I giovani aspiranti banditori avevano passato la notte in un frenetico sabba delle streghe, evocando per la mattina quattro terribili calamità: il Freddo, la Pioggia, la Nebbia e la Paura. Quando il Banditore uscì da solo nel buio che precede l’alba per affrontare la terra del Dolore, fu il Freddo il primo spettro a farsi avanti per reclamare l’anima del temerario ex cavaliere: un freddo penetrante, intenso, sostenuto da un vento che dall’entroterra della Ligurionia era giunto fino a Dolore raccogliendo lungo la strada tutti gli spifferi delle finestre lasciate aperte e dei freezer chiusi male.
Il Banditore rimbalzò indietro davanti allo spettro del Freddo, ma ebbe la prontezza di spirito di cambiare subito la sua armatura: vestito inizialmente di un sottile strato di Trimtexius, corse a frugare nella sua bisaccia e si coprì con una pesante armatura di jeans; sapeva che quella pesante armatura si sarebbe presto inzuppata, costringendolo ad attraversare la mappa di Dolore con un sovraccarico di 10 chili almeno, ma quella soluzione avrebbe impedito che altri cavalieri trovassero il suo corpo congelato in qualche grotta.
Il secondo spettro a farsi avanti fu la Nebbia, che rendeva la foresta invisibile alla vista e nascondeva agli occhi del Banditore i baratri della prima parte del suo cammino. Tutto attorno a sé, il Banditore poteva solo vedere una zona ovattata profonda qualche metro! Sarebbe stato difficile trovare la prima tana del drago, ma il Banditore lanciò un incantesimo che gli era stato insegnato in Apriconia dal Duca Della Vedova, che recentemente era assurto a capo della confraternita dei Saggi di Lombardesia. Il Duca Della Vedova aveva raccontato che il Banditore sembrava avere un fiuto particolare per trovare le tane a forma di carbonaia: il Banditore si rallegrò nel vedere che i draghi avevano messo la loro tana proprio nelle carbonaie, e camminando di buon passo non ebbe particolari difficoltà a raggiungere le prime tane.
A questo punto, in un crescendo terribile, si fece avanti il terzo spettro: la Pioggia. Battente e copiosa, essa rendeva impossibile al Banditore l’utilizzo delle due lenti molate che portava davanti agli occhi, e gelida si insinuava nel collo dell’armatura fino a scendere lungo la schiena. Zuppo di acqua, il Banditore andò avanti per il suo cammino, trovando una dopo l’altra tutte le tane dei draghi che non si aspettavano di veder comparire un cavaliere ad un’ora così strana. Giunto a metà del suo cammino, il Banditore giunse vicino al luogo dove avrebbe dovuto alfin concludersi la sua ricerca; provò a lanciare uno sguardo intorno, e persino a urlare un “c’è qualcuno?”, cercando di superare con la sua voce il fragore della Pioggia incessante, ma nessuno rispondeva ai suoi richiami: Dolore sembrava una landa disabitata.
Il Banditore proseguì solitario la sua temeraria impresa, ma raggiunta la decima tana lo attendeva lo spettro più esigente: la Paura. Per riuscire a piegare la volontà del Banditore, essa portava con sé la Stanchezza ed il Dubbio. Si narra che ancora oggi il Banditore non sia del tutto sicuro se le cose che vide passare al suo fianco tra la decima e la tredicesima tana del drago fossero reali o frutto della sua immaginazione minata dallo spettro della Paura. Ma in qualche modo il Banditore riuscì a trascinarsi fino alla tredicesima tana del drago, che avrebbe mietuto poi vittime illustri tra le quali il Barone Dallaval Solandra. Ivi giunto, il Banditore capì che le sue fatiche stavano per completarsi: le altre tane del drago non erano poi irraggiungibili! Lanciò un urlo di gioia che spaventò alcuni cacciatori di frodo che erano acquattati nei paraggi (e che si arrabbiarono moltissimo), e poi si diresse stanco ma sicuro a completare il suo percorso.
Giunto infine al termine della sua poco nobile impresa, almeno a giudicare dal tempo che impiegò per completare il giro della mappa di Dolore, si fermò a contemplare il terreno che aveva lasciato alle sue spalle: Freddo, Nebbia, Pioggia e Paura che i giovani aspiranti banditori avevano evocato per lui non lo avevano sconfitto. Anzi, questi spettri sarebbero stati ancora sul terreno di Dolore ad accogliere tutti gli altri cavalieri che stavano per cimentarsi con la loro impresa.
Fu per questo motivo che si narra che queste furono le prime parole che il Banditore pronunciò una volta raggiunta la folla dei cavalieri in attesa:
Mo’ sono cavoli vostri!!!


