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Gemellaggio 2015: come ci arrivai e come finì...

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I lettori più attenti del blog non avranno mancato di notare l’assenza, in questo 2015, della puntata più appassionante, più imperdibile, più attesa dei racconti dell’Impiegato Panzottello : quella di inizio anno nella quale vengono puntualmente elencati obiettivi, speranze e soprattutto gli appuntamenti irrinunciabili del calendario agonistico. Tutti i blog orientistici che vanno per la maggiore (in pratica il solo blog di Dario P.) riportano a cadenza annuale con dovizia di particolari l’elencazione dei luoghi e delle gare nelle quali l’autore andrà a posare le sue Inov-8, le sue “La Sportiva”, le sue quel-che-è, affinché tifosi e groupies possano regolare il loro proprio calendario, le trasferte e financo le vacanze.

Volevo farlo anche io… In fondo è il pezzo più facile da scrivere: si prende il sito Fiso, e magari WorldofO, si segue con il dito indice la sequenza temporale delle gare facendo un pensierino anche alla 5 giorni di Patagonia, si mette tutto per iscritto ed il gioco è fatto. Avrei voluto annunciare la mia presenza a tutte le promozionali lombarde, al fine di mettere a punto l’inizio di stagione ad Arogno e Clusone per presentarmi all’appuntamento della Lipica Open e mettere le cose a posto tra me e lo spetsnaz! Da lì in avanti, poi, è tutta discesa. Persino l’influenza, che colpisce con una virulenza del 99.99% tutti i frequentatori della linea del tram numero 15 (si salva il manovratore, perché è chiuso dentro nel gabbiotto) e che l’anno scorso aveva duramente colpito me (e poi tutti quanti gli altri mi sono passati vicino) alla Lipica Open, quest’anno si è fatta viva ad inizio gennaio.

“Un mese di passione – questo pensavo – poi ci si butta sulle promozionali e poi… a me Lipica! (e lo spetsnaz)”. Questo pensavo. Purtroppo l’influenza del ceppo “tram numero 15”  è dura da debellare; a metà febbraio ero praticamente azionista di riferimento della Kleenex! I fine settimana fantozziani di pioggia dopo una settimana lavorativa di sole non si sono fatti mancare; di conseguenza sono approdato a marzo con due uscite nelle gambe… e che uscite: la bellissima (e passeggiata) Street-O di Remo Madella a Milano, e la posa punti al Parco Forlanini (di cui sotto riporto il dettaglio della parte "Shanghai") per l’ennesima “Milano nei parchi” sopra quota 300 partenti.


Per il primo marzo, le commissioni composte da soli Premi Nobel che regolano i calendari di queste lande hanno compiuto il miracolo di sovrapporre uno dei posti più belli di Lombardia (la Pineta di Clusone) con la gara ticinese più abbordabile per vicinanza al confine (il TMO di Arogno); poiché da mesi avevo promesso a Metka, tracciatrice ad Arogno, che sarei andato a fare la sua gara, ho optato per l’attraversamento del confine. La gara era presentata come un TMO “middle” e la carta la ricordavo abbastanza bianca, quindi al momento di scegliere la categoria ho schiacciato il pedale della frizione e ho messo il cambio su “folle”… cioè mi sono iscritto in HAL, che sarebbe l’Elite ticinese. Tanto è middle. Tanto la carta è bianca. Tanto nevicò, ma proprio tanto; al punto che a pochi giorni dalla gara ancora non si sapeva se si sarebbe potuto gareggiare. Ma alla fine si gareggia, ed io vado alla partenza della mia HAL da fare in mezzo alla neve con una Street-O nelle gambe!

Non che con 7 O-Marathon invernali sarebbe cambiato qualcosa! Nel breve tragitto dalla 0 alla 1, appena esco dalle tracce che lo Scom Mendrisio (pazzi!) hanno tracciato lungo tutto il pratone per aiutare i concorrenti, un ramo si conficca nella scarpa destra e si porta via suola, calza e anche un bel po’ di dito alluce ed indice del piede. Solo che, correndo nella neve, praticamente non me ne accorgo! 


Faccio una fatica da bestia nella neve e vengo raggiunto alla 2 da Stefano Maddalena che mi partiva dietro (so che lui pensa che sono pazzo, ogni volta che vede il mio nome nella sua griglia…); procedo lentamente perché devo anche riprendere contatto con la carta, ed il piede destro mi da qualche sensazione strana, ma soprattutto di freddo intenso. Sbaglio lo sbagliabile andando alla 11 anziché alla 10, rallento se possibile ancora di più nella fase di ritorno verso la zona del traguardo  infine, allo scoccare dei NOVANTA MINUTI DI GARA!, compio il miracolo di “mancare” la 100 ed il traguardo andandoli a cercare in mezzo al bosco…


Comunque tutto bene. Percorso decisamente bello, brava Metka: esame passato! Raggiungo il ritrovo con i piedi congelati e, quando mi tiro via la prima scarpa, ho una sorpresa: la calza è rossa color della bandiera svizzera, praticamente intrisa di sangue. Quando tiro via la calza, scopro lo scempio: le due dita del piede mostrano in bella vista la carne viva, delle unghie non se ne ha che un lontano ricordo. Un paio di persone vicino al mio seggiolino svengono o vomitano per l’orrore, ma il mio primo pensiero è che non sento nulla. Chiaro: la neve ed il ghiaccio nei quali ho corso hanno anestetizzato il piede. Comincerò a sentire un lieve dolore, tipo due spilloni arroventati conficcati nell’alluce, mentre scendo verso il parcheggio; in fondo alla strada della Val Mara, a Melide, sono ridotto al punto da spingere il pedale dell’acceleratore premendo con la mano sul ginocchio: il piede è in posizione “a martello” e non altrimenti utilizzabile. A Mendrisio, sono alle lacrime di dolore: un sentito ed eterno ringraziamento da parte mia ai gestori della farmacia lungo la cantonale, che espongono la croce verde luminosa e lampeggiante (che dovrebbe indicare che la farmacia è aperta); dopo aver trovato E PAGATO il parcheggio in zona stazione, scopro che la farmacia è chiusa e tutto si riduce all’indicazione di un’altra farmacia in un’altra parte di Mendrisio. Arrivo in autostrada e mi fermo alla prima area di servizio dopo il casello: il piede sprizza sangue da tutte le parti (per il disgusto di chi mi ha parcheggiato vicino) e solo per miracolo scopro nelle pieghe dello zaino quell’unica pastiglia di Synflex che mi permette di arrivare a casa. Da quel pomeriggio, per 4 settimane, girerò zoppicando con lo zaino appresso: cerotti, compeed di ogni dimensione, pomate antisettiche, garze, cotone, antidolorifici… più passaggio dall’ospedale quando la ferita di infetta di brutto e gonfia a dismisura il mio già illustre piedone taglia 50.

La ferita si chiude solo attorno al 25 marzo. Nel frattempo riesco solo a posare, zoppicando, il percorso conclusivo della Milano nei parchi 2015 con annessa parte micro-sprint...


... e ad annunciare la mia possibile presenza al gemellaggio Trentino-Salzburg in programma sull’Altopiano di Piné a Pasqua. Nella settimana che precede la gara nazionale di Brescia parto per la Svizzera per lavoro e mi becco la gastroenterite… a Thun vengo raggiunto da una bottiglia con annesso messaggio, che Davide Spagnoli ha lanciato nel cyber-mare: posso fare lo speaker a Brescia? Accetto, anche se arrivo al Castello di Brescia che sembro più un gastroenter-speaker che un essere umano; l’unico pensiero coerente che ho è il seguente: “dovunque, ma NON NEL TUNNEL CHE PASSA SOTTO IL CASTELLO!”, che ancora metà degli orientisti attivi in Lombardia (una cinquantina di persone, quindi posso sopportarlo) mi prendono in giro ogni volta che mi vedono! Faccio il giro speaker attorno alle 11.30, e letteralmente tiro le cuoia sui 2300 metri del percorso (secondo me erano 23 chilometri) + 90 metri di dislivello che a me sono sembrati 900 metri, misurati per difetto!

Nel frattempo, per sovrappiù, si sveglia il mio dente del giudizio! A 48 anni? Si, a 48 anni. Ascesso di dimensione super perché non mi faccio mai mancare niente, e vai ancora di antibiotici e di antidolorifici… giovedì 2 aprile, a poche ore dalla partenza per il gemellaggio, ho la faccia che sembra dipinta da Picasso, non riesco quasi a parlare e l’unica soluzione prospettata dal dentista sembra quella di farmi aprire la guancia e togliere il toglibile. Ma l’ascesso è troppo esteso, l’operazione deve essere rimandata, e la soluzione è: PIU’ antidolorofici, PIU’ antibiotici. Il dentista si raccomanda: “… e cerca di stare a riposo per i prossimi giorni”. Si, certo, come no?

Quando la macchina del GOK raggiunge Baselga, l’unico che se la sente di andare a provare il percorso del venerdì pomeriggio sopra il Lago di Serraia è quello che dovrebbe riposare; d’altra parte mi sento anche quasi bene: sono talmente imbottito di antidolorifici che potrei anche fare meno fatica del solito nel bosco… se non fosse per quegli uccellini rosa e azzurri che mi ruotano attorno alla testa, distraendomi! Mi presento dunque, imprevedibilmente, al centro gara del gemellaggio a Miola di Piné; quello che vedo nell’ordineè: 
1. Stefano Raus che smista cartine come Tony Binarelli nel film di Trinità. 
2. Eddy Sandri che dice a Raus “la sua (mia) cartina è QUESTA!”, ma la carta è piegata in 4 e soprattutto non sta nella pila ordinata delle altre. 
3. Passando accanto al furgoncino della WADA (Agenzia Mondiale Antidoping) tutti gli allarmi cominciano a suonare impazziti, mentre l’ago del dopingometro schizza a “Ben Johnson” in una scala da zero a Lance Armstrong.

Ma soprattutto è QUELLA CARTA, accuratamente ripiegata e messa da parte, ad alimentare i miei sospetti. Da quando ho pubblicato il post sulle 5 volte in cui ho ricevuto l’unica cartina sbagliata tra tutti, vivo nel sospetto che prima o poi qualcuno mi farà lo SCHERZONE… il fatto è che in zona ci sta Eddy, e c’è Raus che è in grado con un cellulare Motorola ed una stampantina degli split di produrre in tempo reale una cartina ed un percorso di un posto a caso in Barbagia. Eddy non solo continua a propormi QUELLA CARTA, ma insiste nel volermi accompagnare alla partenza; si insinua in me il sospetto che, quando aprirò la carta, troverò soltanto una foto di Minna Kauppi in bikini! Invece la carta è quella vera del Lago di Serraia, il percorso è quello vero segnalato dalle lanterne (ed  quasi più bello di quello della Coppa Italia di qualche anno fa nella quale ero scoppiato… ma sarà l’effetto degli antidolorifici), i dislivelli sono abbordabili a parte la salita iniziale, la rampa per tornare alla 14 e la salita al collinone di Miola. Nel giro di una ottantina di minuti sono di nuovo nel parcheggio, dove le apparecchiature del furgoncino antidoping ricominciano a suonare all’impazzata: lo SCHERZONE c’era stato, perché il percorso consegnatomi era quello junior\elite… ma io proprio quello volevo!!!


Come inizio del gemellaggio non c’è proprio male. Infatti, il giorno dopo… ecco: il giorno dopo non c’è. O meglio, comincia solo DOPO che sono caduto in catalessi dalle 9 del mattino alle 14.30 (prima frazione) e dalle 16.00 alle 18.30 (seconda frazione della catalessi). Alle 20.30 saluto il GOK e mi ripresento un po’ frastornato a Miola per la gara in notturna. Lo squillare degli strumenti della WADA si confonde con le campane della chiesa, ed alla mass start mi presento in una doppia fila di ragazzini alti la metà di me: scende dolcemente dal cielo qualche fiocco di neve, ed io indosso la termica, il pile, un altro pile e la giacca a vento; i ragazzini indossano il trimtex a maniche corte… e stop! Ho paura della notturna perché l’ultima volta a Miola (un altro gemellaggio nel secolo scorso) me l’ero cavata solo perché Giuseppe Bezzi, impietosito alla vista del lumino che portavo per illuminare i miei passi, mi aveva prestato la sua “frontale”: L’Adige, pagina Valsugana e Piné, riporta ancora nella rubrica “fenomeni inspiegabili”, di quella volta che il sole era tramontato alle 18 ed era risorto sopra Miola alle 20… in corrispondenza dell’accensione della frontale del Bezzi! Ma la notturna 2015 è proprio per i giovanissimi (che ci fa in giro con loro un ‘chiardo come me?), in paese o nella zona dell’anello di pattinaggio; è divertente, facile, score (con punzonatura della si-card, diavolo di un Raus!) e con i punti bonus. Io mi accontento di una passeggiata e di fare 12 punti su 14 in 19 minuti, e beandomi dell’arrivo degli junior e young del Trentino che si sono dati battaglia feroce senza esclusione di colpi.


Il mattino dopo, mi ripresento al via della garetta pasquale, che è un Fot-O per le stesse vie di Miola che hanno ospitato la notturna. Oh! Precisiamo subito una cosa! Quando sarò Imperatore dell’IOF (la candidatura sarà annunciata a breve), il programma delle novità prevede: 
1. I presidenti nazionali vengono banditi da Murrayfield, che è un posto serio e tale deve rimanere. 
2. Io sono il Campione del Mondo su tutte le distanze, anche a staffetta (anche mixed relay) e anche se corro da solo. 
3. Il Fot-O assegna titolo Mondiale! 
Sempre troppo divertente, troppo eccitante, un clima da vera caccia al tesoro anche perché alla fine del primo giro di Fot-O i ragazzini devono andare a caccia delle uova di Pasqua. Ci sono 12 foto e 12 punti e quindi… non dovrei dirlo perché svelo la tattica, ma tanto da imperatore IOF io sarà comunque il Campione del Mondo di Fot-O, se le foto corrispondono al numero dei punti, è inutile andare a controllare la lanterna più lontana… che tanto sarà quella da abbinare alla foto che rimane, no? E’ con questi pensieri che, da sopra un dosso, assisto sorridendo alla corsa pazza dei ragazzi verso il punto di controllo numero 1, quello più lontano. Finisco la mia passeggiata in un tempo ragionevole, godendo della mia superiorità tattica guidata dall’esperienza, e sento due ragazzine dell’Orienteering Piné che, in due, fanno la metà dei miei anni: “A quella più lontana non siamo andate, tanto la foto da abbinare era quella che rimaneva”. Bare! Scorrette! Non si fa così! Inutile: non c’è più la gioventù ingenua di una volta


Domenica pomeriggio, dopo un altro breve momento di catalessi, si sale a Rizzolaga per il percorso “curve di livello” disegnato da Marco Bezzi. Rizzolaga + Marco Bezzi + curve di livello è una cosa che è stata messa al bando persino dall’Universo Marvel, perché né Iron Man né Capitan America si sono sentiti in grado di affrontare la cosa. Però bisogna leggere anche tra le righe: innanzitutto “Rizzolaga” non è altro che un modo per dire “Bedolpian, la parte nord”… e qui ci scatta immediatamente il primo ammonimento: se non vi piace Bedolpian, io non vi voglio nemmeno conoscere! Quindi dire “curve di livello a Bedolpian (Rizzolaga)” non è la stessa cosa che dire “curve di livello a posto-qualunque-in-Lombardia” (ma possiamo anche togliere “in Lombardia”). Bedolpian è Bedolpian. E parimenti la chioccia Marco Bezzi, quando ha a che fare con i suoi pulcini, si trasforma davvero nell’orso buono: il video, se ci fosse, della sua spiegazione delle curve di livello con tanto di modellino in cartone autoprodotto (con collinette e depressioni, una roba da esporre al Guggenheim), sarebbe virale su youtube! A me tocca cimentarmi sul percorso Long-non-facilitato (dalla vegetazione), ma Bedolpian è Bedolpian e non fa paura: vedo passare Damiano Bettega e qualche altro pulcino del Trentino, poi Metka, incrocio Kristian ed in capo a un’oretta abbondante di cimento sono di nuovo al ritrovo. Potenza degli antidolorifici, forse, ma anche di come Marco ha congegnato il percorso…


Resta così da affrontare l’ultimo appuntamento del gemellaggio: la gara promozionale di Pasquetta, sempre a Bedolpian (sud). Promozionale sti caxxi! Al via del percorso Agonisti si presenta un po’ po’ di roba che farebbe valere la gara almeno 90 punti in lista base, e in più c’è Jonas Rass (adesso lo dico: il più forte orientista italiano degli ultimi 20 anni, poche storie!). Io mi sono iscritto, viste le condizioni, sul percorso “Rosso”, ma lo SCHERZONE è in agguato e mi ritrovo nella lista degli Agonisti; questa volta, però, devo limitare le mie ambizioni di punire per benino i vari Zagonel, De Bertolis e compagnia (Rass no, lui è intoccabile): mi aspetta infatti il ritorno a Milano e l’apocalisse autostradale, quindi declino e ritorno sul percorso Rosso, con partenza presto e sparizione immediata subito dopo lo scarico della si-card. 