199.. e plus ultra

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Sono a terra, e non so nemmeno come ci sono finito. E’ curioso come la mente riesce a fare delle strane associazioni di pensiero: mi sento come se fossi appena stato falciato da Rino Gattuso mentre mi involavo sulla fascia, palla al piede. La luce, invero molto fioca, della mia headlamp inquadra un parafango, un pneumatico: è evidente che sono caduto in mezzo a due automobili; poco più lontano vedo una catenella appesa a due piloncini: ecco il mio Rino Gattuso! La conta dei danni, per fortuna, dura solo qualche istante: spalla sinistra a posto, braccio sinistro a posto… l’adrenalina sparata fuori al momento della caduta sta mettendo a tacere persino la fottutissima fascite plantare che mi perseguita da qualche settimana, quella che ho cominciato a sentire durante la 5 giorni del Tesino in luglio e che ormai torna a farsi viva a ritmo sempre più serrato: non ho mollato in Friuli, durante la 5 giorni del Carso, anche se alla partenza della sprint di Gradisca d’Isonzo non riuscivo quasi ad appoggiare il piede al suolo. Non ho mollato nemmeno a Savona o sul Beigua, ma il conto mi è arrivato addosso a Montalcino, alla prima tappa della Tuscany Three Days.
Mentre mi rialzo, faticosamente, riavvolgo il nastro dei primi 5 minuti di gara: la partenza nel castello, in notturna e con formula mass start… ho già detto che io ODIO le notturne e ODIO le mass start? Alla partenza sono schierato in prima fila, tutto sulla destra, e nel freddo della serata toscana osservo con terrore la porta attraverso la quale usciremo per affrontare la gara, una porta stretta e, di tanto in tanto, percorsa in senso opposto da atleti di altre categorie che sono partiti prima di noi: se qualcuno arriva mentre stiamo partendo noi della M21-34, il frontale rischia di essere raccapricciante. So di essere l’ultimo dei partecipanti alla gara, e so di essere l’ultimo al mondo quando si tratta di trovare sulla mappa il simbolo del maledetto triangolo di partenza! La luce della mia lampada è proprio debole: ho prestato la mia ad uno degli atleti stranieri più forti, o almeno quelli piazzati meglio nella World Ranking List, e che è arrivato a Montalcino senza pila frontale! Gliel’ho prestata perché è evidente che a lui sarebbe giovata assai più che a me… ma a giudicare dai risultati devo ammettere che i punti della World Ranking List qualcuno i trova nel sacchetto delle patatine allo stesso modo di come una volta si trovavano i punti della Lista Base italiana!
La lampada me la presta quindi Simone, ma va messa in carica e non c’è molto tempo prima della nostra partenza. Il piede sinistro urla e mi fa sobbalzare di dolore, si gareggia di notte e non posso contare su una luce frontale per tutta la durata della gara… se c’è qualcosa che gioca a mio favore, deve trattarsi di qualcosa di molto nascosto. Sento la voce dello speaker, il bravissimo Franz Isella, e resto un po’ inebetito davanti al fatto che quella voce che sento al microfono non è la mia. Dieci secondi al via… cinque… GO! La fiumana dei tori si precipita verso la porta del castello. Io mi faccio da parte e muovo i primi passi incerti, cerco il simbolo del triangolo di partenza ma non lo trovo (as usual!) e quindi decido di cercare solo di seguire, zoppicando già vistosamente, gli ultimi concorrenti del mio drappello.
All’arrivo al primo punto di controllo, trovo un marasma: c’è il cavalletto ma manca la stazione da punzonare! La troviamo nell’erba, vicino al cavalletto: evidentemente non era fissata benissimo e non ha retto all’impeto della mandria di tori che sono già passati da lì. Qualcuno punzona e la lascia ricadere nell’erba. Per puro spirito di servizio, decido che la terrò io in mano per far punzonare tutti, almeno per il tempo necessario agli Elite più forti di ripassare da quello stesso punto, che è anche il quinto della nostra sequenza di gara. Quando dal fondo della salita vedo ritornare a grandi falcate Ryabishkin, capisco che ormai sono passati tutti almeno una volta e che me ne posso andare, non prima di aver appoggiato la stazione sul cavalletto… e che il cielo gliela mandi buona! Mi allontano verso il secondo punto, con il piede che ormai manda al cervello tutto il suo disappunto, con una luce frontale sempre più fioca, ma quando giro a sinistra per andare verso il secondo punto… SBAMM! Incoccio su Rino “catenella” Gattuso.
Già a quel punto ce ne sarebbe a sufficienza per arrendersi e tornare al ritrovo, ma non ho mica fatto 6 ORE DI MACCHINA per ritirarmi tra il primo ed il secondo punto, e quindi con caparbietà (che è solo sinonimo di idiozia, stupidità, inosservanza delle più elementari norme di sopravvivenza) mi rimetto in piedi e ritorno sul percorso. Non incrocio più tante luci frontali come in precedenza: è ovvio che quasi tutti i concorrenti si sono spostati nella parte centrale del percorso; mi sforzo di pensare che è una gara sprint, e che se non impiegherò 30 minuti a finirla saranno 40 ma posso farcela (si… come no?!? Con 40 minuti sarei finito parecchio in alto in classifica… altro che sprint!). Sempre zoppicando termino il primo loop, vado anche io verso la seconda parte del percorso di cui non vedo nulla sulla mappa perché ormai la frontale è KO. Arrivato ad un grosso incrocio di alcune strade, mi vengono incontro alcuni concorrenti che evidentemente stanno già tornando verso la parte finale della gara: sono talmente al buio che credo di non riconoscerne nemmeno uno anche se sento delle voci e degli incitamenti nei miei confronti.
Il punto 8 è quello decisivo: decido di affrontarlo passando in uno stretto pertugio tra due recinti, un passaggio che non sarà più stretto di mezzo metro e che trovo quasi a tentoni. Ci sono dei gradini all’inizio di quel passaggio, ed io non sono in grado di vederli: inciampo ma non cado perché NON DEVO PIU’ CADERE! Quando arrivo in fondo a quel passaggio dovrei trovare la lanterna, ma nel buio i miei occhi percepiscono solo il vuoto. Ed è esattamente quello che mi aspetta: per miracolo, mi sono fermato a pochi centimetri da una serie di gradini A SCENDERE, sui quali avrei rischiato di frantumarmi se il mio angelo custode (che la prossima volta col cavolo che mi farà prestare a chicchessia la luce frontale!) non mi avesse provvidenzialmente fermato. A questo punto idiozia, stupidità e inosservanza delle più banali norme di sicurezza svaniscono: proseguire è inutile, non sono nemmeno arrivato ad un terzo del percorso e la parte peggiore, quella nella quale serve DAVVERO la luce frontale, è ancora davanti a me. Arrivederci Montalcino, benvenuto ritiro. Un ritiro che, nelle condizioni tecniche (senza luci) e fisiche (piede sinistro martoriato dal dolore) nelle quali mi trovo, mi riporterà al traguardo ma ancora con gran fatica e dolore.
La gara deve essere stata proprio bella, almeno dai commenti dei concorrenti attorno a me che non si capacitano del fatto che sono già arrivato al traguardo. Franz al microfono continua ad andare alla grandissima, ma la mia unica preoccupazione è quella di fiondarmi in farmacia per acquistare un noto antidolorifico da prendere ADESSO SUBITO ALL’ISTANTE. Non riesco nemmeno a mangiare qualcosa: la gamba fa davvero male al punto che, quando dal piede parte una staffilata di dolore, la devo tenere ferma con le mani. Faccio parte dell’organizzazione ed è solo a mezzanotte passata, dopo chilometri di guida e milioni di curve, che riusciamo a raggiungere il nostro letto. Fa freddo. Mi infilo i calzettoni di lana, i pantaloni imbottiti, la termica, sopra la termica metto il pile. Mi metto i tappi nelle orecchie ed una fascia sugli occhi in modo da far calare su di me il silenzio ed il buio, infine un cappellino di pile in testa. E mi metto così sul letto, nemmeno sotto la coperta, in una specie di scafandroche serve per isolarmi da tutto e da tutti ma che non può isolarmi dai miei dubbi e dai miei pensieri, e soprattutto dalla domanda che mi accompagna fino nel sonno:
*** CHE COSA CI FACCIO IO QUI? ***
C’è una risposta, ovviamente. Ma per sentirla dovrà aspettare le premiazioni del terzo giorno, e la sentirò dalla voce di Massimo “Whites” Bianchi a cui tutti quanto noi orientisti dobbiamo essere grati per il Tuscania Three Days (non solo a lui, ovviamente, ma lui E’ l’incarnazione del Tuscania Three Days). Premiazioni del terzo giorno, e Massimo ringrazia i collaboratori, le associazioni, i volontari e lo speaker con il quale il dialogo è stato più e meno così: “Stefano, verresti a fare lo speaker a Siena per...” “CI SONO! VENGO IO! SONO GIA’ LI’” “Aspetta! Non ti ho ancora detto per che cosa…” “CI SONO IO! CI SONO IO!!!”. Davvero. E’ andata davvero così.
Non ero mai stato a Siena. Eppure Siena, come a tante persone della mia generazione, è sempre stata nel mio cuore: in particolare in occasione del Palio del 16 Agosto, quello della Madonna del’Assunta che la RAI trasmetteva per buona parte del pomeriggio di una delle giornate più sonnolente dell’anno. La voce che portava nelle case le immagini deliranti del Palio era quella di Paolo Frajese, che anche lui (purtroppo) ha un posto riservato nella mente di tanti italiani della mia età.
 “Siena nel cuore” non vuol dire di certo che anche io mi posso sentire un “contradaiolo”: tale si nasce e invero tale non si diventa, ma in una epoca nella quale i canali televisivi non erano ancora inflazionati dal digitale terrestre, da Sky Netflix Youtube Periscope (che cavolo è Periscope?), il Palio di Siena costituiva un punto di aggregazione sul terrazzo della casa di Coredo, al punto che mettevamo il televisore sul terrazzo medesimo al riparo dalla luce del sole e diffondevamo la voce di Frajese tutto attorno, raggiungendo non solo le sedie degli amici che facevano anfiteatro attorno per tutto il pomeriggio tra un bicchiere di qualcosa e un assaggio di qualcos’altro. Così, appena Massimo Bianchi ha nominato “Siena”, la mia testa ha pensato “Frajese”: per tutto il 2016 non ho fatto altro che favoleggiare il momento nel quale mi sarei trovato io a parlare in Piazza del Campo! Paolo Frajese, poveretto, si starà rivoltando nella tomba…
A tutto ciò si aggiungeva un piccolo particolare di cui ero venuto a conoscenza solo qualche giorno prima della partenza per Montalcino. Sul desktop del mio computer ho il mio curriculum vitae, che aggiorno ad ogni cambio di mansione lavorativa. Di fianco ad esso, ho il mio curriculum vitae orientistico, quello nel quale elenco anno dopo anno tutte le gare nelle quali sono stato speaker. Da qualche giorno ero curioso di sapere a che numero di gare fossi arrivato, e così un pomeriggio mi sono messo a contare: 1 nel 2004, più 10 nel 2005 fa 11, più 5 nel 2006 fa 16… contando le apparizioni negli anni più impegnativi, ho scritto sul foglio una lista di numeri vicina e poi superiore al 20. Quando si è trattato di fare la somma finale, ho sbarrato gli occhi, ho ricontato, ho ricontato dal 2016 a scendere ed il numero che tornava era sempre quello:
199.
Cavoli! Se me lo avessero detto nel 2004 al Trofeo delle Regioni di Pian del Gacc… Istintivamente ho provato un piccolo moto di insoddisfazione: Siena non sarebbe stata la mia duecentesima gara come speaker, ma “solo” la duecentounesima. Insoddisfazione che poi si è tramutata in un nuovo sorriso: è vero, San Gimignano sarebbe stata la gara #200 come speaker, e Siena la #201, ma Siena sarebbe stata nelle mie previsione la gara #200 COME SPEAKER E COME CONCORRENTE. Perché, come ormai anche i sassi potrebbero aver scoperto, nella mia carriera c’è stata una sola gara (Trivial Pursuit: qual è questa gara?)  alla quale ho fatto lo speaker senza prima aver vestito i panni dell’atleta, fosse anche solo quelli di un atleta esordiente nella MTB-O ai Campionati Italiani. A questo punto tutto tornava: avrei avuto la mia gara #200 e sarebbe stata a Siena, in Piazza del Campo, con Paolo Frajese che da lassù mi guarda sbraitare e pensa che non ci sono più i bei vecchi tempi dei cronisti compassati e glaciali.
E tutto questo sta svanendo come lacrime sotto il diluvio, mentre sono sdraiato sul letto, imbacuccato nel mio scafandro.