La descrizione che segue della mia gara NON è influenzata in alcun modo dalla lettura (non ho ancora letto) di altri blog e dei relativi commenti. Quello che però voglio dire al giovane tracciatore Stefano Raus è che una bella tirata di orecchi non gliela leva nessuno! Prendiamo per esempio la collocazione del punto 7: io un punto del genere però non l'avrei messo. Dopo una tratta lunga e interessante come la 6-7 un esperto tracciatore dovrebbe aver letto il “Manuale del Tracciamento dei percorsi per Impiegati Panzottelli”: i quali, dopo aver faticato e sputato l’anima (e anche altre cose) in salita, appena vedono un dolce declivio che, in un bosco da fiabe, degrada lentamente verso valle su un tappeto di erica e fiorellini, cominciano a correre per la prima volta dopo tanti anni come Peter che insegue Heidi! E quindi hai voglia, al momento di rallentare per cercare il punto, a mettere fuori flap, retrorazzi, invertitori di spinta e paracadute: una volta che si sono fermati, nell’avvallamento a sud-ovest appena fuori dal cerchietto, si capisce lontano un miglio che una tantum sono finiti lunghi. Era dunque IN QUELL’AVVALLAMENTO dove mi sono fermato io che dovevi mettere il punto, caro Stefano, mica 60 metri prima!

Trovata la 9 più per culo che per anima, scovata la 10 senza né culo né anima perché sono rimasti alla 9, arriva un’altra tratta lunga 10-11: risalendo il pendio non so se mi quadravano molto i disboschi e le tracce di sentiero, perché ero più impegnato a gestire respirazione affannosa, battiti cardiaci a ritmo Phil Collins, miraggi e Nere Signore con la Falce; ma è sicuro che mi sono trovato inequivocabilmente sulla sella giusta, nella palude giusta, nell’avvallamento giusto e infine (incredibile!) nel punto giusto. E no, Stefano Raus! Così non si fa! Cioè… adesso vuoi dire che se l’Impiegato Panzottello legge la mappa, capisce i contorni delle curve di livello e trova le paludi… poi trova anche il punto? Ma n’do che sente po’… in Svezia? Cortesemente, la prossima volta, un particolare meno definito e meno inequivocabile… che poi non posso riposarmi per cercare il punto tutto attorno, mi tocca ripartire subito verso quello successivo e rischio di sbagliarlo e di far sbagliare anche Pedrotti!!! (ah no… lui ha sbagliato lo stesso).



E così, nonostante l’ospitalità del bosco di Bedolpian e dei ragazzi trentini, anche questo gemellaggio va in giudicato. Sulla strada del ritorno non troviamo nemmeno l’apocalisse autostradale e, quando Matteo Sandri mi telefona per chiedere se qualcuno della Polisportiva Bissinese che non è rientrato alla base è in macchina con me, io sono già ad Agrate alle porte di Milano.

Che dire quindi in conclusione, se non un saluto a Dario P. che mi offre sempre la sponda, a Zonori che comunque si vendicherà di me in occasione della Rugby World Cup a settembre, ed ai ragazzi che hanno gestito il gemellaggio Trentino-Salzburg? Se tutto riprende ad andare per il meglio, la mia conclusione è una sola, e stavolta la uso per me medesimo: I’M BACK IN BUSINESS!

Belluno e Quantin: come è andata a finire?

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Se avessi provato ad immaginare il modo in cui sarebbe terminato il fine settimana delle prime due gare di Coppa Italia di Belluno e Quantin, penso che nemmeno la mia più fervida fantasia avrebbe azzeccato l’ultima pagina del racconto ed il nome dell’”assassino”. Soprattutto, la mia fantasia non si sarebbe spinta a pronosticare il momento di autentico “sbroccamento dello speaker”, quando Roberto Dallavalle è comparso ai margini del prato di fianco alla postazione microfonica, ancora in linea con Caraglio e Seppi dopo 83 minuti di gara. Non sono, devo ammetterlo, tifosissimo ultras del Truffa, o di Miki e di Seppone (se l’altro è “Seppino”, lui sarà “Seppone”… o no?) ma tifo incondizionatamente per i ragazzi che danno tutto fino all’ultimo metro, e per le gare che finiscono proprio sul filo del traguardo e nel momento in cui, ad un qualunque passaggio intermedio, si vede che il primo ha un vantaggio di minuti sugli avversari. Mi piacciono alla follia (da cui lo “sbroccamento”) le situazioni nelle quali la storia finisce proprio con l’ultimo passo sul traguardo. 

Tra la gara di Belluno e quella di Quantin, di situazioni del genere se ne sono viste a iosa, e questo basterebbe per passare agli archivi il fine settimana come molto positivo. Se in più ci aggiungo il fatto che la gara di Belluno mi è piaciuta, che quella di Quantin sono contento di averla finita (non era affatto certo) in un tempo accettabile, ultimo in classifica ma accettabile, e che in mezzo ci si è messa una cena coi controfiocchi in uno scenario da fiaba disneyana…


Belluno avrebbe dovuto rappresentare l’esordio, per me, come speaker nel 2015. Poi le cose sono andate come ho descritto nel pezzo precedente, e quindi Brescia è stato un utile modo per rompere il ghiaccio con il microfono e rinfrescare un po’ di trucchi del mestiere. Però Brescia, per partecipazione ed importanza della gara ed anche per collocazione (anche se l’ingresso del castello è davvero pittoresco), non poteva reggere il passo con Belluno: sapevo che sarei stato nella Piazza dei Martiri, e che l’Orienteering Dolomiti avrebbe cercato di mettere in piedi uno spettacolo sportivo e non solo che potesse attirare l’attenzione dei bellunesi, anche in ottica di gare future. Quando ci sono queste situazioni, mi chiedo sempre: sarò all’altezza?Non ho una risposta nemmeno dopo la gara di Belluno; potrebbe essere andato tutto bene e poi, la prossima volta, andare malissimo! Le gare le devo vivere con il mio ritmo: l’arrivo in zona gara, il mio percorso fatto a velocità da lumaca trascinandomi appresso un adipe pericolosamente in crescita... 


(si vede la maglia tesissima sul davanti?)

... il fiatone e la tosse del mio dopo gara, l’accensione del microfono ed i primi momenti di panico del tipo “cosa ci faccio qui?” (devo ringraziare Antonio Loss, anche lui esperto speaker, che nel vedere il mio primo momento di panico ha sorriso e detto “Succede sempre così anche a me, tutte le volte!”).

Poi la gara procede sui suoi binari; le gare sprint sono belle perché non lasciano alla mia testa il tempo di “deragliare” su aspetti secondari e che non interessano a nessuno (se qualcuno ha seguito il mio racconto su Frank Shorter durante il commento a Quantin, si sarà chiesto “ma cosa cacchio sta dicendo???”). Sono belle le gare sprint in un impianto scenografico come quello della Piazza dei Martiri, dalla quale parlavo non solo per gli atleti ma per tutti i passanti, parecchi dei quali si saranno chiesti chi era quel matto che sbagliava tutti gli accenti… (Nevegàl e non Névegal, Nicòlis e non Nìcolis: il milanese anticipa, il veneto si appoggia per ripartire con più slancio). Sono belle quando i ragazzi e le ragazze dell’Elite, ma non solo loro, viaggiano sul filo dei secondi; sono belle quando il percorso mi consente di vedere i passaggi, dicogliere nelle facce dei concorrenti lo sforzo (che ho fatto anche io), la concentrazione (che ho provato ad avere anche io), magari anche l’orecchio teso a cogliere qualche barlume di informazione dal commento live! Non ho mai, non avrò mai, la certezza di svolgere un compito equo per tutti i concorrenti; se, come mi era stato chiesto, avessi dovuto davvero segnalare la posizione di tutti i concorrenti, in tutte le categorie, al passaggio al punto spettacolo per non condizionare o spronare o deprimere la gara di alcuno, allora tanto varrebbe commentare da casa con un bel live messo a disposizione da San Edoardo Tona. Ma se si vuole un declamatore dell’elenco del telefono, allora va bene anche Forsberg! (questa è grossa… non riferite: lo prendo in giro perché è bravissimo, quasi quanto me, ed emozionante, ma ogni tanto si perde via nel dire che è passato il 24esimo in classifica a 2’15 dal primo…).


A Belluno le cose sono andate benone. Edo mi ha messo a disposizione il live, ma riuscivo a fare i conti rapidi a mente guardando il cronometro dell’arrivo ed azzeccando parecchi fotofinish (Inderst vs. Corona in primis). Non ha funzionato il passaggio al punto spettacolo, ma è stato quasi meglio: il diluvio di informazioni, alla fine, avrebbe distolto l’attenzione dalla zona calda dell’arrivo, e dover fare i conti a mente nei passaggi degli atleti sotto il palco mi consente di mettere insieme quelle frasi per le quali poi gli amici mi prendono in giro “tempo ufficioso al passaggio… da prendere con le molle… potrebbe forse essere attorno al…”, una roba che al confronto il “Pare Sembra Si mormora” di PierFrancesco Loche era definitivo come una enciclica papale. Ne è uscita, credo, una gara brillante nella quale Seppino ha fatto segnare un tempo pari alla metà+qualche secondo del mio tempo di gara, un risultato cronometrico che ormai, corra Zagonel o Tenani o Seppino, è una costante delle gare sprint! (ed io corro prima degli altri, quindi ormai posso dire di conoscere il tempo del vincitore prima ancora che la gara inizi).


La cena pantagruelica all’Agritur Cornolade seguita alla gara sarebbe valsa la pena anche a costo di qualche minuto perso l’indomani, durante la gara Long a Quantin. Una notte di sonno complicata (mica per la digestione, ma per la tosse) ed alle 7 in punto Walter Mazzucco è pronto a portarmi sul campo gara. Prendo la direzione della partenza e mi sento come se fossi a casa: sono stranamente tranquillo ed il silenzio attorno a me mi avvolge come se fossi ancora sotto le coperte. La mia gara procede con calma, ho tempo di finire senza prendermi troppi rischi; basterà trovare i punti, mi dico, ed il primo compare davanti ai miei piedi quando ancora la mantellina color arancione brillante non è ancora stata posata; verso la 2 incrocio proprio i passi del controllore, lungo il recinto, e la 3 è esattamente dove me la aspetto (e dove suggerirò di mandare gli operatori RAI, per riprese dall’alto o dal fianco). Risalgo verso la 4 seguendo i pochi dettagli in mappa (le due radure, il sentierino e la linea di bosco) e poi mi perdo per andare alla 5: temendo di scendere troppo, rimango ad una quota sbagliata e sbarco direttamente sulla 6. Da lì, “picchiata” sulla 5 e risalita (che, purtroppo, mi costa la colazione… vomitata ad ampio spettro e poi ricoperta di foglie per pudicizia). 


Fino alla 10 nessun altro problema: seguo il filo dei sentieri e dei semiaperti ed il punto (ora le mantelline ci sono) mi accoglie come un vecchio amico. Dopo la 11 cerco di spuntare un passaggio lungo la provinciale, ma mannaggia! tutte le auto vanno nella direzione opposta!!! La 12, dopo aver contato tutte le rientranze lungo il sentierino, la faccio bene; per la 13 risalgo sul sentierino (all’incrocio con la canaletta c’è un’altra lanterna… chi è che è arrivato fin quassù per poi fare un punto “bivio canaletta-sentiero”?), resto in quota e poi mi butto giù fino sul limite di vegetazione e all’avvallamento. La 14 è la lanterna “io sono Batman!”, ma a ripensarci non era poi così difficile con il fiumiciattolo accanto (questo non mi esime dall’urlare “io sono Batman!”, tanto alle 9 del mattino non mi sente nessuno) e la 15 è sostanzialmente la madre di tutte le carbonaie. Per la 16 ho almeno tre scelte: nord, nord-est e nord-ovest; scendo sul sentierino a nord-ovest dove posso correre e riprendere fiato “tanto dopo il bivio e dopo il fiumiciattolo sarò sotto la lanterna, a pochi metri”. Si, certo, come no!

Mai che ci sia uno smottamento che faccia venire giù la lanterna, quando ce n’è bisogno! Per risalire alla 16, che vedevo chiaramente, ho incrociato la Madonna, la Signora con la Falce e l’Uomo Ragno, e tutti erano ingobbitissimi e stavano rinunciando ad arrivare fin lassù (io penso sempre che il mio amico Attilio ci dovrà arrivare e fare la mia stessa fatica, quindi non mollo a costo di fermarmi un minuto sulla lanterna a rifiatare e fa sparire i puntini luminosi da davanti agli occhi). Infine il finale, tutto filante e da correre, fino a passare “all’improvviso uno sconosciuto!” dietro alle ragazze dell’IK Prato che ballano per youtube…


Terminata la mia fatica, posso prendermela comoda, almeno per i primi arrivi. Tanto ci penseranno Lia Patschedier ed il trio Truffa-Miki-Seppone ad animare la mia giornata e renderla ancora più memorabile. Ah! Volevo anche dire che l’arrivo del Truffa, vincitore con 2 secondi di vantaggio, mi è costata la voce che è tornata solo dopo un paio di giorni… Ma adesso sono come nuovo; mi aspettano Roma e poi il Lavarone, sperando che Jack Nisi si ricordi della sua gara a Villa Ada quando osò sfidare Gvyldus e Leandersson, e che al Lavarone ci siano ancora tanti arrivi come quelli della due giorni di Belluno: non so voi, a me le coronarie vanno all’impazzata! Ma va benissimo così.

Disavventure maggioline

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Negli ultimi tempi non ho avuto molto tempo\forza\voglia di aggiornare il blog con le mie ultime disavventure orientistiche. Forse perché il tempo è stato davvero poco, forse perché le forze le ho dovute riservare alle più recenti trasferte di lavoro; una di queste, a Madrid, è talmente zeppa di episodi grotteschi che meriterebbe un capitolo a sé stante. Forse anche perché le ultime trasferte a Roma e Lavarone sono state talmente dense di emozioni da lasciarmi senza parole adeguate con cui descriverle; alla fine, se le parole non sono adeguate, il rischio di annacquare il ricordo (e di lasciare frasi poco significative alla imperitura memoria di Google) non compensa la serenità che ancora provo nello scrivere il blog.

Ma a tutto c’è rimedio. A tal proposito, ho scoperto ieri che la stampante dell’ufficio non fa gli scanner soltanto in formato .pdf, che poi sono difficili da mettere sul blog, bisogna fare l’immagine della pagina, metterla in formato .bmp su Office, poi tagliare, convertire… e viene fuori una roba fuori fuoco come i vecchi filmini che vedevo alle elementari. Ho scoperto come si fa a fare lo scanner di una cartina in formato .jpg! Di colpo sono diventato anche io utente 2.0. Alla faccia degli amici che mi chiamano “l’ancora del passato”, ho imparato persino negli ultimi tempi a pagare le bollette e i MAV su internet! Ho imparato a scaricare le app, a mettere le faccine su Facebook e a cambiare la mia immagine nel profilo. Così ho sostituito la vecchia foto dell’arrivo della sprint di Folgaria (quando ero grasso la metà di quanto sono ora) con questa:


Il messaggio della T-shirt è chiaro. Così come lo è anche lo speaker quando dice “la vita è una metafora dell’orienteering” e succede che, accanto al gazebo, lo speaker vede sempre più spesso amici che fanno segno “sì” con la testa. Anche le trasferte di lavoro sono spesso una metafora dell’orienteering, o al più di traducono in una autentica gara di orienteering quando il capo dei gestori dell’area tedesca ti chiede di trovare la sede di una banca in pieno centro di Vienna (nelle viuzze tutto attorno la basilica di Santo Stefano) e mi devo affidare al ricordo di qualche giorno prima quando avevo cercato su GoogleMaps! Come sempre, le persone mi dicono “Ma come? Fai orienteering e non sai andare da lì a là?” (dove “lì” potrebbe essere l’ingresso della metro lungo Maria Hilfer Strasse e “là” il terminal 4 dell’aeroporto di Barajas…). L’unica risposta plausibile è sempre la stessa, ben nota: “a’ bbello! (o anche a’ bbella): se mi davi la mappa facevo prima!”.