*** CHE COSA POSSO FARE ADESSO PER RIMEDIARE? ***
Intanto bisogna trovare la forza per alzarsi da letto ed affrontare la giornata di sabato. Il piede fa ancora le bizze, non ha ancora deciso di mettersi tranquillo ed ha tutte le intenzioni di farmi pagare a caro prezzo le poche lanterne della sera precedente. Il cielo è carico di pioggia: prenderemo acqua, questo è sicuro; prenderemo freddo noi e prenderanno acqua e freddo gli atleti arrivati da ogni dove. Se mi fermo per un istante a considerare il fatto che il 99,99% degli atleti che conosco fa questa cosa esclusivamente per passione, c’è di che rimanere fieri di far parte della famiglia degli orientisti.
Quando arriviamo alla Piazza del Duomo di San Gimignano, il mio stomaco ha già fatto spazio alla colazione e pranzo che mi dovrà dare energie fino alle premiazioni previste in serata: due biscotti e un tetrapak di succo, sufficienti almeno per prendere un altro antidolorifico. La piazza comincia ad animarsi… mi meraviglio che a nessuno sia venuto in mente di realizzare uno di quei video “fotogramma per fotogramma” nel quale si vede in pochi secondi la creazione di tutto l’allestimento: gonfiabili, gazebi, postazioni dei computer, postazione speaker, segreteria. Nel giro di pochi minuti, i classici avventori della piazza (ci sono un paio di capannelli che discutono animatamente di politica, come nei film di Don Camillo e Peppone) vengono surclassati dagli orientisti. E’ palpabile la sorpresa anche negli occhi dei turisti stranieri, che arrivano fin sulla Piazza del Duomo per fotografare e farsi un selfie in uno degli scorci più caratteristici e medievali d’Italia e devono dribblare le transenne dell’arrivo e i cartelli degli sponsor; scena che si ripeterà, in modo ancora più evidente, il giorno dopo quando il Tuscania Three Days riuscirà a colonizzare Piazza del Campo di Siena… no, dico! Piazza del Campo!
Quando sento che non posso aspettare oltre, chiedo di poter fare il mio percorso. Si tratta di una vera gara sprint, e sono sicuro di poter tacitare il piede per una mezz’ora. Mi copro bene, vado in partenza ed ho l’onore di essere sul percorso da Massimo Bianchi in persona… Ok: sparato è una parola grossa. Diciamo che mi devo accontentare di zompettare qua e là cercando di non forzare il piede e di farmi vedere in uno stato di forma appena decente quando incrocio i ragazzi dell’organizzazione che sono in giro per approntare tutto quanto. Oppure quando cerco di rendermi atletico davanti agli occhi della Polisportiva Besanese, che ha scelto uno scorcio di San Gimignano per la foto di gruppo senza accorgersi che in quella stessa piazza c’è una lanterna: io li vedo da lontano, studio l’attacco al punto che è proprio all’angolo di una chiesa, aumento la velocità, arrivo dritto sul punto, freno… ecco: avete presente l’attrito che offre l’erba bagnata?Zero! Quella lanterna sta nell’angolo e ci saranno due metri di erba e terriccio attorno: un volo come nemmeno nel calcio saponato, davanti agli occhi di tutta la Besanese (più o meno mezzo migliaio di occhi…). Spero che stessero tutti quanti guardando l’obiettivo della macchina fotografica; in ogni caso, dopo questa ennesima prodezza, non penso che la Besanese mi prenderebbe mai!
(dal sito www.alessiotenani.it - io per andare alla 1 ho fatto il giro da destra...)
Il resto della gara scorre via senza troppa infamia. San Gimignano offre salite sulle quali spingo con un piede solo, discese che affronto in perfetto stile “Bambi sul ghiaccio”, ed un loop finale di lanterne nella parte alta della rocca dove non mi raccapezzo per niente: ad un certo punto capisco che almeno il giardino in cima alla rocca l’ho capito (avendolo ormai perlustrato palmo a palmo) e quindi posso fare le ultime lanterne cercando di rimanere il più possibile dentro quel perimetro, sotto gli occhi abbastanza esterrefatti di Stefano Baccelli che cammina da un punto all’altro ed arriva regolarmente prima di me! Il resto della giornata vola via in una cronaca assai meno memorabile di quanto avrei auspicato per l’occasione (è davvero la mia duecentesima gara) ed in una premiazione che viene spostata nella piccola sala del Consiglio Comunale a causa del monsone che si sta abbattendo su San Gimignano: stipati all’inverosimile, tutti o quasi sudati dal dopo gara, con una umidità del 200% e parte del pubblico rimasto fuori sulle scale ad aspettare di sentire il proprio nome per venire a ritirare il premio, scavalcando in qualunque modo possibile i corpi degli orientisti che sono riusciti ad entrare nella sala.
Sembra notte fonda quando risalgo sull’auto di Maurizio Ongania per andare a mangiare qualcosa e poi a dormire. Il monsone non accenna a diminuire, qualunque cosa indosso è umida o bagnata o inzuppata. Ci si lava al meglio ed è ora di cercare di dormire qualche ora: tra poco più di 5 ore dovremo alzarci per andare a Siena e cercare di fare del nostro meglio in Piazza del Campo. Nelle condizioni in cui siamo tutti, nelle condizioni in cui sono io, è palpabile il timore di fare una figuraccia epocale in quello che avrebbe dovuto e potuto essere nelle aspettative di tutti un giorno in cui l’orienteering SPACCA veramente! E’ una notte in cui succede di tutto. Diluvia in modo equinoziale per tutto il tempo, con condimento di tuoni lampi e saette che cadono anche molto vicino al campeggio che ci ospita. Quando ci siamo appena sdraiati e sentiamo grattare sulla parete, Edoardo si alza, apre la porta e mi dice “sono solo dei cinghiali”. Penso che stia scherzando e che stia definendo “cinghiali” i suoi compagni di squadra del Tarzo che stanno nello stesso campeggio… invece no: ci sono proprio i cinghiali tutto attorno a noi!
Alle 5.30 maledico la sveglia, maledico me, maledico il meteo e maledico tutto e tutti. Butto alla rinfusa la roba bagnata in valigia e mi presento all’appuntamento con Massimo nel parcheggio: continua a diluviare, come se il cielo avesse deciso di aprire il rubinetto della doccia su Siena e se lo fosse poi dimenticato aperto. Come può venire ancora tutta quell’acqua? Questo è il momento cruciale della tre giorni, perché è l’unico momento nel quale le nostre certezze si sfaldano un po’: ci chiediamo se ci sono le condizioni per correre, ci chiediamo se e in che modo possiamo garantire la costruzione di un evento sportivo degno di questo nome. Davanti alle facce perplesse, stanche e già coperte di pioggia, Massimo pronuncia una frase: “Se decidiamo che non ci sono le condizioni di sicurezza per correre, allora possiamo rivedere tutti i nostri piani”.
C’è una frase che dice che di fianco ad un grande uomo c’è sempre una grande donna. Sotto il diluvio di Siena, quella donna è Monica Casalini. Dalla frase di Massimo passano solo uno o due secondi, poi è lei che ci scuote tutti: “Forza! Non possiamo mollare adesso! Andiamo a Siena e cominciamo a lavorare!”. E poi la chiosa finale: “QUALCOSA DI BUONO PUO’ SEMPRE SUCCEDERE!”. Se fossimo stati nel medioevo, ricorderemo oggi Monica come quella che venne bruciata sul rogo per stregoneria… perché solo chi ha potere sulla meteorologia può immaginare che la gara di Siena verrà appena appena lambita da una sottile e sporadica pioggerellina, addirittura a tratti avremo il sole, mentre tutto attorno gli elementi si scatenano provocando inondazioni e pericoli. Intanto però siamo ancora alle 6 del mattino e siamo sotto il diluvio… Maurizio Ongania guida la sua auto fino ad un parcheggio ai piedi della cinta muraria. Da lì, risaliamo faticosamente lungo le vie medioevali di Siena trascinandoci appresso zaini, valigie e materiale di gara.
Poi, improvvisamente, vedo una scalinata che scende. Davanti a me si apre in modo sempre più evidente uno degli spettacoli più incredibili che io possa ricordare: Piazza del Campo di Siena, completamente vuota. C’è la Fonte Gaia, la Torre del Mangia, il Palazzo Comunale. Questa forma a conchiglia unica al mondo, con un rettilineo ed una unica forma semicircolare a congiungerne gli estremi, e con la “bombatura” classica della conchiglia che rende la piazza una discesa verso la Torre o una salita verso i gradini. Mentre i ragazzi si infilano nel Palazzo Comunale, appoggio la mia roba e resto lì a godermi la piazza per qualche minuto: mi sembra di sentire i suoni che nel corso dei secoli sono rimbombati in occasione di ogni evento storico, mi sembra di udire le urla che si levano ad ogni Palio, mi sembra di vedere la folla dei contradaioli che si ammassa nella Piazza per seguire la corsa dei cavalli. Vedo a pochi metri da me la curva del Casato, una rampa in salita che è quasi invisibile nelle immagini televisive (la salita, intendo) nella quale cavalli e fantini piegano a gomito verso destra per portarsi sul semicerchio. Poi passano davanti a Fonte Gaia e cominciano a scendere ad una velocità folle verso… verso… VERSO IL MURO! Perché la curva di San Martino finisce con un MURO! La seconda curva a gomito del palio, ma ancora più pazza perché ci si arriva in discesa lanciati a bomba e cavalcando a pelo; e se sei così abile e fortunato da riuscire a girare, ti trovi davanti dopo pochi metri la Torre del Mangia che chiude ancora di più la strada.
No. La giornata di Siena non può finire male. Non so dove gli altri abbiano trovato la forza e la motivazione per andare avanti: io l’ho trovata proprio in questi minuti passati da solo in piazza. Il ritrovo si anima, la segreteria è pronta in un battibaleno. A montare il corridoio di arrivo con tutti gli striscioni degli sponsor impieghiamo la metà del tempo che ci abbiamo messo a San Gimignano. Cominciano ad arrivare i primi turisti e, ancora una volta, percepisco la loro sorpresa: ma oggi siamo noi i padroni di Piazza del Campo! Non devo nemmeno aspettare di sentirmi pronto per partire perché è Massimo che mi guarda e dice: “Sei pronto per cominciare?” e vedo che ha un sorriso largo da qui a là. Sono già vestito da gara e devo solo presentarmi in partenza. Ci sono già alcuni orientisti sulla Piazza, che fanno foto ovunque mescolandosi con i turisti. La partenza è in salita, ed io cerco di domare meglio che posso la rampa della curva del Casato. Da lì mi butto a sinistra e comincio a “respirare Siena”: so di non essere veloce ma penso che questo mi farà godere ancora di più il posto nel quale ho la fortuna di correre. O voi atleti stranieri che venite a correre in Italia: potrete vantare i vostri campioni, le vostre medaglie, i vostri successi. In Italia abbiamo la Storia, e poi le montagne il mare e le città d’arte, abbiamo il cibo migliore del mondo e il vino e la musica. Sono sempre convinto che vinciamo noi!
Primo passaggio dalla Piazza del Campo, e gli orientisti sono ancora di più. Punzono lo “spectator control” e mi butto fuori dalla piazza con tutta la velocità che consentono le mie gambe, nuovo giro nella zona vicino alla Piazza del Mercato e poi secondo passaggio in salita lungo la Piazza, che stavolta è davvero piena di orientisti, di colori e di emozioni. L’arrivo, per fortuna, è in discesa… La mia prestazione è pessima (non posso nemmeno contare su quei due famosi biscotti e sul tetrapak di succo, e non ho preso antidolorifici) ma il cuore batte a mille all’ora non per la fatica ma per l’emozione.
(sempre dal sito www.alessiotenani.it)
Di lì a qualche minuto, sarà il mio turno di prendere il microfono. Impiegherò parecchie decine di secondi prima di riuscire a pronunciare la prima parola, anche se poi da lì andrà via tutto più facile. Durante quella manciata di secondi di silenzio, mi sono chiesto se fosse giusto essere lì io con il microfono a parlare, in un luogo che è quasi santo per la devozione e le emozioni con il quale viene vissuto dai turisti e soprattutto dai senesi. Mi limito a pensare che Paolo Frajese sarebbe stato un OTTIMO commentatore di gare di orienteering, ed in quel momento sembra che un raggio di sole sbuchi dalle nuvole ad inondare la Piazza. D’accordo… nulla di mistico, nulla di trascendente, nulla di soprannaturale. Ma chissà se da lassù qualcuno ha voluto dare una mano perché tutti quanti si potesse arrivare in fondo alla nostra giornata senese, alla nostra gara e, per quanto riguarda me personalmente, in fondo alla mia cronaca.

(Dedicato a Massimo, Monica, Giaime, Francesca, Franz, IK Prato, Picchio Verde, tutti quanti si sono adoperati per questa Tre giorni. Dedicato a Dario Pedrotti che ha sbaragliato Piazza del Campo. Dedicato a chi mi ha pensato da casa mentre ero sotto il diluvio e mi vedrà in televisione. Dedicato a Paolo Frajese e a tutti i cronisti – non solo sportivi – che mettono il cuore dentro le parole che dicono e che scrivono)

My 2016: something to forget, much more to remember!

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Adesso che Dario “dopolavori” Pedrotti è riuscito finalmente a pubblicare la lista delle sue gare predilette e maledette del 2016, corredate da stralci di cartina e tracce gps soprattutto delle sue peggiori malefatte (senza le quali il suo bottino annuale di medaglie e premi sarebbe ancora più invidiabile), a dare voce agli ultimi della classifica arriva l’impiegato panzottello! Senza tracce GPS, perché le case produttrici si vergognerebbero e gli eventuali compratori penserebbero che quell’aggeggio non funziona. Senza posizioni in classifica (cercate sotto la voce “brocco”), senza medaglie ricchi premi e cotillons. Ma con un sorriso beato stampato sul volto ed un sacco di bei ricordi da tirare fuori davanti al caminetto nelle lunghe sere d’inverno, quando la cumpa in ascolto esclama in coro “Ebbasta! Cheppalle!!! Ancora ‘sta storia di quando ti sei perso nel buio alle 7 del mattino e ti hanno tirato fuori dal bosco con i cani?????”.
62 gare disputate in un anno sono un bottino che può benissimo mettere l’orienteering alla voce “disease” della mia vita sportiva: si tratta in fondo di gareggiare in media più di una volta alla settimana in uno sport che occupa all’incirca tre quarti del calendario solare. Ma a queste andrebbero aggiunte le 28 gare nelle quali mi sono poi cimentato per la gioia di grandi e picc… per la gioia di… mmmm... per la mia personale gioia! Come ormai tutti gli affezionati piccoli lettori (cit. by Larrycette) sanno, quest’anno sono arrivato a quota 201 gare come speaker e a 200 gare come concorrente+speaker. L’intervista di Rai Sport di cui tutto il mondo sta parlando si concludeva con un augurio del giornalista per le prossime 200 gare come speaker, al quale io rispondevo “201…”. Ma questo sketch è stata una delle parti tagliate dell’intervista, che sennò da sola occupava tutto il tempo della programmazione di Rai Sport!
Ma torniamo ai fatti concreti. Ecco la mia classifica delle gare 2016 preferite nel bene e nel male, perché alla fin fine sono tutte quante degne di essere conservate nel baule dei ricordi. La solita semplice avvertenza, sennò poi ci sono quelli che mugugnano… “preferite” significa che in quella particolare occasione mi sono sentito un orientista al 100%, anche dal basso del mio probabile ultimesimo posto in classifica, “maledette” perché in quelle circostanze non ho dato il meglio di me, perché sono arrivato al traguardo deluso da me stesso, perché non ho rispettato il Primo Comandamento che dice che ogni volta bisogna dare il massimo nel rispetto di organizzatori ed avversari. Astenersi quindi i sostenitori del “mancava il vice-sotto-aiuto-delegato-tecnico”, della griglia di partenza con 6 minuti di intervallo tra ogni concorrente, del tempo-del-vincitore diverso da quanto riportato al comma C del codicillo 42 del Reame Tomo Fondamentale, del terreno di gara “indegno”, eccetera… questo è solo il mio baule dei ricordi!
Ah… Dario: questo pezzo era già pronto da un pezzo (simpatico calembour). Cosa non si fa per lasciarti vincere di tanto in tanto!
Something to forget…
Il giorno in cui non so se ho dimostrato più tenacia o più follia. Credo che l’orienteering sia un misto di tutte e due le cose. Ma io gareggio in Elite solo per l’ultimesima posizione e c’è un tempo meteorologico che in confronto Mordor è Sharm El Sheik… quindi chiamiamola follia una volta per tutte! Però è vero che sono anche un po’ tenace, vero? Il pezzo sul blog che ho scritto già domenica sera mi è venuto in mente praticamente tutto mentre facevo il loop dalla lanterna 10 alla lanterna 13: Thierry Gueorgiou, leader religioso della setta “la concentrazione in gara è tutto” sente delle fitte terribili al duodeno ogni volta che viene a sapere di questa cosa
9° posto: La mia Due giorni di MTB-O a Folgaria
Non sono un biker. L’ultima gara di MTB-O che ho fatto risale ai tempi di Cecco Beppe e la disciplina della MTB-O era molto diversa: oggi è roba per funamboli con le gambe d’acciaio, le biciclette forgiate dalla NASA e uno spiccato denso del chissenefrega per la propria personale incolumità fisica. Però il primo giorno, sabato, era una gara sprint e ho detto “provo l’Elite, che sarà mai?”. Sabato, a Lavarone, cerco di dare una mano a Ivan Gasperotti andando a posare alcune lanterne del percorso: mi carico di paletti e stazioni elettroniche e casco per terra DA FERMO! Commento di Ivan, ridendo: “Tu non sei un biker…”. Decido che vado a posare a piedi. Quando torno e chiedo a Ivan se può fare un controllo, mi dice che ha notato che la mia bicicletta era ancora lì… “Sono andato a posare a piedi, mica penserai che vado su e giù in bicicletta da quel sentiero pieno di radici sporgenti”. Commento di Ivan, perplesso: “Tu non sei un biker…”. Alla fine mi faccio dare una cartina del percorso Esordienti, mi cago addosso su tutte le discese dove prendo una velocità assurda e mi pianto fisicamente su una salita al 30% (minimo) male asfaltata. Alla fine dico ad Ivan: “Ma hai intenzione di mandare anche gli Esordienti su quella salita assurda? Non si va su nemmeno con la moto!”. Commento di Ivan, rassegnato: “Tu non sei un biker…”. Morale della favola? Forse non sono un biker…
Se non fosse per l’impegno che ci ho messo al microfono, le mie gare sarebbero quasi dimenticabili: un ritiro a Montalcino, una prestazione appena dignitosa a San Gimignano “clamoroso ex aequo con il mio compagni di merende Fabio Dalla Riva!) ed una meno che dignitosa a Siena. Per fortuna che poi ci sono i ricordi di Piazza del Campo! Però, dal punto di vista del mio orienteering, sono state tre gare nelle quali ho fatto letteralmente pena, tra una fascite plantare che non perdona, un fisico in sfacelo, il diluvio del sabato e le pochissime ore di sonno. Quando la rifacciamo Massimo? Quando la rifacciamo???
Arrivo a questa tre giorni direttamente da Varsavia, con la valigia già pronta per spostarmi a Vienna e con le gambe ancora piene di fatica per le gare in Cansiglio. Se tutto ciò appare come un misero tentativo di giustificazione per le penose prestazioni in gara… ebbene lo è! Sabato pomeriggio, nella middle di Barni, quando cerco di andare dritto alla lanterna sono storto o corto o tutte e due le cose insieme; quando tento di andare volutamente a destra o a sinistra del punto per poi correggere, casco dritto sulla lanterna e penso spesso che devo ancora fare un pezzo di strada. Sulla “sprint” notturna calo un velo pietoso, anche sulle parolacce che al traguardo ho indirizzato al tracciatore. La long di domenica, dopo una serie di equivoci nell’iscrizione che mi portano a fondo griglia di partenza, vedo le energie esaurirsi di botto a tre quarti del percorso, e da quel punto è solo dolore fisico. Quando guardo il calendario e vedo che il Nirvana Verde ha in programma nel 2017 una due giorni di Coppa Italia, mi viene voglia di spacciarmi per un cinquantenne!
Alla vigilia dell’appuntamento multi-days di inizio luglio, difficile pensare che sarei riuscito a partecipare a 5-gare-5 di C.O., a 5-gare-5 di Trail-O, a fare lo speaker e a partecipare pure alle battaglie serali a Whist. L’ho fatto e mi sono parecchio divertito, ma i miei risultati come atleta non sono sicuramente stati egregi. Oppure si? In fondo sono uscito indenne, e correndo da solo, dalle due difficili tappe di Monte Agaro, una delle quali corsa subito dopo aver preso parte a non so quale tappa della 5 giorni di trail-O! La sensazione che mi resta è quella di aver gareggiato sempre in modalità “sopravviviamo a questa tappa, che domani ce n’è un’altra”: scelte iper-sicure e chissenefrega del tempo di gara perché devo pensare a salvare le gambe… ma in definitiva avrei potuto provare a fare molto di più.
5° posto: La mia regionale sprint a Vedano al Lambro
Arrivo al ritrovo letteralmente con il trolley del viaggio di lavoro a Vienna, dai 10 gradi ventosi e secchi ai 30 gradi con punte di umidità del trecento per cento. No bbuono! Le gambe sono un lontano ricordo, il cervello si spegne nel secondo giro, la puzza di cipollotti sulla suola delle scarpe non viene via nemmeno usando l’acido muriatico…
4° posto: il mio Campionato Provinciale Middle Distance Alto Adige
Una prestazione disastrosa per quanto riguarda la classifica, nonostante il bosco di Laranza sia uno dei miei preferiti. Presumo che non mi abbia agevolato il fatto di arrivare a Laranza direttamente dalle oltre due ore di gara passate nel bosco di Castelrotto a fare la mia frazione lunga (lunghissima) della Relay of the Dolomites. Mi pare di capire che nel 2017 si replica con l’accoppiata Middle-sabato + Relay-domenica, ma stavolta non posso più fare a piedi da Santa Cristina (relay) a Castelrotto (middle 2017): cercasi urgentemente un passaggio auto!
6 tappe previste. 5 tappe corse (la quinta tappa annullata a tre quarti di griglia di partenza è ancora una beffa…). Di queste cinque: una decisamente banale nel bellissimo bosco di God da Staz nel quale starei volentieri per ore; una abbastanza banale a S-Chanf a prendere dimestichezza con il fatto che “correre con gli altri” può significare talvolta “seguire le tracce”; una abbastanza banale a Sils, ma è l’ultima e quindi va già bene che si riesce a correre visto che la giornata prevede un passaggio da Milano ed il successivo immediato trasferimento in Trentino. Una tappa “normale” al Maloja dove mi resta il rammarico per aver ceduto fisicamente nel momento clou quando stavo facendo proprio una bella gara ed ero uscito indenne dal merdaio delle pietraie. Una gara “anormale” a Diavolezza nella quale c’era solo da mettere l’indicatore in modalità “sopravvivenza” e così è stato. Facendo i conti, anche economici, non una delle più belle trasferte della mia carriera orientistica…
Quando si corre in uno dei posti più belli del mondo, assistito da un tempo meteorologico che a inizio maggio si vede una volta ogni quattro secoli se c’è la congiunzione astrale giusta, ci si aspetterebbe almeno una prestazione dignitosa per rispetto verso il Creatore dell’Universo e di tutte queste belle cose.
O almeno per rispetto verso il pubblico assiepato in zona arrivo che, causa devastazione della cartina per le note polemiche sulla riproduzione dell’urogallo, potrà vedersi una tantum in diretta buona parte del finale di gara. Ahimé! Nulla di tutto questo! Fino al passaggio al punto spettacolo, il mio orienteering è randomico al limite del patetico (per fortuna che ci pensa Marco Bezzi ad indicarmi i punti…). Dopo il punto spettacolo, il fisico non abituato a quella altitudine è allo sbando. Quando ieri ho guardato le immagini di RaiSport, che hanno immortalato il mio passaggio proprio nella zona degli spettatori, mi sono chiesto se l’effetto “slow motion non sia stato un espediente per farmi andare più veloce di quanto non lo fossi nella realtà
1° posto: la mia Night Hawk giorno e notte a Passo Coe
L’anfiteatro di Base Tuono a Passo Coe potrebbe essere perfetto per un Mondiale di CO, o di qualunque cosa “mondiale” abbia a che fare con l’orienteering. Se non siamo d’accordo su questo, non andate avanti a leggere e chiudete la finestra internet perché non vi voglio nemmeno conoscere! Se penso a quanto potrebbe essere suggestiva la partenza di una staffetta mondiale come questa… magari però con UN ALTRO SPEAKER e non con questo…
La carta di gara torna e (talvolta) non torna ma lasciamo perdere: quella si può sempre aggiornare, ben diverso sarebbe creare dal nulla un palcoscenico come questo. A parte questo, considero Passo Coe come l’università dell’orienteering: se sei capace, ne vieni fuori e persino bene e puoi fregiarti della tua pergamena di laurea; se non sei capace, ti schianti come sull’esame di Fisica Teorica e puoi andare a fare un altro mestiere. Io per l’ennesima volta mi sono schiantato di brutto! Arriverà il giorno in cui riuscirò a fare decentemente una gara a Passo Coe, ma quel giorno non è stato nel 2016.
 