Ovunque vado, ovunque sono andato negli ultimi tempi, scopro che il mio approccio agli imprevisti e alle azioni quotidiane è sempre più permeato da pensieri orientistici, come se ormai non ci fosse una reale differenza (se non nel vestito che indosso) tra il Local Business Developer con un portafoglio clienti che copre tutta l’Europa, tutta l’Africa e tutta l’ex Unione Sovietica (poi i miei “pari” delle altre banche dicono “what does it mean local in Italy?”) e lo Stegal che sbraca al microfono per l’arrivo di DallaValle al Nevegal, di Nisi a Villa Ada, di Scalet a Millegrobbe, oppure quello che si mette a piangere per la commozione quando, nell’alba della domenica di Millegrobbe, parte da solo alle 7.20 per la sua avventura in MElite sapendo di godere del privilegio di essere l’unico ad avere tutto per se lo scenario di uno dei più bei posti nel mondo nei quali fare orienteering.

L’età avanza. I chili pure. Gli allenamenti no. La fatica sulle ginocchia si. Chi me lo fa fare? Chi me lo fa fare di strisciare sul terreno, sui gomiti, per raggiungere la lanterna numero 5 del percorso di Villa Ada, su un sentiero inesistente (almeno fino al passaggio del decimo concorrente)? Chi me lo fa fare di cercare la fettuccia appesa alla spalliera di una panchina del parco Palù di Lavarone, sapendo che in una gara avrei visto la lanterna da 30 metri di distanza? Chi me lo fa fare di andare a cercare per la quarta volta la lanterna numero 5 del percorso Elite di Millegrobbe posizionata in una buca, dopo averla mancata per la prima volta (trovata la canaletta con buca una o due curve di livello sotto), la seconda volta (trovata la radice due curve di livello SOPRA… macheccaxxo! La buca che cerco è sulla linea diretta tra quei due punti!), la terza volta (trovata la radice DI FIANCO)? 

Sono nel bosco da solo, potrei andarmene e dire lo stesso che l’ho trovata. Invece resto lì a cercare quella buca, smadonnando contro me stesso e contro quello che ritengo essere una specie di Truman Show, o dicendo cose del tipo “qui c’è qualcuno che sta cercando di farmi fesso!”, imprecando contro il paletto e la base che accoglierà la stazione quando finalmente trovo il punto esatto. Quando, alla fine, compio il gesto di raccogliere una pigna da terra e di appoggiarla sul basamento, in un modo che non si verificherebbe per caso nemmeno su un milione di probabilità, non lo faccio per dare dimostrazione ad altri del mio effettivo passaggio dal punto (nel tempo, i posatori hanno trovato rametti, biglietti da visita, messaggini scritti a penna o con i rami o scavati sul terreno… come in Andalusia dove nessuno ancora mi conosceva).

Lo faccio perché sono io che mi devo convincere che quella particolare cosa l’ho fatta davvero. Se riesco a venire fuori dal bosco, se riesco a trovare quella lanterna numero 5, come potrebbe mettermi in difficoltà uno strano contratto che mi sottopone una controparte della mittel Europa? Occorre solo mettere a fuoco le idee, attaccare il cervello, far funzionare i neuroni e risolvere il problema...

Il blog, in questo, mi aiuta a fissare nella memoria le emozioni, le sensazioni, le fatiche; anche se non potrò mai scrivere che stavo correndo a 4 minuti al chilometro o che ero in testa al campionato italiano! Sto scoprendo anche , a distanza di tanti anni dall’apertura del blog, episodi curiosi come quello di un amico che mi spiega che aveva assistito all’ultimo concerto di Ligabue a Campo Volo, che era stato il giorno tal dei tali; se qualcuno della compagnia chiede come fa a ricordarsi il giorno esatto, la risposta è questa: “semplice: sono andato a vedere sul blog di Galletti quali gare c’erano state in quel periodo… la gara che non ho fatto corrisponde alla data in cui ero andato al concerto del Liga”.

Tracce di un passaggio. Sono quelle che io, all’alba, non trovo mai; anche se talvolta mi convinco che quella piccola linea in un prato o nel muschio può essere stata lasciata dai piedi di un Tait, o di un Cristellon, o di un Pezzé (Lavarone-Millegrobbe) o di un Mariani, o di una Manganelli (Rome O-Meeting). 

Nel corso del tempo ho lasciato più tracce di quante io ne abbia mai seguite: mi chiedo se sia stato così anche nella mia vita. 

Mi piacerebbe scoprire che è così.



(il passaggio sotto la cascata, al Parco Lago Nord di Paderno Dugnano)


(Premiazioni al Rome O-Meeting:
quello con il microfono è un grande speaker!
quello in bianco è solo un "grosso" speaker...)


(la mia gamba dopo la gara a Villa Ada... 
Perchè lo faccio? Forse perchè al lavoro non devo indossare un tailleur!)


(dal sito di Alessio Tenani, la carta degli italiani Middle di Millegrobbe:
ne ho fatte di ogni alla 5, ho girato più largo - ovest poi nord - alla 17, ma per il resto siamo lì)


(un altro posto "unico al mondo": il verde 2 in un centro storico. 
Ma l'anno prossimo i nordici dovranno saperlo prima...
non "rimanere shockati"!)

Buio a mezzogiorno: epic-O orienteering a Marzio

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Gli oroscopi. Mai una volta che ci azzecchino! Nel gennaio scorso la fattucchiera di Brera che ad ogni inizio anno mi legge le carte (cuori quadri picche fiori, mica Brughiera Sud, Dosso di Taverne e Bosco del Cansiglio!) se ne era uscita con la seguente previsione: “A metà giugno affronterai un percorso lungo e difficile, sarai al buio e al freddo e nel fango fino alle orecchie, vestendo i colori di una squadra esotica”.

Ok. Che la fattucchiera ci azzecchi poco, dovrei sempre tenerlo in considerazione da quella volta che mi disse che un giorno mi avrebbero incoronato Duca di Parma… Però questa faccenda del buio, del freddo, del percorso lungo e difficile e della squadra straniera continuava a ronzarmi nella testa; finché ad un certo momento tutto è diventato chiaro: Jukola! Sicuro, non poteva che essere così: qualcuno mi avrebbe chiamato per correre la Jukola! Un Kalevan Rasti, un Halden SK… magari un Lillomarka visto che ho già la maglia! Magari nel regolamento della Jukola c’è scritto che se una squadra si trova all’ultimissimo momento senza un corridore, può ricorrere allo speaker.

Certo, chi avesse scritto ‘sta cosa, avrebbe sicuramente pensato a Per Forsberg! Ma io già mi vedevo la scena “Excusez-moi monsieur Sgiorsgiù! Do you pensez vraiment que je vous laisse gagner? Mais emportez moi pour tous les seize… dixsept… quelles que voulez chilomètres! Je fè la volat… le volaton… le vol au vent avec vous!!!”. Quindi Jukola! Oh che bello oh che bello oh che… ma un momento! Perché quando mancava solo una settimana alla Jukola, nessuno mi aveva ancora chiamato? Possibile che non ci sia stata uno straccio, una parvenza, uno squallore di squadra della Jukola che non aveva bisogno dei servigi di un impiegato panzottello nemmeno per la frazione più corta, quella che si corre attorno al prato dove stanno le tende delle squadre?

Solo che io ormai avevo fatto la borsa per la Jukola. Ci avevo messo dentro 4 top e 4 pantaloni, due paia di scarpe, magliette mutande e calze come se dovessi andare al Polo Nord a piedi, lo smanicato dell’OK Bovec, il training dell’AGET, avevo caricato l’IPOD con tutte le canzoni che mi danno la carica… e quindi qualcosa dovevo fare! Rapida consultazione del calendario, ed il dito cade sulla gara di Marzio del 15 giugno: un TMOTL, che non è Paperoga che cerca di sputare il nocciolino andato di traverso, ma una gara del TMO ticinese valida anche per la classifica del Trofeo Lombardia. Marzio sta in Italia, in fondo alla Val Ganna varesotta prima del valico di Ponte Tresa, quindi ci si può arrivare senza dover comprare il bollino autostradale e senza nemmeno svegliarsi all’alba. Non ci sarebbe stato il buio ed il freddo e nemmeno la maglia della squadra esotica, e nemmeno Thierry da prendere per i fondelli, ma tant’è… almeno avrei avuto la mia razione di bussola e bricchetto sotto la terribile caldazza estiva, vestito con i consueti colori dell’AGET o dell’UL, e avrei condiviso le fatiche con il mio amico Sbrambi.

Che poi tutto il male non viene per nuocere: ancora una volta avrei incrociato i miei passi con il percorso di Guido Macconi, che l’anno scorso tanto mi era piaciuto a Cunardo. E Cunardo non è poi così lontana da Marzio (sta sull’altro lato del versante, rispetto alla Val Ganna), quindi il bosco sarebbe stato praticabile e non il solito terrificante costone made in Canton Ticino! Quindi, si dai!, ma chissenefrega della Jukola, della fattucchiera di Brera, del buio, del freddo, del fango e della squadra esotica. Mi iscrivo addirittura in HAL (che sarebbe sempre l’Elite ticinese), tanto sarà una middle e chissenefrega-2-la-vendetta se sull’unico blog ormai rimasto in Italia mi pigliano tutti in giro perché con il mio peso, la mia velocità e la mia età dovrei fare la H45 e non la HAL. Ovviamente c’era un OTTIMO motivo per non fare la H45: dato che la gara è un “TMOTL”, l’abbinamento della H45 lombarda con la pari categoria ticinese dava come risultato “H50”! Ed io già mi vedevo quel simpaticone di Marco Giovannini prendermi per il sedere dicendomi che finalmente ero andato in fuga e che ormai potevo solo gareggiare lì… con i vari Guglielmetti, Anuchkin e Tettamanti (peraltro)!!!

Piccolo inciso. Nel corso della settimana lavorativa appena trascorsa, ho dovuto prendere delle decisioni un po’ drastiche nei confronti di alcune controparti con cui mi relaziono quotidianamente... Al solito scopo, quindi, di fare un po’ la pace almeno con una di queste, ho deciso di correre la mia HAL sotto la caldazza con la maglia turchese (lo stesso colore dell’AGET, ma appena più scuro) sponsorizzata dagli sloveni di Banka Koper. Così, ho pensato, faccio una bella foto con la maglia del mio cliente, gliela mando e faccio vedere che la indosso… anzi: faccio anche la foto con una atleta della nazionale slovena ai prossimi mondiali! Così sono contenti, capiscono che se tiro loro una sòla non lo faccio perché li odio ma solo perché business is business… e torniamo ad essere amici come prima:


(io, la maglia di Banka Koper e la nazionale slovena)

Nel frattempo è ora di andare in partenza. Sulla zona di Marzio cominciano ad addensarsi alcune nubi temporalesche, ma io sono invero più preoccupato per il fatto che la gara non è per un “cavolo” middle, come speravo, ma è una bella distanza classica ticinese da 6,7+340… che io nelle mie condizioni come li faccio 6,7+340??? Solo Guido Macconi mi può salvare! Piccolo particolare: non è Guido che traccia! Quest’anno funge da controllore (che in Svizzera vuol dire farsi il doppio o il triplo del fondello che si fa il tracciatore: in Svizzera è il controllore che deve controllare tutto!), e quindi io sono praticamente rovinato. Da quel momento in poi, e sono le 10.36 e sto partendo per la mia avventura, succedono una serie di cose che ancora adesso non riesco a capire bene:


Tratta 1-4: già alla partenza non capisco bene dove andare, e mi tocca orientare la bussola per capire quale dei sentieri è quello che porta a nord del punto 1, da dove voglio attaccare il punto; così intanto vedo anche dove mi dovrò buttare giù per la 2 e da dove vorrò risalire per andare alla 4. Tutto ok, ma il problema, andando alla 4, è che il bosco è fitto e le chiome degli alberi coprono tutto, e quelle nubi sono talmente gonfie d’acqua e di temporale che tutto attorno a me sta diventando scuro come il culo della marmotta! Giuro: un buio così non lo vedevo (e non si vede una autentica cippa!) dai tempi della mia partenza “speaker-time” all’Arge Alp di Pietralba-Weissenstein. Solo che quella volta era l’alba di una mattina di fine ottobre, e qui invece sono quasi a mezzogiorno del 14 giugno!!! Con il buio che c’è, faccio una fatica del diavolo a capire che la roccia ai piedi della quale c’è il punto 4 NON E’ il naturale proseguimento del sentiero, il cui tratteggio nero (bastardo!) passa proprio sotto il cerchietto magenta.

Tratta 5-8: più che buio, hanno veramente spento la luce in sala ma si sono dimenticati di far partire il film. Oppure stamattina mi sono dimenticato di togliermi la fascia sugli occhi con la quale dormo da 25 anni! Lungo il sentiero che mi avvicina alla 5 vengo superato da Caia Maddalena, che poi ritrovo proprio sul punto in compagnia di Irene Pozzebon; nel frattempo, lungo il sentiero ed anche dopo, “cani e porci” cominciano a chiedermi dove siamo e se ho visto la lanterna tal dei tali… il che fornisce una idea del fatto che siamo veramente in condizioni di visibilità da sospensione del match, altro che i riflettori di Milan-OL Marsiglia! Per andare alla 6, il piano di battaglia è del tipo “sono mica scemo!”: costa fino al sentiero, destra poi nord, si attacca il verdone dal mega-sasso lungo il giallino e poi in bussola ci cade addosso al punto. Almeno… Thierry avrebbe fatto così! (no, col cavolo: Thierry sarebbe andato dritto). Il fatto che al “mega-sasso” ci sia un FORTISSIMO atleta ticinese che mi chiede dove siamo e, alla mia risposta, prosegue lungo il sentiero per attaccare la 6 da nord non mi fa desistere dal mio piano. Infatti finisco per razzolare a caso nel verdone. Vengo raggiunto da Kristian con il quale razzolo ancora per un po’, finché uno di noi due (quello più impiegatizio) finisce per scorgere nel buio totale quella che sembra una lanterna: credo che nessuno di noi si soffermi più di tanto a controllare il codice, perché se qualcuno è stato talmente sadico da piazzare DUE lanterne in questo inferno… Kristian scompare a tutta velocità, ma ci rivediamo poi attorno alla 7 (e poi all’arrivo). La 8 la attacco dalla traccia: si, quella sbagliata! Non quella che va in direzione nord-sud e che poi diventa canaletta, bensì quella di fianco; me ne accorgo nel buio pesto perché mi sembra di andare verso sud-ovest e raddrizzo il mio orienteering prima di ritrovarmi ancora al “mega-sasso” di cui sopra!

Nel frattempo, ladies and gentleman, ha cominciato a piovere. Ma non una cosa tipo “I’m singing in the rain” o “Le gocce cadono ma che fa…”. No. Viene proprio giù un monsone equinoziale! Gli occhiali già da 4 lanterne stanno in mano, sotto la cartina, tanto sono inservibili. Dalla 8 alla 9 il calcolo delle curve di livello che si elevano davanti a me è il risultato di una serie numerica divergente, ma come spesso capita in Ticino (per fortuna) e come spessissimo capita quando organizza l’Unitas Malcantone, la squadra del mio amicone Stefano Bettelini, c’è il trucco: si torna verso il sentiero del “mega-sasso”, si scende verso la 5, si gira tutto il costone fino alla strada asfaltata e da lì per arrivare alla 9 bisogna solo salire quelle 8 curve di livello nel buio più orrendo che ci sia, che faccio persino fatica a vedere i miei piedi! I sentieri, è vero, sono diventati un tantinello fangosi… Alla 10 ci si arriva praticamente dritti. Dritti con l’orientamento e dritti con i capelli sulla testa ed i peli sulle braccia, perché Giove Pluvio sta tirando sulle nostre zucche (malate!) tutto il repertorio di tuoni, fulmini, saette, lampi e ogni possibile cosa che si sente fare ZZZZINNNNGGG! con un lampo che rischiara per qualche attimo il bosco e poi, a distanza di uno-due secondi al massimo, un fragoroso BOOOOOMMMM!!!