Se è arrivato fin qui, qualcuno commenterà che le gare non-OK sono molte… ma in fondo se sono in questa lista è perché ognuna di esse mi ha dato mille motivi per essere ricordate anche positivamente. Quindi le ritrovereste tutte nella lista qui sotto, quella che elenca i motivi per andare fiero di un 2016 di gare. Ma qui sotto c’è spazio per le giornate nelle quali tutto, ma proprio TUTTO, è andato alla grande!
Much more to remember... 
Una ideona di Remo Madella. Tecnicamente, non è C.O.: non ci si sposta solo a piedi e non si devono trovare lanterne. Tuttavia si sono mappe di ogni tipo, bisogna essere efficaci negli spostamenti, occorre trovare i punti di controllo e far funzionare molto bene il cervello. Se a questo aggiungiamo il fatto di gareggiare con un compagno che pensava di venire a fare una passeggiata, il diluvio che ci ha accompagnato per tutta la gara, l’inseguimento da parte delle forze dell’ordine in pieno centro di Milano, le foto dei turisti giapponesi e la corsa finale per rimanere davanti al tram… ecco che diventa una giornata da apoteosi. Nel 2017 saremo di nuovo al via, con un nome della squadra “I pali della darsena” che sembra rubato alle idee di Rocco Siffredi e invece è un ricordo dell’unico momento di defianceche abbiamo avuto in quelle 5 ore di gara.
C’eravate? Non serve che io dica nulla. Non c’eravate? Mi dispiace taaaaanto per voi… Per me personalmente, una delle rare volte nelle quali il contatto con la carta di gara è talmente perfetto da andare a trovare senza alcun timore tutti, ma proprio tutti (meno uno, ma ero a due metri...) i nastrini appesi ad uso dei posatori. Il mio tempo di gara è assai superiore a quello previsto dal tracciatore Mamleev, ma è una di quelle situazioni nella quale sono convinto di essere più fortunato di coloro che hanno impiegato un’ora meno di me a finire il percorso! Il 14 maggio 2017 si replica!
Mi sono allenato per tutto l’inverno 2016 per questa gara. Immaginavo di poter correre in una bella foresta pulita nella quale non occorre fare i conti con i graffi ed i lividi rimasti sulle gambe, e l’occhio può perdersi tutto attorno a guardare lo spettacolo della natura. La realtà delle cose è stata ancora più incredibile di come me la ero immaginata… Probabilmente esagero quando dico che avrei potuto gareggiare in calzoncini corti e scarpette da jogging, ma nemmeno tanto! E se adesso penso che l’anno prossimo, sulla carta vicina, ci facciamo i campionati italiani a lunga distanza… Tre cose indimenticabili di quella gara: la “tratta lunga” con scelta uguale a quella del vincitore Mikhail Mamleev, i selfie con le lanterne che mandavo al tracciatore per confermare che ero ancora in piedi e stavo avanzando, e soprattutto il bosco incredibile attorno al villaggio cimbro.
Ok… i più forti ci possono viaggiare a 3 min\km… ma anche gli impiegati panzottelli come me ci possono tirare fuori una esperienza davvero goduriosa.
Di tutte le tappe della 5 giorni del Carso, era quella che pensavo di non riuscire a finire. Di tutte le tappe della 5 giorni del Carso, era quella che più desideravo di poter completare. Un solo dubbio in partenza, da solo alle 7 del mattino: ce la farò? Il mio pessimismo diceva di no. Se ne è dato conferma all’inizio della tratta lunga (“non ce la posso fare”), sul primo loop mentre cercavo una lanterna tra le rocce che era INCASTRATA tra le rocce, e poi via via lungo il percorso mano a mano che si avvicinava il completamento della seconda ora di gara e la strada da fare era ancora tanta. Dopo la salita al Golgota che tra le lacrime di fatica mi ha portato al quindicesimo punto, ho cominciato ad avere il dubbio che FORSE ce la potevo fare. E questa cosa è diventata una certezza quando sono sbucato sulla terrazza che gettava verso l’arena di gara ed ho visto l’esplosione dei colori di tutti gli orientisti d’Italia e non solo. Come dice qualcuno che scrive meglio di me: “Anche uno notoriamente un po' difficile come me può essere moderatamente soddisfatto, no?