Non so se è la fifa o la discesa, ma per arrivare alla 11 corro a rotta di collo persino io! Intanto Giove sta aggiustando la mira… La 12 la attacco da sotto, cioè da est. Quando sono a 50 metri dal punto, il monsone diventa una roba da piegare le schiene più dritte! E’ come cercare di andare avanti con qualcuno dietro che ti ammolla dei colpi sulla schiena con un asciugamano fradicio. Solo perché sono Mr. Speaker riesco a percepire dal modo in cui corre che l’atleta che sta tre metri alla mia destra è Francesco Magenes, il neo-convocato nella nazionale italiana per gli EYOC (congratulazioni Franz!!!), ma non arrivo nemmeno a scorgere i lineamenti della sagoma che sta altri tre metri più in là. Rimpiango di non essermi portato la frontale (che non ho), l’antipioggia, uno scafandro! Ogni goccia d’acqua che cade sembra pesare mezzo chilo, ma la 13 è abbordabile, la 14 ancora di più in un tratto di bosco meraviglioso, la 15 è difficile solo perché il bosco è nero più nero della pece e solo i lampi riescono a rischiarare la zona.

Quando trovo la 15, penso che la mia gara sia finita. Invece dovrei sapere, io che ho vinto un TMO a Monte San  Giorgio tra la 100, quando ero quarto!, e l’arrivo perché la tratta non era fettucciata e tre miei avversari di sono persi in quei 400 metri di bosco per arrivare al traguardo, che la gara è finita solo quando stazione di finish dice Bip! (da pronunciare alla Vujadin Boskov). La 16 me la aspetto nel bosco bianco PRIMA della discesa negli inferi ed invece (complice il buio, la fatica e la sgaggia di tutti i fulmini che cadono attorno a me) il sasso è appena nascosto dalle prime propaggini di bosco fitto e devo attaccare il punto 3 volte prima di trovarlo (5 minuti persi). Per la 17, dovrei sapere che nelle mie condizioni è meglio salire al sentiero ed attaccare dai sassi: invece cerco di andare dritto e finisco lungo fino alla carbonaia sopra il fiume (altri 5 minuti persi). Riesco a dare le ultime indicazioni di giornata in prossimità della carbonaia, con annessa lanterna, che sta sulla linea verso la 18 ma pago subito il mio gesto caritatevole cadendo rovinosamente nel fango del sentiero. Però arrivo al traguardo festante: trovo Guido Macconi e non mi pare vero di aver completato il percorso in un tempo che non è nemmeno di tanti minuti superiore ai penultimi della classifica. Ho fatto tutto da solo, mi sono divertito un sacco, ho giocato con l’acqua ed il fango come quando ero bambino e posso fare tante pernacchie a Giove Pluvio ed al suo temporale.


(foto by Mariano Maistrello, 
sempre per la faccenda "spero che Banka Koper mi voglia ancora bene")

Solo di una cosa, però, mi sono reso conto lungo la strada che da Marzio mi riportava a Milano: buio pesto, freddo, fango, un percorso ai limiti delle mie possibilità, una maglia di una squadra esotica... Possibile, mi chiedo, che le parole della fattucchiera di Brera non avessero mai voluto significare “Jukola”? Sono quasi tentato di crederci… ma per averne la certezza dovrà aspettare ancora due mesi.Perché la fattucchiera ha fatto un’altra predizione, ed io dovrò mettercela davvero tutta per rispettare il suo pronostico!

Tornando a casa

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Vorrei saper scrivere, meglio di come lo farò, tutte le sensazioni che scopro in fondo al mio cuore ogni volta che posso aprire quel cassetto nel quale custodisco il file “casa.txt”. Casa è dove torno a percepire forte quel senso di sicurezza e di confortevolezza che vorrei non mi abbandonasse mai; casa è il luogo fisico nel quale non vi è quasi accesso alle preoccupazioni quotidiane; casa è quel posto nel quale ogni pietra, ogni angolo di una strada, ogni buca e cespuglio lungo le vie stappano la bottiglia dei ricordi (belli o brutti che siano) e non vi è un solo attimo della giornata che io non sia in grado di vivere appieno. Credo che ogni persona, anche coloro che sono ormai cittadini del mondo, globetrotters del pianeta Terra, figli degli scali aeroportuali e delle stazioni ferroviarie, abbiano in fondo al cuore un posto come questo. O, almeno, io spero che lo abbiano. Non ricordo se lo ha detto Luca Goldoni o Beppe Severgnini, e non ho voglia di andare a cercare la fonte: casa è un luogo che talvolta è talmente ampio da farci passare anche una strada provinciale, è dove si comincia a slacciare la cintura di sicurezza anche se si sta ancora guidando.

Casa, per me, è Coredo. Val di Non. Il luogo nel quale tante sliding doors che ho affrontato nel corso della mia vita hanno contribuito a dirigere i miei passi nell’una o nell’altra direzione. Posso attraversare Coredo e rivedere il bambino che accompagnava suo padre nelle giornate durante le quali papà doveva scegliere se buttarsi e aprire una pizzeria a Coredo oppure se tornare a Milano per seguire il negozio in Corso San Gottardo. Posso passare davanti alla stazioncina di Dermulo (là dove “passa anche una strada provinciale”) e ritrovare lo Stefano che ha già in mano un biglietto per l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige o per il Liceo Classico di Milano (per la serie “poche idee, ma ben confuse”). Posso passare davanti al campo di basket nel bosco di Coredo… a proposito: quanto dovrò aspettare perché me lo dedichino? Nessuno al mondo ci ha passato più tempo di quanto ce ne ho passato io!!! Dicevo… davanti al campo di basket nel bosco di Coredo e ripensare a certe giornate di agosto nelle quali potevo scegliere se andare ad allenarmi due volte al giorno, dalle 10 alle 12 e dalle 15.30 alle 18.30, per affinare il ball handling ed i movimenti in post basso, oppure andare ai Sette Larici per vedere con i miei occhi che cosa diavolo fosse quel gioco di cui parlava un volantino che compariva nella bacheca della Proloco (oggi sarebbe APT) ogni agosto: “Corso di orienteering”. La firma era di una certa signora Cavini.


Nonostante, fin da ragazzo, io fossi stato tentato da questa cosa di cui potevo solo vagamente immaginare i contorni e le possibilità, alla fine restavo a gironzolare con il mio pallone nei paraggi del campo da basket. Tutto quell’allenarmi avrebbe alla fine dato qualche frutto; Dido Guerrieri, l’allenatore della Berloni Torino, raccomandava sempre alle sue ali di non lasciarmi sgusciare nell’ultimo mezzo metro di campo, dietro il canestro, perché nonostante l’assurdità della posizione io da lì avrei creato solo guai… E se io, invece, fossi andato ai Sette Larici? Avrei potuto diventare il nuovo Michele Tavernaro? Un altro Stefano Maddalena? Un antesignano di Jonas Rass? Secondo quanto è successo nell’ultimo fine settimana a Coredo, la risposta è si. Ne sono convinto perché mentre sabato pomeriggio ero intento a risalire, senza alcuno sforzo apparente, la ripida salita che dal lago porta alla Madonnina delle Nevi, una sagoma alta ed occhialuta è sembrata avvicinarsi a me lungo il sentiero. Forse è successo in un momento nel quale gli universi paralleli sono giunti ad incrociarsi: quella sagoma che si avvicinava ero io, era quell’io che aveva lasciato il basket in età giovanile, prima di giocare una finale di Campionato Italiano ed una di Coppa Europa; ero io, che ero diventato un orientista, con un sacco di vittorie alle spalle ed un presente da primattore nelle categorie master. 

Il dialogo tra StElite e SteScars che è venuto fuori in quell’istante nel quale i due universi paralleli si sono toccati è stato più o meno questo:

StElite: “SteScars! Cosa ci fai qui? Sei tornato a casa finalmente… come vanno le tue gare di orienteering?”
SteScars: “Vanno bene, StElite! Anche oggi mi sono divertito un sacco alle Regole di Malosco…”
StElite: “Bene! Allora vuol dire che hai vinto?”
SteScars: “No… però mi sono divertito… è stata una bella gara, in un posto meraviglioso, un bosco come ce ne sono pochi in tutta Italia. E poi c’erano un sacco di amici attorno a me”
StElite: “Fammi capire… come fai a dire che ti sei divertito se non hai vinto?”
SteScars: “Fammi capire tu… Se vinci, allora è divertente? E se non vinci, allora non è divertente?”
StElite: “Certo. Non è così per tutti? Lo è di sicuro per la maggior parte dei Master che conosco! Cosa vuoi che ci interessi del posto in cui corriamo, del clima, della compagnia… alla fine della giornata noi andiamo a vedere il risultato, la posizione in classifica, ed è quella a definire se la giornata è stata divertente o no. Quella ed ovviamente il premio che portiamo a casa per far capire quanto siamo stati bravi, che sia anche solo una bottiglia di vino o un salame… il premio e poi l’invidia di tutti quelli che abbiamo battuto!”
SteScars: “Sarà per questo che gli autogrill lungo le strade del ritorno sono sempre frequentati da qualche orientista che deve rimediare alla sconfitta… e sarà per questo che io preferisco correre ancora la categoria più lunga che riesco a fare… sicuramente troverò il mio nome nell’ultima riga della classifica, ma di sicuro non corro il rischio di dover cercare le lanterne all’incrocio di qualche sentiero, o accanto all’unico albero in mezzo ad un prato. So che ogni punto sarà una conquista, ma mi diverto di più. Però è incredibile: siamo la stessa persona ed abbiamo due modi di vedere le cose così differenti. Non pensi che ti divertiresti di più ad accettare una sfida più difficile, anche a costo di non primeggiare?”
StElite: “Stai scherzando? Meglio essere il primo nella mia categoria, anche se il mio percorso è abbinato alle W14, che andare a fare la parte di quello a metà classifica in una categoria più difficile. E comunque ricorda che io, StElite, ti batterei lo stesso!”
SteScars: “Certo, ma io mi divertirei di più. Prima che i nostri universi paralleli si separino, mi dici cosa pensi di fare nei prossimi 10 anni?”
StElite: “10 anni vuol dire 40 campionati italiani. Se non ne avrò vinti almeno 10, allora avrò sprecato un sacco di tempo e non mi sarò divertito affatto. E tu?”
SteScars: “Beh! Considerato le patacche che hai già vinto e quelle che pensi di vincere ancora, penso che un giorno potresti fonderle e ricavarci almeno il fusto di un cannone. Ma se sei contento così… Io continuerò a cercare di correre la gara più lunga che potrò, almeno finché riuscirò a farmi mettere in partenza presto o correre all’alba. DI sicuro non vincerò mai nulla, ma continuo a pensare che quando ci rivedremo tra 10 anni a casa, a Coredo, io sarò quello che a conti fatti si sarà divertito di più!”

A quel'punto siamo arrivati in cima alla salita, all'altezza della Madonnina delle Nevi, ed i due universi si sono separati di nuovo...

*** ***

Le gare, alle quali io (SteScars) ed un altro io del tutto immaginario fanno riferimento, non compaiono su alcun calendario FISO o regionale. Le classifiche, se ci sono, sono su qualche pc. Non sono stati assegnati punti in lista base (horribile dictu) o titoli di alcun tipo. Ma le ricorderò molto, molto a lungo… e non solo perché in una di queste ho avuto il privilegio di poter battere l’amico Zonori! (si, ok, nelle altre due me le ha suonate di santa ragione… ma una volta tanto sono riuscito a mettere il mio chip davanti al suo, scusa Stefano!).


La prima gara la abbiamo corsa alle Regole di Malosco, nella parte bassa della carta del Penegal con arrivo sulla conca del Falchetto; quella carta che una certa Minna Kauppi mi ha descritto personalmente alcuni anni fa come “il suo incubo peggiore”. La seconda gara l’abbiamo fatta a Coredo, proprio a casa mia, con l’ottavo punto di controllo SOTTO casa dove stanno i miei genitori e passaggio sotto il loro balcone. La terza gara, e scusatemi per l’invidia che state provando, è stata domenica mattina ai Sette Larici, o per meglio dire nella zona di bosco a monte degli impianti sportivi di Smarano. I miei amici ticinesi dell’AGET Lugano, mentre snocciolavo le cartine, si sono leccati i baffi… perché loro sanno, perché loro capiscono la differenza tra un bosco normale ed i boschi della Val di Non.

Tutto quanto è successo nello scorso fine settimana è un regalo che Alberto Zambiasi ha voluto fare alla crew di volontari che avevano collaborato alla realizzazione delle 5 giorni della Val di Non, quella del 1998 e quella del 2005. Sul prato del Falchetto, ho rivisto Janos e Karel e Walter, Claudio e Renzo ed Emilio, e tanti altri che sono venuti (affrontando alcuni un viaggio lunghissimo) per rendere omaggio a due competizioni internazionali che, in varia misura, hanno cambiato la percezione dell’Italia nel panorama orientistico mondiale. Io ovviamente so che, toccando l’argomento “Alberto Zambiasi”, si rischia di far venire fuori due schieramenti contrapposti di guelfi e ghibellini, ognuno con la propria idea in proposito di cosa questo amico di Taio abbia rappresentato per l’orienteering italiano. Ma quando si raccontano le storie sull’orienteering italiano, le campane andrebbero sempre ascoltate tutte e due…


Sabato mattina, sul prato del Falchetto inondato dal sole, con l’erba appena tagliata che non sembrava aspettare altro di essere percorsa da una trentina di amici orientisti, ho rivisto Alberto comparire con gli stivali ai piedi, con i paletti e le lanterne in una mano, con lo stesso sguardo vivo e sincero con il quale lo avevo visto l’ultima volta. Ci ha ringraziato per essere venuti in Val di Non per la sua festa, che coincideva con il decimo anniversario della seconda edizione della 5 giorni, ma soprattutto con il suo 45° anniversario di matrimonio.

Non sapeva, Alberto, che il regalo non lo avevamo fatto noi a lui, ma lo stava facendo lui a noi

GRAZIE ALBERTO!


Garette Estive. Capitolo 1: O-Ringen (prima parte)

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Bisogna che qua ci diamo una mossa. Bisogna che IO mi dia una mossa! Da oltre confine di Brogeda arrivano infatti richieste perentorie di notizie sulLa Gara Dell’Anno appena disputata, ma la cronologia del blog mi impone di riprendere la narrazione estiva da dove la avevo lasciata, andando a riprendere anche il filo di quelle garette minori che fanno da riempitivo tra una gara regionale e l’altra. Insomma, proprio come il blogger più famoso d’Italiaquando scrive delle gare del CSI tra una Trans d’Havet e l’altra. O come la ex orientista più famosa d’Italia quando si accorge di non poter vivere senza una bussola ed una cartina…

Capitolo 1. O-Ringen. Da leggersi con quella faccia un po’ così quell'espressione un po’ così che abbiamo noi che andiamo in Svezia per la sesta volta (la terza negli ultimi quattro anni) e ci troviamo di fronte senza preavviso 20.000 (ventimila) persone. Ventimila calcolate alla svedese, cioè ventimila teste cada-giorno; non ventimila calcolate alla (purtroppo) italiana, cioè contando tutte le estremità (4 o 5 a seconda del genere) di tutti coloro che moltiplicato per tutti i giorni di gara hanno anche soltanto sentito parlare dell’esistenza di una gara.  Ventimila è un numero che fa sempre un certo effetto, il solito porco incredibile meraviglioso e sublime effetto! Anche perché poi il tutto rimane collocato in uno scenario che, paradossalmente, fa sembrare le cose come se fossero tutte “a misura d’uomo”. E se nelle due edizioni passate del 2012 e del 2014 avevamo potuto cogliere qualche sbavatura organizzativa in un paio di aspetti logistici, l’edizione 2015 rimane per me un perfetto esempio organizzativo dalla A alla Z, anzi dalla A fino a quelle vocali strampalate dell’alfabeto svedese con i pallini in cima e che seguono la Z nell’ordine alfabetico. 

Non abbiamo vissuto la situazione paradossale della prima tappa del 2012, con i chilometri di coda per entrare nei parcheggi per via del “pedaggio” che pochissimi avevano versato in anticipo; non abbiamo subìto la situazione al limite del “disorganizzato pesante” dell’ultima tappa 2014 quando il parcheggio era in fondo ad una zona tipo imbuto, con code in entrata ed in uscita da apocalisse autostradale ferragostana. E’ andato tutto, incredibilmente ma nemmeno troppo, liscissimo a cominciare dal ritiro dei pettorali al sabato, quando i 20.000 iscritti sono stati gestiti in tempi rapidissimi da un numero di addetti paragonabile a quello che svolge lo stesso compito nelle nostre gare regionali… che però hanno uno “00” di iscritti in meno!

La prima tappa, domenica, è come noto la più dura di tutte. Lo è perché è l’impatto dell’impiegato panzottello con il terreno svedese della West Coast, con le paludi, le colline rocciose, i massi enormi che non sono segnati perché non sono orientisticamente rilevanti oppure sono segnati come cocuzzoli perché in cima ci è cresciuta un po’ di vegetazione. 

Lo è perché, peccando come sempre di scarsa lungimiranza, sono iscritto in H45… non Kort, non Motion. La H45 vera! Alcuni amici locali, che mi conoscono e che mi salutano, chiedono la categoria. 
“H45” rispondo. 
“Ah… Kort, vero?” 
“No”. 
“Ah… allora Motion, vero?”. 
“No. H45, H45 e basta. E tu?” 
“Ah… io H45 Kort (o Motion…)! La H45 è troppo dura!”. 

E si tratta sempre amici che, nello scontro diretto, mi rifilerebbero 30 minuti di distacco a botta, e che in H45 Kort\Motion arrivano comunque nella parte medio\bassa della classifica.

Quando arriva il mio minuto di partenza, domenica, sento il bip bip bip… biiiiip! che mi manda nel bosco, giro la carta e mi viene un triplo infarto carpiato. La carta è questa “cosa” qua…


Una carta ed un percorso che non corrispondono a nulla di lontanamente paragonabile a ciò che faccio in Italia. Apparentemente, la carta è pubblicizzata come un terreno nel quale è possibile tracciare una linea retta di dimensioni “Rocco Siffredi” senza mai incontrare un sentiero. Sentieri no, ma paludi tantine. Con mio sommo dispiacere, quando arrivo al triangolo rosso di partenza il gruppetto di master partito al mio minuto tira dritto verso nord. Io il mio punto ce l’ho ad ovest… Mi armo di bussola e, arrampicandomi con le mani, scavallo la parete di roccia davanti a me, salgo in cima alla collina e scendo dall’altra parte…

SCIAFF!

Prima lezione di paludismo applicato.

Le paludi svedesi della West Coast sono diverse da quelle che si incontrano alle nostre latitudini, diciamo per fare un esempio in Alto Adige, carta di Nova Ponente. Ma forse è meglio fare un esempio pratico… Quando l’impiegato panzottello affronta la palude nostrana, il rumore di sottofondo (lasciando perdere i vari PANT! e PUFF!) è il seguente: pat pat pat pat pash pash pash PASH PASH! POSH! POSH! PASH! Pash pat pat pat… 

Spiegazione per i meno avvezzi: l’impiegato panzottello arriva corricchiando (pat pat pat) su un terreno abbastanza solido, comincia ad incontrare qualcosa di bagnato (pash) che si dimostra essere una palude dapprima compatta e di profondità quasi nulla (PASH), poi di minima profondità (PASH!), poi di media profondità (POSH!) e infine si torna al pat pat pat iniziale, fino alla palude successiva.

Il rumore della palude svedese è il seguente: drip drip drip sciaff! sciaff! SCIOFF! CIUFF!!! 

Segue qualche secondo di silenzio, rotto solo dalle imprecazioni. Ri-spiegazione per i meno avvezzi: l’impiegato panzottello arriva slittando e scivolando come Bambi sul ghiaccio (drip drip drip) lungo la discesa rocciosa; quando crede che cominci il pianetto, in realtà mette già il piede in mezzo metro d’acqua torbida, fangosa e puzzolente (sciaff!). Cerca di andare avanti di qualche passo mentre attorno a lui finnici, norgici e svedici volano sulle acque, ma presto deve cominciare a mulinare le bracciavorticosamente per mantenere una andatura peraltro penosa (SCIOFF!); la forza necessaria per andare avanti è pari a 3 Hulk, ma grazie alla prorompente azione delle braccia il baricentro rimane ancora tra i due piedi. 

Qualche passo dopo, nemmeno il mulinare di una pala eolica è più sufficiente! I 10 Hulk necessari per andare avanti non sono nel motore dell'impiegato panzottello, la testa ed il tronco (e la pancia) si spostano in avanti rispetto ai piedi, finché il baricentro finisce troppo in avanti rispetto a questi ultimi. Finale prevedibile: CIUFF! I nordici attorno alzano le palette con i voti per il tuffo (Greg Louganis è un dilettante) e se ne vanno via veloci come il vento senza sentire le imprecazioni.

Prima palude, primo CIUFF! Il tutto avrebbe pure rischiato di essere immortalato sul nuovo gadget del team GOK: una telecamera frontale di cui sono stato dotato fin dalla prima tappa. Purtroppo la mia imperizia proverbiale con tutto ciò che esiste di tecnologico ha fatto sì che non sono disponibili immagini della mia prima tappa (ma dalla seconda ci sono eccome!). 

La telecamerina ha svolto un ruolo fondamentale nello svolgimento della mia O-Ringen, perché il fatto di immortalare la gara avrebbe consentito ad amici e detrattori di profondersi in commenti sarcastici sui miei evidenti errori tecnici di orientamento. Il mantra che mi ha accompagnato per la prima ora di gara, quindi, è stato: non fare caxxate che poi gli altri rideranno di te! Una imprevista conseguenza è che fino alla quinta lanterna compresa, ho fatto la gara orientisticamente perfettadell’anno!

“Scusa… vuoi dirci che hai trovato la 1 subito in quel frattale di rocce?”. SI.
“Vuoi dire che la 2 l’hai tirata come...” Come Sgiorsgiù!
“E la 3 in fondo a quel puttanaio di paludi e collinette?” Sotto la linea rossa! Come la 4. E la 5 attorno alla palude e poi al punto come se fossi all’aiuola sotto casa!

Purtroppo, dopo la cinquina, si fa presto a fare tombola! La 6, come buona parte del mondo, la affronto da nord, dal sentiero con i benedetti ristori.  Sarebbe facile dire che dal penultimo ristoro prima della 7 si viene giù dritti a sud, si prende l’attraversamento fettucciato  “)(“ e si risale la collina fino al punto… Arrivo invece a dire in questo momento del racconto che obiezioni del tipo “bastava fare così e cosà” sono valide solo se dette da chi era lì in quel posto a fare le stesse cose. 

Dal divano di casa e all’asciutto, non vale! (“Eh! Gara facile… Bastava seguire le paludi!” me lo dice solo Attilio che ha fatto la stessa gara e che è riuscito non so come a seguire effettivamente le paludi!). Il gruppone che si compatta al rifornimento, omini done veci e putèi, scende verso sud ma rimbalza sulla vegetazione dura ed attraversa la palude in corrispondenza di un ponticello di pietra che sarebbe arduo anche per il Cirque du Soleil, però è fettucciato anch’esso! Essendo per l’appunto fettucciato, siamo tutti convinti di essere passati proprio dove volevamo (le bussole in quel momento le avevamo tutti impegnate al mercatino delle pulci…). Si finisce così per andare per qualche minuto, tutti insieme, su e giù per le isolette che sembrano tanto quelle del Mar di Giava nel sud est asiatico. 

Le curve di livello non tornano tanto, ma il ponticello fettucciato l’abbiamo attraversato! Ci sono anche dei ragazzi che continuano imperterriti a tornare alle fettucce del ponticello per fare il punto, ma della lanterna nessuna traccia (e siamo lì almeno in 15 a cercarla). Dopo qualche minuto, un finnico targato Tampere Pyrinto, alto e pelato, comincia a sbroccare in inglese che la lanterna non c’è più e l’hanno portata via (all’O-Ringen? E’ più probabile che all’arrivo trovo Victoria Silvstedt che mi invita ad una notte di follie!). Lo dice in inglese per farsi capire bene da tutti: il finlandese ormai lo parla solo Zonato! Tra gli sguardi di disapprovazione degli astanti che continuano a cercare, mi si accende improvvisamente il cervello e scopro che forse quel pixel nero in mappa è un ponticello e siamo passati da lì. Affronto il finnico e lo prendo letteralmente per il bavero della maglietta rossa: se la smette di far casino lo porto io al punto! Mi segue poco convinto, ma quando attraversiamo la palude e sbarchiamo sulla collina giusta, urla che ho ragione e mette il turbo, allontanandosi per sempre dalle mie manidalla mia vista.

Dopo lo scampato disastro, la gara si chiuderebbe anche senza infamia e senza lode anche se con tanta fatica. Purtroppo, nella tratta 8-9, ad un centinaio di metri dal punto è in agguato la madre di tutte le paludi… io arrivo in bussola un po' deconcentrato, giro attorno ad un cespuglio e non mi accorgo della presenza (in mappa) del segno che indica che lì è proprio profon… 

SBATACIUFFFFF!!!!

Dentro fino alle spalle! Non riesco quasi a muovermi ed ho per un istante la visione del sottoscritto nei panni del cattivo di turno del fumetto di Tex Willer che finisce ingoiato dalle sabbie mobili per non aver seguito bene le tracce. Qualche secondo e sento un altro rumore di piedi, ed urlo “NOT HERE!!!”. Riesco a girare il collo di 90 gradi e mi trovo davanti uno sbarbatello norvegese (Savedalens IK è Norvegia?) che ha girato attorno allo stesso cespuglio, si è fermato appena in tempo e mi guarda con gli occhi sbarrati e la bocca che sta per scoppiare a ridere. Mi allunga un ramo, io mi aggrappo, lui tira, io esco dalla palude e lui scoppia effettivamente a ridere. 

Da quel momento in poi, correre sarà ancora più difficile: i colori tirchesi dell’AGET Lugano sono scomparsi sotto uno spesso strato di fango e torba, ed all’arrivo saranno in parecchi a fare le foto a quello strano mostro della laguna che è emerso dalle paludi della prima tappa dell’O-Ringen 2015!


(continua…)

Garette Estive. Capitolo 2: O-Ringen (seconda parte)

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La seconda tappa dell’O-Ringen è, come universalmente noto, la più dura perché le tossine della prima tappa sono ancora in giro a fare la loro movida tra i muscoli che è già tempo di presentarsi nuovamente alla partenza. Il pensiero di tutti va al fatto che, se la carta sarà anche lontanamente simile a quella del giorno prima, so’ caxxi!  Il tourbillon degli orari di partenza ci proietta direttamente a fondo griglia, con Attilio posizionato sul fondo che più fondo non si può, quindi si verifica quella strana situazione logistica e mentale che  avviene quando, arrivando con ampio anticipo ai parcheggi della gara, si vedono già tante macchine che tornano a casa. Il cervello (il mio) fa uno strano click! Provo infatti un misto di invidia per chi ha già affrontato la sua gara ed il bosco e può già tornare a casa a leccarsi le ferite o semplicemente a rilassarsi.

La cosa potrebbe essere interpretata dal profano come un chiaro indice del fatto che non mi piace andare per  boschi a fare le gare; il che ovviamente non è! Eppure ogni volta provo la stessa sensazione di disagio. Dopo tanti anni di gare, posso solo concludere che ciò che realmente non mi piace è rimanere da solo e per ultimo nel bosco a finire il mio percorso; “per ultimo” va aggiunto per forza, perché “da solo” è la condizione nella quale gareggio ogni volta che faccio lo speaker. Il fatto è che quando parto all’alba so che  dietro di me poi arrivano tutti gli altri e, per qualche motivo, sono molto più tranquillo… Un secondo problema è legato alla domanda cruciale “che tipo di terreno troveremo oggi?”; per questo motivo cerchiamo di studiare le scarpe e gli abiti di quelli che hanno già finito la gara: il fango si vede, ma non sembra così onnipresente come nella prima tappa. Sembra invece che l’arrivo sia decisamente in salita!


Stavolta riesco a far partire la telecamera, cosa che provocherà reazioni diverse in molti tra coloro che sono presenti alla partenza: ci sono quelli che bisbigliano all’amico, indicandomi, poi ci sono quelli che fanno apposta a mettersi davanti a me e guardare dritto nella camera e fare le boccacce; infine ci sono quelli accelerano a velocità warp quando entrano nel raggio d’azione della camera, per non farsi vedere, come se io poi tornassi in Italia al solo scopo di prendere in giro gli svedesi…

La prima lanterna non è un problema (vero Gianluca Carbone?): la microcollinetta dietro alla quale è posta la palude spicca nel verdone come una guglia del Duomo. La seconda offre un comodo punto di attacco (la cima della collinetta pelata) ed un confortevole punto di stop in caso di errore (il sentiero). Purtroppo, al momento di prendere la direzione per andare alla tre, commetto l’errore di scendere anziché rimanere o risalire leggermente di quota: il sentierino nel verde fitto o non c’è o lo salto a pié pari mentre cerco di stare in piedi nella rumenta, e l’aggiramento + risalita dell’avvallamento mi costa tempo e fatica; alla lanterna 3 ci arrivo da ovest, e bene o male fanno da ottimi punti di riferimento gli alberi caduti a terra che, in carta, sono indicati come piccoli segmenti verdi. Passaggio dal primo e dal secondo rifornimento (gli addetti vedono la telecamera e bisbigliano tra di loro… al che io dico “Smile, you are on Candid Camera!”), sentiero verso sud, al bivio prendo la sinistra portandomi sull’altro sentiero; nel video si vede chiaramente che sto correndo, e altrettanto bene si vede chiaramente il ragazzetto svedese che mi supera a velocità assurda! All’altezza del masso, scendo nel semiaperto e vado a cercare la palude che porta al punto, nascosto dietro al solito sasso enorme che è segnato come collina perché c’è un poì di erba in cima.

Sbaglio alla 5, facendomi portare dalle curve di livello fino alla strada, il che mi costringe ad arrampicarmi sulle rocce per arrivare al punto (cosa che mi riesce incredibilmente bene), mentre per la 6 si va dritto in bussola a cercare il passaggio tra le file di rocce e la palude; poi è il sentiero, le tracce altrui, e quella piccola zona di verde con il mezzo la paludina che fanno sbarcare dritti sul punto. 7-8-9 si tratta solo di non fare cavolate. La 10 mette un po’ paura per la lunghezza, ma è una difficoltà solo apparente: basta solo usare la bussola e navigare da un isolotto all’altro senza farsi respingere dalle ultime curve di livello in salita, fino a sbarcare sul sentiero con i ristori in corrispondenza di uno qualunque di  essi; da lì si fa il periplo in senso orario fino alla 10 (stando attenti, perché nel cerchietto della 10 ci sono 4 lanterne!), e poi ci si fa portare dal gruppo… o nel mio specifico da Edoardo Tona… fino al traguardo in salita, sulla quale mi permetto persino di sprintare!

La terza tappa, come ha capito pure Bjorn Persson, è la più dura di tutte perché è quella che arriva dopo il giorno di riposo e, prima di cedere alle mollezze dell’estate svedese, bisogna subito rientrare in ottica O-Ringen! Il tourbillon degli orari ci catapulta direttamente nella prima fascia delle partenze, ma siamo fortunati perché la nostra cuccia è proprio ai margini della carta di gara e, se non corressimo il rischio di fare cose non previste dal regolamento (tipo farci trovare in mezzo alla carta dai posatori), potremmo provare persino a fare a piedi i 2 km che ci separano dal centro gare. Nello specifico, il mio letto sta a 20 metri da una parte di bosco che con tutti i sentieri, cocuzzoli, avvallamenti e rocce consentirebbe a Marco Giovannini di tracciare non una ma tre gare di Coppa Italia di trail-O.


La carta è bellissima, un autentico festival di rocce, roccette, roccioni e piccoli e grandi movimenti del terreno. Ovviamente ci sono anche le paludi: un saluto particolare a quella che dal sentiero con i ristori porta alla 5, che si deve fare anche in senso opposto per tornare ai ristori ed alla 6. Proprio ad uno di questi ristori avviene la “carrambata” dell’anno: passo correndo vicino al tizio che sta picchiettando nel terreno i pali “sista pinnen” per consentire agli atleti di appoggiare i bicchieri usati al ristoro, e sento che urla “Stefàno!!!”. Poiché l’unico Stefàno nei paraggi dovrei essere io (anche se, a dre il vero, ho appena superato il mio amico Stephan Wiberg…), mi giro e lo guardo: è Olle Hermansson! Il mio amico dell’YK Ymer  che conosco fin dai tempi della 5 giorni della Val di Non 1998. Rapida inversione di marcia, abbracci e baci e pacche sulle spalle e promesse di rivedersi ad una prossima multi-days, il tutto a volume da concerto rock e sotto gli sguardi increduli di quelli che escono dalla palude.