Nuovo catalogo disavventure orientistiche 2017

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Per una stagione agonistica che sembra essersi chiusa da pochissimo, ecco subito un’altra che si apre quasi senza soluzione di continuità. Così, mentre gran parte del popolo orientistico attende con ansia crescente i racconti di Dario nelle Oricup trentine, anche alle latitudini lombarde non abbiamo niente di cui lamentarci; non è ancora finito il mese di gennaio ed io posso già mettere nel raccoglitore delle cartine tre (anzi quattro!) nuovi cimeli: Casorate Sempione in pieno periodo di doni portati dalla Befana, Besana Brianza la settimana successiva e poi Cantù a distanza di un altro fine settimana. Tre uscite che, ovviamente, mi hanno regalato vittorie a profusione, gloria e nuovo guadagnato rispetto da parte dei miei avversari di ogni genere (maschile e femminile) e grado (under-14 o over-70). E’ infatti assodato che io sono democratico, non guardo in faccia a nessuno e tratto sempre tutti nello stesso modo: mi faccio sempre battere da tutti quanti!
Come ogni orientista che si rispetti, potrei snocciolare scuse mai banali a giustificazione delle mie performances di inizio 2017. Ma io sono l’Impiegato Panzottello, non uno qualunque! Godo persino di una citazione speciale a pagina 90 del libro di Dario Pedrotti (uhmmm… però è anche vero che sono citato solo come speaker…) e per questo motivo il racconto delle mie peripezie rimarrà sempre fedele alla verità storica. Spero, in questo modo, di spingere altri come me a cimentarsi con la cartina e la bussola, in nome della norma del regolamento che dice “Per quanto possiate essere poco allenati e scarsi, c’è sempre in giro qualcuno che si è allenato meno di voi e che si perde in modi ancora più incredibili!”.
Casorate Sempione. E’ il 7 gennaio 2017 e sono passate solo tre settimane dall’ultima uscita agonistica 2016 coincisa con l’ormai classica “49 lanterne” brianzola. Detta così a perenne ricordo dell’ignoto imbecille, evidentemente fan di Gigliola Cinquetti, che canticchiando “E qui comando io \ E questa casa mia…” ha tolto dal percorso una lanterna posizionata accanto ad un albero che stava vicino ad un recinto più inviolabile delle mura vaticane. Uscito per la prima volta dalla 49 Lanterne con tutte le punzonature complete ma con una fascite plantare che lévati, mi sono adagiato nel comfort del periodo natalizio con tutto il suo contorno di panettoni, pranzi e cene; ho interrotto le mie gaudenti giornate solo in occasione della corsa podistica di Moncucco, una classica del 26 dicembre nella pianura tra Milano e Pavia, dove solo i cavalcavia dell’autostrada vengono a rompere il passo del podista. Messa in saccoccia la mia peggior prestazione in carriera sui 13 km della gara di Moncucco (2’45” più del 2015), ho messo il cuore in pace, i piedi in ammollo e ho azzerato quel file degli allenamenti di cui andavo tanto fiero nello stesso periodo 2015-2016 quando vedeva allungarsi la fila delle “uscite brevi” (60 minuti), “uscite lunghe” (90 minuti) e  “uscite a tempo” (10 km da fare nel minor tempo possibile). I piedi restano doloranti in ammollo finché un bel giorno squilla il telefono e… “sabato 7 gennaio si corre a Casorate! Vedi di esserci!”.
Certo che vedo di esserci! Anche perché Casorate Sempione è uno di quei posto che ho sempre portato ad esempio di impianto orientistico adatto ad un movimento lombardo in fase di ricostruzione: il bosco sarà anche piatto, e probabilmente conosciuto a chi ci ha corso tre volte, ma dove la trovo un’altra cartina abbastanza centrale rispetto alla Lombardia e a 2\3 km dall’uscita dell’autostrada? Ecco quindi che la Befana non è ancora volata via sulla sua scopa e l’Impiegato Panzottello già tira fuori lo zaino dall’angolo più polveroso del ripostiglio, e visto che ci siamo scopre sul fondo i calzini usati nella 49 lanterne (che pensavo di aver perso). In previsione del freddo tonante del gennaio 2017, investo qualche euro nell’acquisto di un pantalone termico in saldo: non è la marca number one del settore e dubito che potrei mai andarci sul pack, ma confido che per Casorate sarà sufficiente…
Bando alle ciance! Come è andata a Casorate? Male! In che altro modo poteva andare? Non era il pantalone termico che dovevo comperare, ma le gambe bioniche! Infatti alla partenza, che sia per il freddo oppure no, le gambe non vogliono NEMMENO SAPERNE di mettersi in moto. La primissima tratta del percorso è “a vista” di chi non ha ancora preso il via, ed io immagino con terrore i commenti di coloro che posizionandosi alle mie spalle mi vedranno arrancare fino al primo boschetto con una andatura che il Gabibbo al confronto è Usain Bolt… Per questo motivo cerco di infilarmi alla massima velocità possibile tra i primi alberi del 2017, per poi fermarmi dopo poche decine di metri già con il fiatone e le pulsazioni a 170 battiti al minuto. Con le partenze ogni minuto, non passa molto che vedo passare qualche metro alla mia sinistra le due giovani fionde della Besanese: Marco Di Stefano e “Mago” Magenes. Ecco… devo dire a vantaggio della mia esperienza (vecchiaia?) che le due fionde viaggiano davvero a velocità warp, ma la loro direzione verso il primo punto è di un paio di decine di metri troppo spostata a sinistra. Il punto, infatti, compare davanti a me… e così inizia una sorta di balletto che, per qualche secondo, renderà il tutto simile ad una comica di Ridolini: io vedo il punto davanti a me e mi fermo. “Mago”, di cui vedo le spalle davanti a me sulla sinistra, capisce di essere andato leggermente lungo e forse storto e quindi rallenta e comincia a far ballare l’occhio attorno.
In queste condizioni, lo sappiamo bene tutti quanti e non dite di no!, l’orienteering si fa anche ad orecchio: sono fermissimo, ma se provo a muovermi tra i rami del bosco darò immediatamente un punto di riferimento al “Mago”. Ma non posso mica restare fermo lì fino all’imbrunire! Così metto su il mio vestito da Zorro, la maschera di Zorro e provo a spostarmi di qualche metro verso il punto senza fare rumore. Sfiga. Cercando al buio nell’armadio il costume di Zorro, ho pescato la gruccia con il costume del sergente Garcia: primo passo… CRAKKKKK! “Mago” si volta di scatto e, nonostante io abbia un vantaggio di un paio di decine di metri rispetto a lui, è lui ad arrivare per primo sul punto. Dopodiché lo vedo schizzare via come una lepre in direzione… in direzione… in direzione di boh?!? La mia scelta per andare al secondo punto è distante 90 gradi rispetto a quella presa da Francesco. Compiaciuto della mia abilità tecnicotattica “’sti ragazzi corrono come lepri, ma ne devono ancora mangiare di pagnotte…” ritorno sul prato, attraverso un sentiero, costeggio un campo coltivato e mi infilo di nuovo nel bosco alla ricerca del secondo punto, appena un po’ perplesso dal fatto che alle mie spalle non arriva più nessuno. Sentiero, bivio di sentieri, attacco nel bosco… ma la cosa che mi trovo di fronte non è il punto di controllo bensì coach Cristian Bellotto in meravigliosa tuta Halden SK (!!! che doveva essere mia !!!) che è lì nei paraggi a posare il punto. Lui guarda me con tanto di occhi grossi così: il fumetto dice chiaramente “che ca..o ci fa da queste parti???”. Io guardo lui pensando “come ho fatto a raggiungerti?”. Poi mi cade l’occhio sulla cartina, sul cerchietto ma soprattutto sul numero a fianco del punto che sto cercando: è il numero 6.
Punzonatura mancante! Al secondo punto della prima uscita della stagione agonistica 2017… se il buongiorno di vede dal mattino, io sono nel pieno della notte in Antartide alla base Outpost 31 e “sono già troppo stanco per tentare qualche cosa” (questa è una grande cit.).
Dato che sono arrivato al punto 6 e le gambe non vogliono saperne di tornare indietro, proseguo in direzione del 5, poi, del 4, del 3 e del 2. Chiudo il cerchio tornando al punto 1 e mi immetto nella seconda parte del percorso. Qui non succede nulla di trascendentale, salvo il commento di due forti master che al punto 13 mi devono arrivare e si dicono tra loro indicando me “certo… si può fare orienteering anche alla sua velocità… è chiaro che così i punti li trovi facilmente”. Concetto questo che ritroverò espresso in maniera molto più convincente e didattica in uno dei brani dedicati all’orienteering di “Confessioni di un runner d’alta quota” - Dario Pedrotti – Ediciclo – in vendita a euro 14,50 non solo nelle migliori librerie. Torno a casa dalla giornata di Casorate Sempione in compagnia della signora Plantare (di nome Fascite) che non smette per un solo istante di darmi il tormento fino a tarda sera.
Ce ne sarebbe abbastanza per mettersi, fisicamente e mentalmente, già in bacino di carenaggio. Ma la tempra del vecchio Impiegato Panzottello è dura a cedere, e quindi mi iscrivo per il sabato successivo per la corsa a Besana Brianza. Il programma prevede la sprint in paese ed una finale microsprint a caccia in base ai tempi impiegati nella prima tappa.
Ho già detto che MI PIACCIONO TANTO le microsprint? Mi fanno tornare alla mente le gare di contorno in Ungheria, in Danimarca, quella volta che a Miskolc Tapolca ho battuto in batteria qualche nazionale straniero venuto a correre il mondiale ed ho rischiato di correre la finale contro Fabian Hertner… Solo che la microsprint di Besana Brianza di corre in notturna. Ho già detto che ODIO LE NOTTURNE? Ma non mi perdo di animo. Evito di perdere di nuovo i calzini nello zaino, mi rimetto i pantaloni termici e sono al via a Besana nonostante il freddo. Una prima informazione mi aveva lasciato leggermente basito: il ritrovo è al palazzetto di Via De Gasperi, il percorso è in paese a Besana… ma ci saranno due chilometri tra il palazzetto ed il centro! Infatti alle 15 circa l’organizzatore invita i partecipanti ad una sgambata di riscaldamento per raggiungere la partenza tutti insieme: SGRUNT! Ce n’è a sufficienza per esaurire le poche energie di cui dispongo, anche perché i partecipanti constano di vari campioni italiani, di vari nazionali giovanili, di non-ancora-nazionali-giovanili-ma-siamo-lì e da un Impiegato Panzottello che già sbuffa sulla prima salita. Il riscaldamento comunque ha una sua utilità: ci fa capire che il terreno di gara sarà tutto un susseguirsi di lastroni di ghiaccio sui quali c’è il concreto rischio di lanciarsi in evoluzioni che al confronto Jane Torvill e Christopher Dean erano dei simpatici Bambi sul ghiaccio.
Quando mi danno il via, le gambe girano leggerissimamente meglio rispetto alla settimana prima, ma tutti i neuroni e le sinapsi sono dedicate ad evitare di mettere i piedi sul ghiaccio. La qual cosa risulta inevitabile lungo quelle strade che sono COMPLETAMENTE ricoperte di uno spesso strato di ghiaccio, come ad esempio la strada che porta al punto 8. Anche lo stretto passaggio in uscita dal punto 8 è completamente ghiacciato, ma almeno è in discesa e mi consente di fare per una ventina di metri qualche trick in modalità Tony Hawk de’ noialtri.
Quando arrivo al traguardo, decisamente affannato e infreddolito, il mio tempo mi mette in fondo alla lista di coloro che prenderanno parte alla seconda manche “a caccia” che si correrà tutta attraverso il centro sportivo di Besana Brianza. I muscoli delle gambe si raffreddano immediatamente durante l’attesa, e quindi mi presento alla griglia di partenza pronto a scattare quanto un lampione della luce. Il primo a partire è il “Mago”, e la sua luce frontale svolta subito a sinistra verso il primo punto di controllo dopo i primi metri in discesa. Dietro al Mago partono tutti gli altri. Io sono sempre in fondo alla fila, con indosso un rivedibile maglione grigio con la greca che mi fa sembrare Charlie Brown…