Decido di affrontare la tratta “Rocco Siffredi” che porta alla 7 in senso orario (Attilio opterà per il giro in senso antiorario); escludendo questo pezzo molto da “corri, mona!” (ma nel mio caso è sempre “datti almeno un contegno, mona!”) è una tappa molto bella perché almeno fino all’ottavo punto bisogna sempre rimanere molto concentrati e guardare bene la mappa: il rischio di trovarsi, come succede a me alla 5, a tre metri dal punto e non vederloè sempre elevatissimo… anche se nello specifico del punto 5 sono anche convintissimo del fatto che il punto fosse posato sulla roccetta a 1 mm dal sasso. Infatti tutti quanti finivano lì!, compreso il russo che poi farà un volo a planare nella palude, in uscita dal punto, sotto gli occhi miei e del già citato Stephan Wyberg, che non scoppiamo a ridergli in faccia perché non si sa mai che potrebbe capitare (o essere già capitato) anche a noi.


Dalla 8 in poi il terreno è sempre molto interessante, il bosco molto vario, ma la presenza delle case e delle zone vietate costringe gli organizzatori a far passare tutti i percorsi in una specie di imbuto sempre più stretto, e quindi ogni tanto sembra di trovarsi in Corso Vittorio Emanuele all’ora di punta, a farsi largo tra veci e putéi… In ogni caso questa volta siamo noi a poter sfruttare l’orario di partenza all’alba per poterci andare a rifocillare e riposare ad un orario nel quale tanti concorrenti affrontano l’arrivo al centro gare.

(... continua ...)

Garette Estive. Capitolo 3: O-Ringen (il gran finale)

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La quarta tappa, come tutti sanno ed io lo so fin dal lontano 2004 (la mia prima O-Ringen) è la tappa più dura di tutte. E’ la tappa middle distance, la tappa bingo, la tappa nella quale l’orienteering come lo conosciamo assume significati nuovi, la tappa nella quale tutto può succedere… persino che l’impiegato panzottello si classifichi (come accadde nel 2004) nei primi cento della classifica. Quella del 2015 sarà ricordata come però la “tappa Luder”, giacché non sfugge quasi a nessuno che proprio in questa tappa la 20 volte campionessa del mondo arriva al traguardo in trentesima posizione, complici due “tonnate” (nemmeno consecutive) da ultimo parziale tra tutte le concorrenti in gara; una posizione che soltanto il suo biografo personale ci saprà dire se si è mai verificata prima, fin dai tempi nei quali la Regina di Svizzera correva ancora nella D10!

La carta di gara sulla quale Luder va a gambe all’aria, e di fatto perde l’O-Ringen, è la seguente: il solito meraviglioso tripudio di rocce, roccette e paludi, movimenti del terreno indistinguibili o quasi l’uno dall’altro, il tutto a due passi da casa:


Dal divano di casa i soliti commentatori diranno “eh! ma ci sono i sentieri!” oppure “eh! ma ci sono le paludi da seguire!” o ancora “eh! ma come si fa a confondere quella collina con quell’altra?”.
Io, che ero li dentro a sacramentare, rispondo: “eh! ti mando a casa Simone Luder che te lo spiega lei a calcioni del didietro!”. Proprio così: ci sono i sentieri che talvolta si possono seguire fino a 100 metri dal punto, ci sono le paludi che portano fino a 50 metri dal punto… solo che poi in quei 100 metri o 50 metri c’è un frattale di movimenti del terreno che nemmeno Mandelbrot si sarebbe sognato, ognuno di quali con la sua bella lanterna! Ma andiamo con ordine.

Il mio desiderio è quello di fare una bella gara; sarebbe meraviglioso terminare sotto l’ora di gara e so che, in una gara senza errori, ce la potrei fare. Parto deciso, arrivo al triangolo di partenza e con poca sorpresa capisco immediatamente che il bosco bianco e piatto che dovrebbe pararsi davanti a me è abbastanza movimentato e pure “poco bianco”. Per non saper né leggere né scrivere decido di sbarcare sul sentiero, per arrivare alla collinetta dal punto più vicino. Ottima idea, pessima realizzazione! Arrivo sul sentiero, abbasso gli occhi solo un attimo per controllare la carta, inciampo in una canaletta di scolo e rovìno al suolo: gomito spatassàto, carta strappata e involucro di plastica lacerato nel quale è entrata una palata di mezzo chilo di fango. Passo il minuto successivo a mandare affanc… la canaletta, la plastica, il fango, la gara middle e riparto un po’ scombussolato per la botta, e tutto sommato il punto non è sbagliabile. Il mio scombussolamento prosegue anche per andare al secondo punto, che trovo solo grazie all’evidente sentiero a semicerchio che quasi lo circonda.

Per andare alla 3, il fango e la carta strappata non mi consentono di vedere altro che la linea magenta attraverso la palude; ci sarebbe anche una evidente area vietata a limitare la possibilità di errore, ma quando arrivo in zona punto il mio cervello manda un solo segnale “vai avanti che prima o poi capirai dove ti trovi”. Nonostante l’omino del cervello in sottofondo cerchi di segnalare che all’O-Ringen questa tattica è completamente perdente, proseguo imperterrito e, nonostante le curve di livello, nonostante l’area che dovrei perlustrate attorno a me sia di dimensioni abbastanza limitate e ci siano colline, radure e tagli di bosco per aiutare a ricollocarmi, tutto ciò che riesco a fare non è difforme da ciò che fanno i protagonisti di questo fantastico video che O-Ringen TV pubblica a compendio della tappa stessa. Per la cronaca, la prima tonnata di Simone Luder avviene nella stessa area…


5 minuti netti di errore, e tralascio di affidare alle cronache quello che faccio per ricollocarmi ed arrivare finalmente al punto. Riparto inferocito verso la 4, supero il sentiero ed arrivo dritto al sasso che sta sulla linea tra la 6 e la 7. Da lì è un attivo trovare il punto perdere di nuovo la strada! Arrivo infatti sul naso ad est del mio cerchietto, ma per fortuna il numero di persone che percorrono avanti e indietro la tratta tra il punto dove mi trovo io (e dove c’è un’altra lanterna) e quello dove dovrei arrivare è pari alla folla che c'è alle casse dell’Esselunga al sabato pomeriggio prima del Natale. 5-6-7, se il nume tutelare degli orientisti vuole (ed un po’ di circospezione aiuta…) vanno via abbastanza lisci, ma per andare alla 8 io e la signora Luder facciamo la seconda tonnata di giornata: si potrebbero seguire gli isolotti, ci sarebbe una palude grande come una casa da tenere sulla destra… invece niente! Due colline con una sella enorme in mezzo… il vuoto più assoluto!

Decido mestamente di arrivare alla strada ed al ristoro per rifare il punto, magari troverà il punto 9 se sono fortunato, ed improvvisamente nel frattale di Mandelbrot attorno a me compare una lanterna: 300. E’ la mia. La 9 non è lontana e… guarda un po’ chi sta passando? Anne Hausken!... magari se sono fortunato mi ci porta lei! Provo a seguirla per le poche decine di metri che separano i due punti ed infatti lei punta dritto al sasso dietro al quale dovrebbe esserci il mio punto, ma ad una ventina di metri dal sasso… “Ehi! Perché si butta a destra?”. Resto a guardarla mentre va a vedere dietro uno degli N sassi a bordo cerchietto, dove non c’è nulla, finché non la vedo tornare indietro e punzonare il mio punto. Vabbé, però questa ha vinto dei mondiali ed io no.

Da lì in poi, Luder non sbaglia più niente, e quindi chi sono io per mettermi a fare delle altre cappellate? Alla 10 è inutile anche solo pensare di infilarsi nella zona dei sassi, 11 e 12 sono abbastanza evidenti e bisogna stare solo attenti a non affogare sul passaggio obbligato nella palude (che dopo 10.000 persone è largo e profondo quanto il Ticino) per ritornare come il giorno precedente nella zona di arrivo, schivando veci e putéi ma soprattutto districandosi tra le miriadi di lanterne posate in questa zona: dal punto di attacco per la 14 ne vedevo 4!


La quinta tappa, come sanno bene gli organizzatori, è la più dura. Lo è perché è un po’ la tappa dello sciallo, quella nella quale i primi in classifica lottano per la vittoria e quelli come me… beh! Partiamo in una griglia a 15 secondi gli uni dagli altri e possiamo solo misurarci le panze ! 15 secondi sono davvero una inezia, ora che uno prende una mappa, la gira, cerca il triangolo di partenza e si mette in moto. Per fare un esempio, Moritz Etter che è cento volte più bravo di me, e che mi ha sempre battuto, sta 20 posizioni in classifica prima di me ma sono solo 5 minuti di griglia di partenza. Ma, come dicevo, la tappa è dura soprattutto per gli organizzatori, perché è dalla quinta tappa dell’O-Ringen 2014 che negli occhi degli orientisti c’è spazio per poco più che questo:



Il finale incredibile della quinta tappa dell’O-Ringen 2014. Il Paradiso all’improvviso. Uscire dal bosco scuro (un bel bosco, ma con le fronde degli alberi talmente fitte da essere buio) e trovarsi improvvisamente di fronte la discesa, migliaia di persone, il Mar Baltico sullo sfondo azzurro che più azzurro non si può e si confonde con il cielo… 

Non è un caso se sul sito ufficiale dell’O-Ringen campeggiano in bella mostra proprio le foto prese da quel particolare punto di vista; non è un caso se il video di quella tappa del 2014 mostra un Thierry Gueorgiou che vola (ad una velocità che lévati) giù da quella discesa in posa da statua del Cristo Redentore sul Corcovado di Rio de Janeiro


Come fare per poter rivaleggiare con questa meraviglia delle meraviglie? Gli organizzatori del 2015 sanno di poter offrire poco di simile, ma pensa che ti ripensa devono aver trovato un’altra soluzione, ed assicuro che anch’essa vale il prezzo dell’iscrizione. La soluzione è questa:



Arrivo nell’arena di Boras. Campo di calcio in erba sintetica con tribune a spiovere sul campo, e mai non meno di 10.000 persone ad accogliere urlando i tifando i concorrenti che vengono sputati fuori dal bosco. Si, ok, per arrivare fino all’arena sportiva di Boras bisogna fare qualche centinaio di metri di “corri mona!”, ma garantisco che il brivido che ho provato quando finalmente anche io sono entrato nell’arena, sentendo il vociare di migliaia di persone in quello spazio ristretto (persone che stavano tifando ognuna per qualcuno di specifico, non certo per me, ma il rumore non è qualcosa di cui ci si possa prendere ognuno il proprio pezzetto…) è stata una cosa da pelle d’oca!

La carta della quinta tappa è questa cosetta qui, che sarebbe a poche decine di metri dalle abitazioni di Boras:


Tralascerò il racconto punto per punto. Alla 1 prendo i due tizi che sono partiti davanti a me, alla 2 raggiungo Moritz Etter ma vengo raggiunto da Marcello Baroni che mi partiva dietro di 3 minuti, al terzo punto pascoliamo per qualche minuto tutti insieme e poi il ventaglio di concorrenti si apre (alla fine Moritz sarà davanti a me in classifica, ed io davanti a Marcello). Consumo le ultime energie importanti andando a prendere la curva del sentiero grosso nella tratta 5-6; la palude davanti alla 8 e quella che attraverso per andare ai ristori prima della 9 non fanno più nemmeno paura dopo le lezioni di paludismo applicato di questi giorni. Alla 11 mi portano i sentieri, alla 12 il recinto, alla 13 le tracce, alla 14… no! La 14 la cànno proprio di brutto (due minuti), ma basterebbe accendere il cervello e controllare dove comincia il prato per trovarla. Poi è, come detto, un “corri, mona” fino al fantastico arrivo nell’arena di Boras.

Dopo la volata finale, la meravigliosa O-Ringen 2015 è proprio finita. Il piccolo gruppo di milanesi non dovrebbe fare altro che rilassarsi sul prato di erba sintetica e sbirciare attorno se le ragazze australianeindossano i mini-short della misura regolamentare (d’altra parte i posti dove metterci li scegliamo strategicamente…). Invece dobbiamo guardarci negli occhi gli uni con gli altri ed ammettere solo la semplice realtà:

L’O-RINGEN E’ FINITA MA NOI SIAMO ARRIVATI SOLO A META’ STRADA!


(… continua…)

Garette Estive. Capitolo 4: Mondiali Master (le sprint)

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L’O-Ringen è appena alle spalle, e noi siamo solo a metà del cammino. Dobbiamo ancora affrontare la seconda settimana di gare: i WMOC – World Masters Orienteering Championship. Da un lato, potrebbero sembrare più facili rispetto all’O-Ringen: sono infatti previste due gare sprint su cinque. Dall’altra, c’è preoccupazione per l’aspetto “logistico” della faccenda: i WMOC nascono all’insegna del trasporto eco-sostenibile, ma le informazioni sul modo in cui si arriva alle gare rimandano spesso a mezzi pubblici locali (di Goteborg) che passano a cadenza ognitanto-manale, soprattutto nei giorni festivi… e noi che stiamo a parecchi chilometri di distanza da Goteborg, come ci arriviamo alle gare? E in che condizioni, se il meteo comincia a promettere acqua tutti i giorni e l'auto potrebbe costituire l'unico riparo?

Il primo impatto con i WMOC non è dei migliori. Intanto arriviamo al centro gare sotto il diluvio; poi c'è il centro gare stesso, che non reggeminimamente il confronto con quello dell’O-Ringen. E’ vero che c’è un rapporto 5:1 di partecipazione, ma ci sono comunque 4.000 iscritti… che però scompaiono rispetto alla dimensione e alla magnificenza della settimana precedente. Infine c’è un aspetto di tipo anagrafico, lapalissiano ma sconfortante: ai WMOC, gli “juniores” siamo noi, che siamo iscritti in over-45. La maggior parte dei concorrenti sono in over-60 o over-65, le partecipazioni giovanili sono limitatissime a qualche figlio o nipote o pronipote, e quindi i paraggi hanno una lontana parvenza delle corsie dell’Esselunga quando vado a fare la spesa settimanale e a qualunque orario mi trovo a dribblare un autentico gerontocomio.

I miei WMOC cominciano con la prima gara sprint, la qualificazione che si tiene nel quartiere di Eriksberg. Dalle informazioni note, potrebbe trattarsi di un quartiere moderno, con un sacco di strade asimmetriche, qualche parchetto e magari qualche via d’acqua a rendere il percorso tortuoso. Non sarà sicuramente Subiaco o Matera, e neppure Bergamo alta o Brescia, ma di certo mi aspetto “qualcosa” da una qualificazione mondiale; soprattutto se ripenso ad una delle più belle gare sprint che ho mai corso (malissimo, peraltro!), cioè la finale dei WMOC in Portogallo con i due passaggi nel vecchio pueblo, tra le dune e nel bosco.

Se la prima impressione è quella che conta, devo ammettere che arrivare a Eriksbergtorget sotto la pioggia e vedere il parterre dei WMOC fa un certo effetto di desolazione:


(la zona di arrivo: non c’è – e non ci sarà mai in tutto il WMOC – nemmeno un gonfiabile)


(il podio dei WMOC: possibile che in tutta Goteborg non ci sia qualcosa di meglio?)

Fin dal principio si sapeva che non ci sarebbe stato alcun riparo per gli atleti, e che alla sprint in particolare non ci sarebbe stato spazio per le tende di società. Si vedono così ripari fortuiti sotto gli ombrelli, gli alberi, i rari balconi delle case che si affacciano sulla piazza; il tutto ha un po’ l’aria di una gara regionale delle nostre, di quelle un po’ scrause però  (si, ci sono 4.000 persone, ma io arrivo dai 20.000 dell’O-Ringen). L’ultimo punto del percorso?


(ci sono pure le auto parcheggiate…)

Vabbé, magari i percorsi saranno una figata pazzesca. A spegnere l’anelito di speranza arriva un forte atleta svizzero che, appena superato il traguardo, mi dice: “Stefano… da noi questi sono i percorsi per esordienti…”. Ri-vabbé, lui corre in over-60… io sono in over-45: il mio percorso sarà sicuramente più impegnativo e challenging, ri-penso. Finalmente arriva il mio orario di partenza. Quando prendo il via ed inizio il mio Mondiale Master, non penso affatto alla possibilità (infnitesimale) di qualificarmi, ma a far bene le mie gare. Guardo la carta e, mentre corro verso il prato, penso “la prima lanterna è qualche metro all’interno della vegetazione… non la vedrò da fuori… devo mirare alla parete rocciosa e passarci accanto!”. Sbarco sul prato, guardo nella direzione giusta e, da una distanza di 100 metri, vedo distintamente parete rocciosa e lanterna; “non può essere la mia…”. Invece è proprio così!