Comunque, partenza dopo partenza, arriva anche il mio turno. Sulla piazzola dipartenza rimango io, rimane Ivano Benini, rimane il tracciatore Luigi Giuliani e rimane il nazionale juniores Cesare Mattiroli che, infortunato, si prende cura del mio maglione. Sono pronto ad accendere la luce frontale e a lanciarmi all’inseguimento di tutti gli altri…
Piccolo interludio: in previsione della Night Hawk del Giugno 2016 al Passo Coe (quella che non è andata molto bene) io, PLab e Bibi e Atty avevamo deciso di acquistare finalmente una luce frontale come Dio comanda. Dopo N-mila ricerche su internet, PLab aveva trovato un set di frontali con un rapporto qualità\prezzo che, oso dire, rasenta il furto ai danni del produttore. Poi andò a finire che la pila frontale io non l’avevo usata (ero speaker) e quindi era rimasta imballata nella confezione fino al venerdì sera di Montalcino (Tuscania Three Days) dove però la avevo passata al moldavo che gareggiava per vincere l’Elite e che non se la era portata da casa
… accendo la luce frontale e FLASH!!!! Si accende un faro tipo “riflettore di San Siro”. Peccato che la luce punta dritta in avanti e illumina un pezzo di strada distante 50 metri! Dato che non vedo una cippa di quello che ho ai piedi, e ciò che mi aspetta a 50 metri faccio in tempo a dimenticarmelo prima di esserci arrivato sano e salvo, comincio a piegare la testa sul petto fino a sentire il CRIC! della cervicale. A quel punto il faro punta un paio di metri davanti a me, ma gli occhi guardano l’ombelico, di respirare non se ne parla nemmeno e la cartina rimane un oggetto misterioso. Così come misteriosa è la tendenza degli orientisti ad andare avanti nonostante tutto, nonostante la direzione non debba per forza essere quella giusta. Mi appoggio la frontale sul naso e cerco di guardare la cartina per farmi una idea della direzione da prendere…
… sono al termine del corridoio, pochi metri a sud del punto 10, e quindi dovrei muovermi verso sud. Ma quando mi giro, verso quello che credo il sud, l’ago della bussola non rimane fermamente inchiodato ma gira con me: adesso mi indica come sud una direzione che va verso il “pallone” dove giocano a tennis. Mi giro di nuovo verso il parcheggio e la strada provinciale, e l’ago adesso indica che il parcheggio e la strada si trovano a sud rispetto a me. Per quanto mi giri e mi volti, l’ago rimane inchiodato; ci metto una eternità di tempo per capire quello che invece dovrebbe essermi chiaro subito: la bussola è ROTTA! Ciò che invece non è affatto chiaro a Ivano, a Luigi e a Cesare che sono rimasti sulla piazzola, è che cosa ci faccia quella luce ferma sul posto a girare su sé stessa…! Torno indietro, mentre i tre dell’Ave Maria un po’ sono perplessi e un po’ si sganasciano dal ridere, e mi faccio dire dove è il punto di partenza e dove mi trovavo a fare tutto quel po’ po’ di balletto. Con due punti di riferimento fissi, abbandono l’idea di usare la bussola e faccio la microsprint basandomi solo sulla carta di gara... e su una luce frontale che più che altro mette in difficoltà le auto che transitano sulla provinciale e gli aerei in decollo da Malpensa! Ci metto un tempo infinito per finire il percorso: quando arrivo al traguardo, è rimasto soltanto Cesare al solo scopo di riconsegnarmi il maglione di Charlie Brown.
Tutto questo basterebbe per chiudere definitivamente ogni attività invernale, ed in fondo io ho detto più volte che ODIO LE NOTTURNE, ODIO LE MASS START e ODIO LE GARE A SEQUENZA LIBERA. E fu così che, a distanza di 7 giorni dall’esperienza traumatica di Besana Brianza, mi presento al via a Cantù: che è notturna + partenza in massa + sequenza libera! Nonostante un pomeriggio passato a riprendermi da un accenno di pressione molto bassa, riesco a mettere mano alla luce frontale per assicurarmi una illuminazione decente. Le gambe che arrivano alla partenza di Cantù sono sempre quelle con l’elasticità del palo della luce, ma per qualche motivo mi sento più fiducioso inside. In partenza faccio sfilare quasi tutti davanti a me, cosicché alla prima punzonatura (punto 17) devo fare la coda per timbrare il mio cartellino, ma poi piego subito verso nord-est ed arrivo al punto 20 da solo.
Le strade sono ancora più ghiacciate che a Besana Brianza, ed i parchetti in pendenza sono coperti da una crosta di ghiaccio croccante che mi fa paura al solo pensiero che possa cedere sotto il mio peso facendomi rotolare giù per i pendii… ma per qualche strano motivo a Cantù non cederà mai! Dopo il punto 8 è il momento di affrontare il primo dei parchetti nei quali i punti sono disposti in sequenza “memory”: la carta con la disposizione dei punti è collocata solo all’ingresso del parco, e poi lì dentro li dobbiamo cercare noi alla luce delle lampade frontali. Il primo parchetto va via liscio, il secondo dopo il punto 10 va via meno liscio perché la pendenza è severa e la crosta di ghiaccio veramente insidiosa.
Mentre vado verso il punto 11, da dietro arriva un fascio di luce che si avvicina a velocità fotonica accompagnato da una falcata imponente: è Oscar, compagno di mille battaglie. Nei miei calcoli avrebbe dovuto essere parecchio davanti a me, ma mentre si affianca mi dice che ha “dimenticato” il punto 12 e quindi, deduco, è stato costretto a remare parecchio all’indietro. Il fatto che ora sia di fianco a me la dice lunga sia su quanto corre veloce lui sia su quanto vado piano io. Arriviamo praticamente insieme al punto 16, ma giunti lì non troviamo il punto ma due altri concorrenti che cercano… da una casa a fianco esce un signore: aveva visto “quell’aggeggio” appeso alla ringhiera e lo aveva tolto e portato in casa! (siamo pur sempre in una Brianza “E qui comando io \ E questa casa mia…”), ma almeno stavolta si tratta di una persona di buon cuore, che rientra in casa e ci porta fuori il punto di controllo. Punto 13, 15 e 14 e Oscar allunga inesorabile, ma ci ritroviamo al punto 18 in fondo ad un budello di ghiaccio. Per andare alla 19 bisogna fare il giro del mondo, e poi girare ancora attorno allo stadio di Cantù per andare a caccia degli ultimi 4 punti memory. Su questa tratta Oscar mi dimostra perché lui è stato campione italiano di orienteering e, in precedenza, valente ottocentista, mentre io sono solo un Impiegato Panzottello: l’allungo di Oscar è irresistibile, ma all’interno del parchetto torniamo ancora a correre insieme, fino all’ultimo punto memory che è praticamente poco FUORI dalla carta di gara.
Poi è solo energia per lo sprint finale appaiati, ed è questione di pochi secondi attendere il terzo moschettiere del terzetto qui sotto:
Io continuo a dire che odio le notturne, odio le mass start e odio i percorsi a sequenza libera. Tuttavia, almeno per quanto riguarda il primo punto, adesso dispongo di una luce frontale degna di questo nome. Le mass start potrei odiarle di meno se mi allenassi di più, ed i percorsi a sequenza libera li odierei dimeno se facessi più esercizi tecnici. Purtroppo voglia di allenarsi e di fare esercizi non la vendono a buon prezzo su Amazon: quindi se vado piano e mi perdo e sempre e solo colpa mia. Intanto però mi tengo stretta la mia nuova luce frontale! 

Milano vista con gli occhi di Remo

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“Mi chiamo MOO. Milanio Orbitalio Orientistico, fulgido esempio di confronto agonistico, punto di approdo per legioni di felici corridori, icona memorabile dell'unico vero genio Remus Madellus. E avrò la mia vendetta, in questa edizione o nell'altra!

Si. Io sapevo che il MOO avrebbe avuto la sua vendetta. Su di me, intendo. Solo su di me. La prima edizione del MOO, di cui scrivevo su questo blog circa un anno fa ancora inebriato dall’adrenalina, è corsa nelle mie vene per 12 mesi, trascorsi in attesa di una nuova edizione nella quale cercare di fare ancora meglio che all’esordio. Una edizione 2016 davvero tanto esaltante, tanto memorabile, e persino tanto epica era stata per me (e per la squadra di cui facevo parte), terminata con una incredibile lunghissima corsa sotto la pioggia battente in compagnia del mio compagno di squadra Marco. Proprio lui: Marco... quello che tanti anni fa riuscì nell’impresa, che non fu quella di vincere due campionati italiani a staffetta in squadra con altri atleti forti quanto lui, ma di vincere un campionato regionale a staffetta da solo, a tal punto che persino il cronista dell’archivio federale FISO scrisse che era inutile citare il nome del suo compagno di squadra perché Marco - matematica alla mano, mica opinioni - con il suo tempo di gara avrebbe vinto insieme a qualunque altro staffettista. Che andrebbe detto pure, per inciso, che il cronista ero io: venni pure ricoperto di insulti per aver lasciato nell'ombra, senza neppure uno straccio di citazione, quel povero orientista che aveva corso con Marco e che comunque quel titolo regionale in qualche modo lo aveva vinto lui pure!....

MOO 2016 era rimasto memorabile per tante cose. Due di queste: il quinto posto in classifica finale ed il il pezzo che scrissi sul blog; a detta di alcuni amici presenti all'edizione 2017, un pezzo che aveva contribuito a dare loro motivazione e carica per iscriversi e prendere parte alla seconda edizione, che si sarebbe presentata sicuramente come ancora più dura (atleticamente) e ancora più ricca di insidie (tecnicamente e mentalmente) rispetto alla prima edizione. Ed un pezzo che, nella mente di alcuni pazzi lettori, aveva immediatamente catapultato Marco e me nella ristretta cerchia dei favoriti per la vittoria della seconda edizione (oh! Io continuo a dire che il pezzo più bello che ho letto sul MOO 2016 è quello scritto da Alessandro Di Pace sul sito del Varese Orienteering…).

Purtroppo per questi pazzi lettori, ahimé!, nulla di tutto ciò che avevo fatto per prepararmi al MOO 2016 l’ho potuto (o voluto) ripetere nel 2017. Ripensando a 12 mesi fa, in questo periodo scrivevo dei miei allenamenti costanti, di quel po' di dieta che aveva contribuito a riportare il mio peso ad una quota tale da evitare di farmi imbarcare nella stiva come bagaglio ingombrante. A distanza di 12 mesi, sbarcato sul 2017, potrei scrivere un blog dedicato alla fascite plantare (ed ai rimedi suggeriti per guarire: il primo è sempre "stai fermo!"), ad un peso fuori controllo, agli stati ansiogeni al limite del classico tòpos fantozziano "manie di persecuzione e miraggi". Ogni giorno che passa, il diario degli allenamenti resta desolatamente vuoto: d'altra parte, dopo le 12 o 13 ore quotidiane in ufficio, le forze residue non sono dedicate ad uscire a correre ma solo ad aprire il primo barattolo che passa per le mani (irrespective of whether the expiration date has passed or not).

Ma poi arriva la data del MOO, ed i casi sono due: o si resta a letto a dormire ed invidiare tutti gli altri, oppure ci si convince che almeno quel giorno i piedi bisogna essere pronti a muoverli per 5 ore o giù di lì, sperando che la fascite plantare non si faccia sentire sul più bello.

"I pali della darsena" (Marco ed io) si sono schierati al via del MOO 2017 con la stessa formazione 2016; in realtà avevamo in serbo (ma sarebbe più credibile dire: in sloveno) una sorpresa per tutti. Un terzo elemento che si sarebbe inserito in squadra all'ultimo momento, ma uno in grado di spostare le sorti della tenzone a nostro favore. Il nome "I Pali della darsena" era un richiamo al nostro unico errore del 2016 (nonostante ci sia stato qualcuno che, ironizzando, ha pensato che fosse una specie di allusione a determinate doti amatorie...), ma anche un evidente richiamo alle doti di mobilità e di elasticità del sottoscritto, soprattutto nella zona articolare inferiore. A questo punto devo ammettere che non so ancora con che nome potrei iscrivermi alla terza edizione del MOO 2018, anche se temo che potrebbe venire fuori qualcosa di troppo lungo: una prima opzione suggerita dallo sponsor Luxottica potrebbe essere “quello che in metropolitana preferisce guardare le ragazze perché non ha abbastanza diottrie per guardare fuori dai finestrini”, ma lo sponsor Zanichelli potrebbe ribattere con “quello che dopo 4 ore di corsa non capisce più la differenza in italiano tra le parole quali e quanti”. Alla fine penso che potrebbe prevalere l’impresa di pompe funebri San Siro con un bel “quello che gli tocca invadere il cimitero per andare a leggere le scritte sui vetri della chiesetta” (sempre in collaborazione con Samoiraghi).

Ma noi non eravamo quelli che avevano in squadra LA SORPRESA? Che è come dire che in una partitella tra amici avremmo schierato in campo Ibrahimovic a sorpresa (oh! Io di calciatori sloveni non ne conosco...). E sfido chiunque a non ammettere che Ibra è uno che, se scende in campo adesso con qualunque squadra, decide le sorti di qualunque partita. Purtroppo lo schieramento a sorpresa è saltato per aria sabato pomeriggio, a poche ore dall'inizio del MOO: mi chiama infatti lo stesso "Ibra" per dirmi che ha deciso di cambiare squadra. Che ha deciso che parteciperà al MOO ma non con noi, bensì in una squadra che schiera già (tanto per continuare con un esempio calcistico) un attacco con Cristiano Ronaldo e Leo Messi. Però "Ibra" mi dice anche che siccome questi due non sono non sono bravi come me a fare goal… è meglio se va a dare una mano a loro anziché a noi, così le sorti del MOO non sono troppo squilibrate a favore di me e Marco, che ci liberiamo liberi da una presenza ingombrante come la sua a centro area e possiamo manovrare meglio sulle fasce. Io resto lì come se fossi Gonon e qualcuno mi avesse detto a poche ore dal via dei WOC che la staffetta Gonon-Basset-Gueorgiou è diventata Gonon-Basset-Gallettì (con l'accento).

A questo punto è tornato buono il mio pronostico della prima ora. Nei giorni precedenti il MOO avevo studiato la composizione delle varie squadre, concentrandomi soprattutto su quelle che avevano in squadra nomi di orientisti. Suddividendo le squadre in varie fasce, avevo capito da subito che con ogni probabilità 8 squadre ci sarebbero finite sicuramente davanti. Con altre 6 ci saremmo giocati le posizioni di rincalzo. 8 + 6 = 14… Di conseguenza il mio animo negativo e pessimista (e ansioso) avrebbe puntato tutti i soldi della scommessa su un quindicesimo posto del tutto anonimo rispetto ai fuochi artificiali del 2016. Tuttavia... mano a mano che si avvicinava il MOO, ho cercato di farmi coraggio e quindi… dai!... magari non tutte le squadre di orientisti ci sarebbero finite davanti! Diciamo sicuramente le 8 più forti e magari solo 3 (su 6) tra quelle di orientisti meno accreditati. Risultato finale dell'elucubrazione: dodicesimo posto. Questo, ovviamente, senza contare le squadre composte da soli non-orientisti. Così è successo che, quando nel parterre del MOO 2017 ho visto attorno a me volti mai visti (come succede sempre alle elezioni federali FISO) ma fisici tonici con gambe guizzanti ed abbigliamenti super-tecnologici da Marathon des Sables, ho rapidamente messo da parte qualunque velleità di poter puntare alla top ten.

***

Diciamo che alla fine arriva la domenica mattina del MOO. L'unica MOOmenica mattina in questo 2017. Siamo all’o la va o la spacca, insomma... Succede che già mentre sono sul tram, e mi accingo ad attraversare la città, capisco che la situazione non è delle migliori: penso infatti di essere sul 15 che mi porta a Missori, e poi da lì con la metro gialla alla partenza di Dergano, ed invece guardando attorno a me mi accorgo dopo un po’ di fermate che sono sul 3, che non incrocia mai nemmeno per sbaglio la linea gialla! Il senso di vertigine che mi prende mentre cerco, a mente, di raccapezzarmi con i collegamenti tra le linee metropolitane è paragonabile solo al panico che mi prende pensando che di lì a poco dovrò cimentarmi con lo stesso tipo di problemi, ma in corsa (o meglio: rantolando dietro a Marco) e in pieno acido lattico. Lo sbandamento che mi prende sul tram farebbe venire voglia di tornare a letto sotto le coperte, con le tapparelle chiuse e la stanza completamente al buio; oppure trovare un modo per non vedere nulla di quello che succede attorno a me…

Alla fine arrivo a Dergano. Dove in vita mia sono stato solo due volte. La prima volta ero molto giovane: ero andato in Via Candiani al solo scopo di comperare una stecca da biliardo per un amico di Piedicastello, una "fraschetta arlecchino" da trecentomila lire che per l'epoca, era un botto di soldi da far accapponare la pelle; ricordo che andai in Via Candiani con i soldi nelle mutande (giuro!) per evitare che me li rubassero (mia madre, sapendo che un mio amico era pronto a spendere 300 carte per una stecca da biliardo, pensava che io stessi frequentando una compagnia di delinquenti...). Il venditore di stecche da biliardo non ha mai saputo dove erano state fino a poco prima le banconote che mi avevo messo in mano…La seconda volta ci ero andato dopo il funerale della povera Mary D'Amelio, per accompagnare una amica.  Di conseguenza non è una zona che mi metta di ottimo umore. Mentre sono perso nei miei pensieri e vedo da lontano il ritrovo, si affianca una macchina: è quella del "Perfido". Un flashback. L'anno scorso, dopo che sul blog avevo decantato tutti i miei allenamenti, alla prima gara in notturna al Lago Nord di Paderno Dugnano, il "Perfido" aveva chiosato: "Beh...? Non gli fate i complimenti per tutti i chili che ha perso e per quanto è allenato??? E pensare che se non lo avesse scritto sul blog, a vederlo non mi sarei nemmeno accorto che si è messo in forma!”. Quello che il "Perfido" mi ha detto quest'anno, dopo aver parcheggiato la macchina e fatto scendere moglie ed eredi, non è riferibile...

***

“Ma il MOO? Il MOO dove è finito??? Basta con queste descrizioni di quello che pensi e di quello che hai fatto 10, 20, 30 anni fa!!! E le cartine? Dove sono le cartine?? E le scelte di percorso???”

Cosa vi devo dire? Il MOO è Milano vista con gli occhi di Remo. Nel bene e nel male. O forse anche “nel bello e nel brutto”. Il MOO è una cosa che bisogna fare almeno una volta nella vita perché, soprattutto per chi a Milano ci vive, il MOO è sempre un po’ un viaggio dentro a sé stessi. Remo ci ha fatto vedere tante facce di Milano durante il MOO 2017. Qualcuno potrebbe tornare a casa pensando che il "bello"è il quadrilatero della moda con via Montenapoleone e via della Spiga, dove corrono le Ferrari e parecchia polvere bianca; qualcun altro potrebbe rispondere che il "bello"è il quadrilatero multietnico di Segesta (Remo è riuscito a farci utilizzare la stessa mappa per correre in entrambe le zone... là dove si diceva "il genio"), di cui ormai le cronache cittadine nemmeno si occupano più e che è ormai noto come "il quadrilatero del degrado a due passi dall'Eden".

Con l’altro palo della Darsena ho affrontano la prima tappa nel quartiere di Prato Centenaro, non lontano dall'Università Bicocca, in uno scenario post-atomico da domenica mattina in un qualunque posto nel quale è stato indetto il coprifuoco totale, dove Marco ha mostrato subito di avere un passo completamente diverso dal mio, ed i minuti di ritardo sul piano di volo hanno cominciato ad accumularsi. Poi ci siamo trasferiti nel quadrilatero del degrado di Segesta, dove una delle domande prevedeva il riconoscimento di un frutto che penzola da un albero... ed ancora una volta meno male che c’era Marco perché chiedere a me di riconoscere un frutto che penzola da un albero è come chiedermi di riconoscere un’automobile dal logo sul portello posteriore. Zona monumentale, con Marco che continua a correre imperterrito ed io che ormai sono in totale debito di ossigeno, e passaggio dal “punto orario” del Rock Burger dove incrociamo tante altre squadre che sono convenute lì da ogni punto della città. Poi il lungo trasferimento fino a Cascina Gobba (dove perdo la tessera del tram), e a quel punto dobbiamo ammettere che non ce la faremo mai a completare il percorso e quindi dobbiamo rinunciare o al quadrilatero di Montenapoleone o a quello di Porta Romana e Porta Vittoria. Per stare sul sicuro ci fermiamo a completare le punzonature della zona centrale di Milano (dove comincia a manifestarsi la fascite plantare) ma la delusione per non essere riusciti a completare il percorso è davvero troppo forte.

Alla fine siamo di ritorno in via Candiani in 4 ore e 46 minuti. Un tempo molto simile a quello dell’edizione 2016, solo pochi secondi di differenza, ma un risultato finale che va decisamente stretto alle doti orientistiche di Marco che ha corso e si è orientato per tutti e due: quindicesimo posto (vedi le considerazioni sopra). Purtroppo le squadre si muovono alla velocità del bisonte più lento, ed in questo caso era palese fin da subito che quel bisonte ero proprio io.

Mi rimangono del MOO 2017 tante cartine, ancora tanta adrenalina, bei ricordi e soprattutto la convinzione che Il MOO è Milano vista con gli occhi di Remo. Il mio invito, a tutti gli orientisti e non solo, è che l’anno prossimo veniate ancora in tantissimi a vedere la città con gli occhi di un orientista che definisco un po’ sognatore e un po’ genio, un po’ fuori dagli schemi e con un modo di pensare alle cose quotidiane un po’ diverso dal mio. Ma che nel MOO riversa tantissime energie e trova sempre il modo di sorprenderci. Così che anche io, l’anno prossimo e se tutto andrà bene, sarò ancora una volta al via del MOO 2018. Anche se non ho ancora deciso con quale nome…
(mappa generale)








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