Ecco… diciamo che mi aspettavo qualcosa di più sfidante! La 2 è sul vialone. La 3 ha un solo punto di ingresso. Per andare alla 4 scelgo di ripassare davanti alla 1, e una volta superato il montarozzo sarà fino alla 12 una specie di remake del campionato italiano sprint al Parco delle Cascine: il comunicato gara parlava esplicitamente delle siepi (verde 4) non attraversabili, ed in effetti l’organizzazione schiera un esercito a controllare il corretto passaggio da ogni singolo punto, ma finché le lanterne stanno alle estremità dei portici e delle aiuole condominiali, la gara si riduce ad un “corri, mona!” pazzesco. Per andare alla 13… si ripassa davanti alla 1, no? e poi da lì la gara si potrebbe quasi fare memory fino al traguardo. Diciamo che come percorso WMOC avrebbe potuto offrire qualcosa di più, ma apparentemente sono tutti contenti. Una chiave di lettura diversa, e tutto sommato lecita, me la offre su un piatto d’argento il signor Jorgen Holmboe, norvegese del Tyrving… un momento!

FLASHBACK!

Milano. Domenica 5 luglio 2015. Nella irreale caldazza della città, con 37 gradi alle 9 del mattino ed una afa da uccidere pure chi è abituato alla giungla del Borneo, va in scena la terza tappa di Expori. Fa un caldo infernale, qualcuno ha le visioni, Amanda Thelssén ha i miraggi, Katja Zwiker quasi sviene al traguardo… Lo speaker dovrebbe tenere desta l’attenzione di un centinaio di iscritti alla traversata del deserto del Sahara gara di Milano, e si mette a parlare di tutto: si inventa la cronaca della finale sprint ai Mondiali Juniores, comincia a parlare dei WMOC, allude alle caratteristiche dei terreni della West Coast e all’antennone di Skatos

Un distinto signore over 65 che ha appena finito la gara si fa avanti e chiede, meravigliato, come faccia un italiano a sapere tutti quei particolari sul terreno di Eriksberg e delle gare long distance dei WMOC. E poi mi dice “io sarei l’IOF advisor dei Mondiali Master…”. Io non conosco molti IOF Advisor, ed uno in particolare era tutto fuorché modesto! Invece Jorgen è proprio un gentile signore che parla di qualsiasi argomento con una evidente competenza ma anche con molta modestia. E’ stato un piacere incontrarlo di nuovo a Goteborg: sempre in tuta, onnipresente, arriva alle gare in bicicletta e comincia subito ad aiutare gli organizzatori in prima persona, poi si mette la divisa del Tyrving e va a fare un giro di controllo nel bosco, poi torna, si cambia sotto il diluvio e si mangia il panino che si è portato da casa, poi torna nel bosco… sempre sorridente, sempre positivo, sempre modesto.

La chiave di lettura della gara di qualificazione sprint è la sua: “devi sapere, Stefano, che i percorsi sono adattati alle capacità fisiche di atleti molto più anziani di te… prova ad immaginare la fatica che può fare un over-65, over-70, un over-85 a distinguere sulla carta i particolari del terreno, i piccoli portici, le aiuole. In fondo, tu ed i tuoi amici siete proprio le categorie giovanili di questo Mondiale”. Condivisibile. Tutto sommato condivisibile. Perché spiegato e poi affidato al giudizio altrui, non imposto ex cathedra.

Torniamo a Goteborg. Dopo la domenica viene il lunedì, e con esso la finale sprint. Io, in finale B, non mi aspetto nulla di che dai percorsi, anche se siamo pressoché certi che passeremo almeno una volta dai mitici panettoni sassosi con i lastroni piatti e lisci che diventano fatti come di sapone se solo dal cielo viene giù una goccia… ecco: infatti piove! Anzi: comincia a diluviare proprio due minuti prima della mia partenza. Gli occhiali, inservibili e dannosi, finiscono subito sotto alla carta di gara.


E’ una gara sprint nella quale c’è ancora soprattutto da correre. Sbaglio di poco, più che altro perché con tutta l’acqua che viene non vedo ad un palmo dal naso, la 2. E sbaglio, ma di molto (30 gradi a sinistra!) il punto 3. Bene la 4, scivolando sui lastroni di sapone meglio di Wayne Gretzky, e male la 5 cadendo tra i lastroni come Bambi sul ghiaccio per non aver fatto l’ovvia scelta sul sentiero. Gli unici punti non “corri, mona!” sono la 9 (ma si sale dal comodo sentiero), la 10 (ma si attacca seguendo la roccia) e la discesa per la 11 dove c’è da rompersi  l’osso del collo sui gradini fradici. 

Altri gradini dalla 12 alla 13, per girare attorno al bacino in senso orario, e quando la gara sta per finire e vedo già sullo sfondo l’ultima lanterna… SBOOOOONNNNGGGG!… vado a sbattere la spalla con tutta la violenza possibile contro un cartello stradale che indica non so cosa! All’urto, si girano tutti: spettatori, gli atleti attorno a me, un brasiliano che avevo appena superato e che mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite. La cicatrice sulla spalla sinistraè ancora ben visibile, e me la porterò dietro ancora a lungo.

E quello di sbattere contro i segnali stradali comincia a diventare un brutto vizio: non è la prima né la seconda volta!


(… continua…)

Garette Estive. Capitolo 5: Mondiali Master (qualificazione long 1)

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Arriviamo così alle ultime tre tappe di questa maratona svedese: le gare long dei WMOC 2015. Dopo il giorno di riposo, trascorso saltabeccando tra le isole della West Coast, si va verso il lago Delsjon per la prima gara di qualificazione. Il cielo sta buttando giù acqua a catinelle e le probabilità di cambiarci in macchina sono molto alte, ma la prima preoccupazione che dobbiamo affrontare è relativa al “dove” possiamo lasciare l’auto. 

Accade infatti che, sempre nell’ottica del Mondiale eco-sostenibile, la zona di arrivo è stata piazzata ai margini della zona industriale di Molndal, un assembramento di piccole officine di meccanico, di basse palazzine per uffici, di aziende di autotrasporti; ci sono veramente poche possibilità di parcheggiare in zona, e quando cerchiamo di “mediare” con uno dei locali per poter lasciare la macchina davanti al suo ufficio, le risposte sono tra l’esasperato e l’incaxxato: sono tutti lì a chiedersi chi abbia mai dato il permesso a tutte queste persone di radunarsi lì attorno, e soprattutto cosa ci stiano facendo! Cerco di spiegare, anche con un po’ di pompa magna, che sta per disputarsi il campionato mondiale di orienteering e… incredibile a dirsi! Pure nella fantastica Svezia, accade che di questa cosa ai locali non gliene può fregare nemmeno un pìcciolo!!! Alla fine riusciamo a transare un parcheggio vicino ad un autotrasporti, ed andiamo in zona arrivo: l’area è veramente minimalista; sotto il diluvio, parecchie società sono riuscite ad infilare le tende sotto gli alberi, solo il gruppo di giapponesi è dotato di una specie di “casa” di tela, con tanto di finestre e area di ingresso, ma gliel’ha portata lì già bell’e montata l’agenzia di viaggi.

Le prime persone che vedo in zona arrivo sono Katja e Daniel Zwicker, che hanno già finito la loro gara e come al solito sono puliti e sorridenti come se fossero sul red carpet(ma come fanno?). Daniel mi squadra e la sua faccia cambia espressione: “Stefano, per l’amor del cielo! Non entrare nelle paludi! Stefano, stacci lontano!”. Mi pare di capire, dai commenti che sento in giro, che anche questa long distance stia per diventare una nuova lezione di paludismo applicato… la conferma me la offre su un piatto di argento, sereno come sempre, il buon Jorgen Holmboe: “Devi  sapere che quest’anno la primavera è stata molto calda, cosicché l’erba nelle zone di palude è cresciuta tantissimo. Poi abbiamo avuto un inizio di estate molto più piovoso del solito, e quindi le palude sono assai più profonde”. Il risultato è presto fatto: chi è partito per primo ha corso nelle paludi ancora abbastanza compatte, ma si è dovuto far largo nell’erba da elefanti dove serve la forza di Hulk per procedere. Chi partirà in fondo, probabilmente troverà l’erba tutta pestata, ma praticamente farà la gara nel fango dall’inizio alla fine.

“Tu in che posizione della griglia sei?” chiede Jorgen.
“Sono l’ultimo che parte di tutto il Mondiale…” rispondo io. 
Jorgen, l’infame, sorride.

A pomeriggio inoltrato, quando ormai sembra che tutta la qualificazione sia finita e la maggior parte delle persone si è già fatta la doccia e si è rifocillata, arriva anche il mio turno di partire. Questa cosa, dicevo qualche giorno fa, mi mette sempre addosso una certa inquietudine, che cresce ancora di più quando vedo la carta di gara, ovvero questa COSA QUI:


Primo pensiero, rivolto a Daniel Zwiker: come cavolo faccio a stare LONTANO DALLE PALUDI?!?!?
Secondo pensiero, rivolto a me: Stefano! Pensa solo a trovare il primo punto. Trova solo il primo punto e potrai andartene da qui orgoglioso di quello che hai fatto.

Solo per fare un confronto, farei vedere la carta di gara di Roberta (D45): se in Italia qualcuno osasse proporre il percorso che ha fatto Roberta in D45, arriverebbero al traguardo in tre e scoppierebbe la rivoluzione…

Su per la linea di massima pendenza, poi di traverso verso nord-est a valicare le linee di rocce (sul terreno ce ne sono molte di più di quanto è segnato in mappa) finché, con i piedi perennemente a mollo, arrivo sulle sponde del laghetto. Superata la palude a nord del laghetto, di nuovo su tra le fila di rocce a costeggiare l’enorme Stige chiamato Bredaremossen, che in svedese vuol dire “lasciate ogni speranza voi italiani che ci entrate”. Da lì, è sufficiente leggere bene la carta di gara e mappare sul terreno colinette, avvallamenti, paludine fino ad arrivare all’evidente roccia… SI, COL CAVOLO! DAL DIVANO DI CASA!!!... La zona a nord dello Stige è un continuo movimento del terreno, con paludi ovunque e cocuzzoli che fanno deviare dalla linea retta. Arrivo nella zona ad est con gli alberi buttati al suolo e, dopo qualche secondo si sbandamento (vado a destra? A sinistra? Avanti? Torno indietro?) identifico le piccole linee verdi sulla mappa e vado dritto al punto. Lento ma dritto.

Sono in mappa! Il peggio è passato, da qui in avanti… ecco: da qui in avanti è peggio! Basta un minimo calo di concentrazione che, pur passando accanto alle roccette a metà tra la 1 e la 2, arrivo al punto solo per scommessa. Alla 3 c’è il ristoro con le sciurette che si chiedono chi sia questo che a metà pomeriggio sta ancora passando dal ristoro, la 4 la faccio dritta e la 5… la trovo solo perché vedo il brasiliano che è partito 20 minuti prima di me che punzona: sarebbe una parete rocciosa, ma avrebbero dovuto scrivere “abbiamo scelto di cartografare QUESTA parete rocciosa e non le altre 20 che sono all’interno del cerchietto…”.

Sulla via del ritorno, il Bredaremossen non fa più tanta paura come all’andata, e mi posso beàre gli occhi dello spettacolo delle cascate formate dall’acqua che tracima dalle paludi superiori a quelle che stanno un livello sotto. Per scendere dalla 9 (fatta in bussola sotto la linea magenta) alla 10 bisognerebbe avere i pattini ed anche essere bravi come Brian Boitano per riuscire a stare in piedi senza frantumarsi le ossa sulle pietro cosparse di sapone. Invece per uscire dalla 11… ecco: qui veramente bisognerebbe avere il filmato! La tratta fettucciata dalla 100 all’arrivo è un OCEANO di fango,  profondo da mezzo metro in su. Io impiego due minuti e rotti per arrivare al traguardo, ed assicuro che è un tempo di tutto rispetto per quelli che sono arrivati al traguardo attorno alle 16! Alcuni anziani concorrenti semplicemente devono tirare gli uni con gli altri per venirne fuori, un altro (il mio compagno di stanza) finisce lungo e disteso a faccia in avanti nella torba, e non sarà nemmeno uno dei pochi ad arrivare al traguardo in stile “mostro della laguna”.


(… continua …)

Garette Estive. Capitolo 6: Mondiali Master (finale long)

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Prima del gran finale dei WMOC, arriva il turno della seconda gara di qualificazione Long, che si disputa ancora sulle sponde del lago Delsjon. Rispetto al giorno precedente, ci sono alcune novità sostanziali: innanzitutto la giornata è asciutta e non si vede una nuvola in cielo; in secondo luogo non viene riproposto lo stesso arrivo nell’oceano di fango del giorno prima, perché si arriva sempre nella solita arena stenterella ma da un’altra direzione; infine il tipo di terreno viene descritto come veloce, privo di paludi, molto dettagliato. Proprio quello che piace a me!

Peccato, sono incontentabile lo so, che io abbia finito stremato la gara del giorno prima alle 16.30 e mi tocca ricominciare alle 9 del mattino dopo… la notte non basta a riportare nelle gambe le energie con le quali vorrei affrontare la gara, e non è nemmeno sufficiente a ripulire la testa dalle tossìne del giorno prima. Eppure la partenza è proprio facile: la prima lanterna si vede dal sentiero che fa da linea di arresto, e da quel punto è abbastanza facile arrivare a prendere anche la 2 (che è la prima lanterna di Attilio, per dire…). I guai cominciano per andare alla 3, quando confondo la riga nera perfettamente dritta della pista da sci di fondo con la piega della carta: risultato prevedibile, mi butto a destra a prendere il sentiero (unico di tutto il Mondiale, penso) e allungo la strada. La 4 è banalmente un punto di “rimbalzo” e per arrivare alla 5 posso giovarmi della compagnia, alla mia destra, del mitico antennone di Skatos.


La tratta 4-5 è l’emblema delle capacità dell’impiegato panzottello: innanzitutto mi faccio un bel tuffo nel fiume che incontro appena uscito dalla 4 (tuffo ben visibile nel video), perché ad attraversare il fiume facendo equilibrismo su un tronco fradicio e scivolosissimo era capace solo quello del Cirque du Soleil con l’imbragatura! Per scollinare di fianco al recinto dell’antennone, i casi sono due: o si avanza a fatica nell’erba alta, ma ci vuole la forza di Hulk, oppure si rimane sui lastroni di pietra in costa, scivolosi e precedentemente trattati con il sapone di Marsiglia. Il numero di scivolate e di mosse che farebbero la felicità di un programma come “Torta di riso” è paragonabile a quello di un intero campionato mondiale di calcio saponato! Ovviamente la 5 la sbaglio perché finisco sul sasso sbagliato (ce ne sono mille in zona) e mi tocca scendere sul sentiero e risalire dal bivio per arrivare al punto. Dopo la 6, trovata più per culo che per anima, vado a giocare sull’isolotto che separa il piccolo Delsjon dal grande Delsjon. Il terreno è compatto, bellissimo, le paludi quasi invisibili, è un festival di piccoli movimenti del terreno… ma in tutto questo Paradiso, la mia lanterna sta da un’altra parte rispetto a dove la cerco! Arrivo alla X nera tra la 7 e la 9 prima di capire che qualcosa non va.

Da lì in poi nulla di eclatante ma tanto “divertiLento”, anche se la lanterna 12 affrontata in modo assolutamente pusillanime dal sentiero a sud, giusto per vedere da dove escono gli altri concorrenti. Per la 14 si corre sul sentiero grande fino ad arrivare nella zona della 16, poi sul sentiero piccolo verso sud finché le gambe dicono di avere ancora forze sufficienti per affrontare le curve di livello e le rocce. L’ultima insidia è alla 16, che è la buchetta più infida del mondo, fino al finale nel quale le gambe non ce la fanno proprio più a spingere perché la benzina è finita. In generale, una gara in un posto fantastico e velocissimo nel quale tutti fanno segnare tempi più alti rispetto al giorno prima… perché le lanterne sono in numero doppio e oltre a correre bisogna anche trovarle! It’s orienteering, honey!


Venerdì è il giorno di riposo, ma noi ne approfittiamo per un piccolo allenamento nella enorme carta di Botaniska, quella che inizia al meraviglioso giardino botanico di Goteborg: in pratica è la carta che separa i quartieri di Goteborg Majorna da Goteborg Frolunda, e se per caso avete sentito parlare delle squadre di orienteering di Majorna e di Frolunda, no: non è un errore! Se una ragazza di Majorna telefona al fidanzato di Frolunda e gli dice che i genitori ono fuori a cena e la casa è libera, ecco… il fidanzato fa prima ad armarsi di carta, farsi un attraversamento del bosco tipo Mondiale Long Distance per difficoltà tecnica e arrivare a Majorna. Poi dicono che gli svedesi di orienteering ci capiscono


Sabato 1° agosto è l’ultimo giorno di questa campagna svedese. Sarebbe anche tanta altra roba: è il giorno del mio compleanno, è il giorno della finale Long Distance dei Mondiali Master, è il giorno nel quale si corre proprio sulla carta di Skatos ed io sto aspettando da 11 anni di tornarci! Ma è anche il giorno nel quale dobbiamo fare valigie, check-out, gara, trasferimento in aeroporto e prendere l’aereo. E infine è un’ultima cosa: è il giorno nel quale io sono completamente sfinito, a pezzi, distrutto. Faccio fatica già ad arrivare alla partenza, e le sensazioni che ho mentre affronto la salitella per uscire dalla zona di partenza sono tutt’altro che positive.


Ma, incredibile almeno per me, la prima lanterna è anche forse la migliore di tutta la mia 10 giorni: dritto come un fuso fino al punto senza sgarrare di una virgola dalla linea rossa; infatti raggiungo un paio di svedesi, uno svizzero ed un giapponese che erano partiti prima di me, e tutti quanti si accodano a questa locomotiva italiana per andare alla 2, visto che l’italiano è panzottello e pure un po’ impiegatizio ma dimostra di sapere il fatto suo. Da lì, il buio! Un buio nel quale i vagoncini dichiarano la loro fiera indipendenza molto presto: per arrivare al punto 2 devo scendere due volte al ristoro, la seconda volta con il dubbio di essere sceso ad un ALTRO ristoro… ma anche quando trovo il punto per caso, visto che in pratica sto rimappando la zona (25 minuti di ricerca), tutta l’orografia attorno a me mi torna come un boomerang lanciato da uno che uno è capace di farlo rientrare alla base! Trovo al 3 perché mi accodo ad un danese che mi ha già rimontato 15 minuti, ma sulla 4 che sarebbe anche facile impiego 27 minuti nonostante il sentiero e la canaletta. Sono cotto, bollito, non ce la faccio più e sono molto demoralizzato; soprattutto, non c’è modo di far salire l’indicatore della benzina dal livello zero che più zero non si può. Impiego un’altra quarantina di minuti abbondante per trovare 5 e 6, ed alla 6 non sono più in grado di pensare razionalmente: sono in gara da 1 ora e 40 minuti e non ho energie per finire la gara; arriverei, forse, in tre ore… ed il “forse” non è legato al fatto che potrei impiegarci di meno, ma al fatto che forse mi ritroverebbero stecchito nel bosco.

I miei compagni di squadra mi aspettano per andare in aeroporto, e decido di mollare. Una vocina del cervello mi dice che non è da questi particolari (un ritiro nella gara che stavo aspettando da tanto tempo) che si giudica un orientista. Un’altra mi dice che è da questi particolari (la decisione di ritirarsi in tempo) che si giudica una persona razionale e dotata di senno. Con lo sconforto nel cuore, casco dritto sulla 10!, ma il fatto che il ritiro sia l’opzione migliore lo capisco al ristoro: la persona che è lì mi viene letteralmente incontro per aiutarmi, poi io passo 5 minuti a cercare a terra la sicard che credo di aver perso, finché la stessa persona (scuotendo la testa) mi avvisa che ce l’ho al dito! Credo che sia stata una gara molto divertente… per chi ce l’ha fatta!

Sono stato respinto da Skatos, proprio alla decima gara, e impiego un paio di giorno per recuperare dalla delusione. Una delusione che, per mia fortuna, viene sopraffatta da un desiderio più forte di rivincita: una settimana dopo Skatos, infatti, è in programma LA GARA! La O-Marathon degli Altipiani! Ed io sono molto combattuto ascoltando la vocina prudente che mi dice che non ho più l’età e le forze per farla in Elite, e quindi non otterrò altro risultato che un nuovo ritiro e una nuova delusione, e la vocina intrepida che mi dice che, usando la testa, ce la posso fare ed uscire orgoglioso dalla mia estate di gare.

Alla fine, la decisione è presa: si va alla O-Marathon degli Altipiani. In Elite! ‘Co can!!!

Garette estive. Capitolo 8: Gei-Ti-Ti

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E il capitolo 7, dirà qualcuno? Il capitolo 7 deve aspettare, perché l’attualità freme e bisogna stare sul pezzo, come disse Jenna (che non è né l’orientista piemontese né quell’altra che conoscono tutti…). Parlo di “qualcuno” e non dei soliti due lettori che cito sempre, perché mai come questa volta, salendo al ritrovo alla colonia di Passo Vezzena, così tanti orientisti mi hanno detto di aver sbirciato le cartine dell’O-Ringen pubblicate sul blog! Aaaahhh… allora qualcuno che legge c’è ancora! Fatevi vivi ogni tanto! Che poi… basta pubblicare roba sulla Svezia, ed ecco che gli orientisti compaiono a frotte. Manco avessi pubblicato la foto di qualche stangona bionda del posto. Ma si sa che gli orientisti, almeno quelli della categoria maschile, aprirebbero la paginona centrale di Playboy solo per vedere se per qualche errore tipografico è stata stampata la carta di Millegrobbe in formato A3.

Per la precisione, tutti gli amici che mi hanno detto di aver letto il blog li ho incontrati mentre io scendevo dalla colonia di Passo Vezzena, verso il parcheggio del passo. Perché sono stato il primo a ritirare la busta in segreteria, e perché non volevo perdere l’occasione di fare una foto come questa:


(brutta giornata, isn’t it?)

E’ proprio vero che non ci sono più i JTT di una volta. Qualcuno un giorno dovrebbe raccontare ai ragazzini ed alle ragazzine delle categorie under-12, under-14 e … ma si dai!... a tutti gli under-20, che tredici edizioni fa, e poi anche 12, 11, 10 e 9 edizioni fa, il JTT era una gara per autentici masochisti. Per la serie “la fortuna è cieca ma la sfiga il JTT lo vede benissimo”, tutte le prime edizioni del JTT si sono disputate in condizioni climatiche praticamente da inverno finlandese (citazione inserita al solo scopo di far alzare la pressione a Zonori): il JTT poteva essere a luglio, ad ottobre, il 15 di agosto… ma c’era da scommettere che l’antici-coso, la Corrente del Golfo, le isobare, le isocore e El Nino avrebbero complottato per scaraventare sul JTT tonnellate di acqua, di nevischio, di grandine! “JTT” per anni ha significato innanzitutto prendersi una botta di freddo mai vista. Poi deve essere intervenuto il mio vecchio amico Roberto Barbiero, che fa le previsioni del tempo sul TG3 regionale trentino, e le cose si sono sistemate. Ed anche la tredicesima edizione del JTT è andata in scena con un meteo azzeccatissimo: nubifragio alla partenza da Milano sabato mattina, pioggia e nuvole basse all’arrivo a Folgaria sabato pomeriggio, nemmeno una nuvola nel cielo color blu pantone al mattino della domenica. Così si fa, Roberto!

Viste le premesse meteo, c’era da scommettere che sarebbe venuta fuori una bella gara, e così (almeno per me) è stato: faticosa ma divertente, da ultime posizioni in classifica ma “sempre meglio che stare sul divano a vegetare”. Dopo aver letto che la partenza era a 30 minuti al passo con un centinaio di metri di dislivello da fare, avevo anticipato agli amici che saremo partiti dalla zona della Baita del Neff (ristorante da visitare sia per la qualità del cibo, canederli sul letto di verze in primis, che per il panorama con vista su Marzola, Bondone, Brenta, eccetera). Così è stato: siamo partiti proprio dietro la baita, sulla salitella del sentiero “sulle tracce dell’orso” che ormai conosco quasi come le mie tasche fino a Luserna…


(due settimane prima, sullo stesso sentiero avevo trovato questa lanterna sperduta da chissà quale allenamento del Comitato Trentino…)

Le gambe, incredibilmente, non sembrano risentire della pendenza fatta per arrivare in partenza, e quindi riesco a trotterellare in salita quel poco che basta per finire drammaticamente lungo già al primo punto. A quel punto l’amico Andrea Fedel mi raccatta, nel senso che io raccatto lui che era partito due minuti prima ma lui raccatta me che sennò sono ancora là a cercare, e bene o male arrivo a capo delle prime lanterne nella zona delle malghe piene di marmotte, di mucche e di boàsse (per chi non sapesse cosa sono, non state a chiedere: sappiate che sono marroni, larghe come una pizza e portano fortuna… ed io di fortuna ne ho portata a casa tanta!). Seconda cappellata di giornata alla 5: confondo la canaletta a forma di “M” con quella a forma di “W”, vado in confusione con il doppio WM dell’Arsenal, il “modulo di Beckenbauer” della Germania Ovest del ’74 ed e alla fine la trovo perché vedo gli Elite (Daves e Miori) che la trovano e scappano via come lepri.


Da lì fino alla otto alla sette e mezzo è corsa pura, ma a metà strada tra la 7 e la 8 l’erta delle malghe richiede il suo prezzo ed i miei polmoni non riescono a reperire l’ossigeno di cui avrebbero bisogno, nemmeno andandolo a cercare a Caldonazzo! Nel loop 8-11 al torpedone-Stegal si uniscono Attilio e Corrado Arduini, che non mi seminano nemmeno troppo nella lunga strada verso la 12 (anzi, ci arrivo prima io tagliando per i pratoni). A questo punto le energie cominciano ad essere al lumicino e la mia gara diventa una specie di esposizione museale “guarda un po’ chi mi sta superando adesso: alla 13 Padovan e Isma, alla 14 Casagrande, Arduini e Segatta…

Alla 15 qualcuno vive il “Raus moment” di giornata: il gruppone va verso il punto passando attorno al verde privato in senso orario. Io, che mi sto staccando perché non corro, giro in senso antiorario perché vedo un nastro arancione (recinto?) sul bordo della linea continua nera che dalla strada porta al verde privato e non voglio mettermi a scavalcare recinti in prossimità di una casa. Giro l’angolo della casa e vedo i sassi ed il mio punto, e poi a sinistra una massa di concorrentiche punzonano un altro punto… (l’avvallamento con linea ausiliaria, ad Ovest-sud-ovest del mio punto). Nel giro di qualche secondo arriva anche the-original-blond-princess of Primiero, al secolo Cristina Grabar, che aveva un altro punto ancora in uno degli avvallamenti più a Nord. 

Passata la Rause-falle(questa la capisce solo chi conosce la Streif … vabbé, ok, è la Mausefalle, la trappola per topi della discesa libera di Kitzbuehl), basta trascinare la carcassa verso l’arrivo, correndo dietro a Cristina.

So che quello che sto per dire farà saltare sulla sedia più di qualcuno, soprattutto coloro che lo scherzetto della 15 lo hanno vissuto sulla propria pelle: io a questo JTT mi sono divertito! Potrei persino azzardarmi a scrivere su Facebook (ma non lo farò) ad un amico ex orientista italiano che adesso fa solo il trail-O per la Slovenia “ti ho mai detto di quella volta che ho battuto Casagrande e Arduini al JTT?”. Non lo farò perché non è la stessa cosa che dire “ti ho raccontato di quella volta che ho battuto Carbone e Etter all’O-Ringen?”, sia perché sono orgoglioso della mia gara all’O-Ringen nella quale ho battuto due simili mostri sacri, sia perchè la classifica del JTT resterà nella mia testa sempre quella dei tempi, non delle Punzonature Errate… ed io i vari Enric-hi (Casagrande ed Isma), Fabio (Padovan) e Massimo (Lazzeri) non li vedo nemmeno con il binocolo.


Però tutto sommato a me la gara è piaciuta. Il contorno della compagnia, del meteo e del panorama tutto attorno, il terreno di gara ed il percorso sono valsi il prezzo e la fatica del viaggio. Niente male questa idea del JTT che, un giorno, germogliò nella testa di qualche illuminato (posso azzardarmi a dire Andrea Rinaldi?) come scommessa per coinvolgere i suoi ragazzi e le sue ragazze in una organizzazione ruolo-by-ruolo. E che dopo 13 anni, un periodo di tempi nel quale saranno caduti 5 governi, può dirsi un esperimento perfettamente portato a conclusione e che continua a sfornare gare che vale la pena di andare a fare, anche nel ruolo di impiegato panzottello da ultime posizioni della classifica.

Come disse Murtaugh, sono troppo vecchio per queste "cose"– parte 1

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Loco di Rovegno. Sabato 26 settembre, ore 5.30. Suona la mia sveglia. Dall’altra parte della stanza dorme Gianluca Carbone, che deve essere andato a letto all’una di notte dopo aver fatto la spunta di tutte le cartine del Campionato Italiano Long distance. Gianluca pensa che io sia uscito dalla stanza facendomi luce con la pila frontale… magari! Ho usato lo smartphone. Mi vesto al buio, scendo le scale, esco dal “Palazzo” e sono sulla Statale. Apro il baule dell’auto e, alla luce della lampadina interna, faccio colazione con un brick di succo di mela Esselunga. Mi deve bastare per la mia gara Long… mi deve bastare per tutta la mia gara Long Distance, categoria Elite, da solo nel bosco. Prevedo oltre tre ore di gara: ma il brick deve bastare.

Perché lo faccio? Boh? Il fatto che quando una idea germoglia nella testa, poi è difficile tirarla via. L’anno prossimo la mia età sarà a quota “sette al quadrato”. Non ho più tante cartucce da sparare, e poi quest’anno ho fatto la O-Marathon, e l’ho fatta solo usando la testa, non il fisico. Posso reggere a lungo se vado piano. Ma posso provare il percorso Elite dei Campionati Italiani a Lunga Distanza? Forse posso. Mi piacerebbe raccontare agli atleti, una volta vestiti i panni dello speaker, i luoghi nei quali i big si giocheranno la gara, dove potranno avere lo spazio per una ultima rimonta o dove dovranno tenere le ultime energie per resistere al comando. Mi piacerebbe. Posso farcela? Forse.

Però poi le cose prendono la piega sbagliata. Prima ci si mette il tracciatore, Rudy De Ferrari, a disegnare il percorso Elite più duro degli ultimi anni. Ci si mette … qualcuno? qualcosa?… ad anticipare di mezz’ora l’orario delle prime partenze alle 10.00. Ci si mette… beh! Sull’orario in cui albeggia non posso dare la colpa all’astronomia, però con un campionato italiano alla prima settimana di settembre avrei avuto più margine per la mia corsa solitaria.


(notare l'orario di partenza - si vede meglio capovolgendo il video!)

Dopo il brick è ora di salire in macchina. Il parcheggio del ritrovo è poco distante. Parcheggio la macchina tra i camper e indosso termica e divisa. Un movimento da un camper: Gianni Biroli, che si è già svegliato e forse sente la tensione pre-gara, che si aggira anche lui nel parcheggio. E’ ancora buio pesto (io lo riconosco dall’andatura, come sempre). Due saluti come sussurri ed una stretta di mano tra atleti. Alle 6.20 lascio il parcheggio e risalgo lungo la strada, con qualche fioca luce ai bordi a mostrarmi la prossima fettuccia che mi porta in partenza. Alle 6.40 sono a bordo strada, in attesa di un po’ di luce per entrare nel bosco, per percorrere le ultime centinaia di metri che mi portano al triangolo di partenza. Veder arrivare da est le prime luci dell’alba è come vedere il mondo che rinasce: è ancora buio ma posso entrare nel cunicolo stretto che va verso la partenza. Alle 6.45 c’è un chiarore sufficiente per farmi vedere i macrodettagli della carta e capire dove è il triangolo di partenza. Alle 6.50 parto.

Percorso Elite. Io sono solo un Impiegato Panzottello, non un Elite. Sono l’abusivo, sono lo scarto, sono “indovina l’intruso”. Per questo è meglio che io parta in un orario diverso dagli altri. La sera prima, parlando con Rudy e Raus, avevamo stabilito la “tattica”: divincolarsi velocemente dalla prima area di gara, fare una passata sulla zona con un sacco di punti di controllo (dove di fatto sarebbero andati solo gli Elite), ritornare velocemente e fare una seconda rapida passata nella zona impestata di rocce ed ostacoli… Facile a dirsi. Se avessi 4 ore di tempo, potrei farcela. Anche 3 ore e 45 minuti. Ma mezz’ora me la ha portata via il regolamento (partenza alle 10 anziché alle 10.30), mezz’ora me la porta via l’astronomia (gara il 26 settembre anziché il 5 settembre). Non posso fare tutto il percorso e dovrò trovare qualche scorciatoia.

Questo toglie un po’ di “tensione agonistica”. Credo sia arrivato il momento  di spiegare ai miei tre lettori (che lo sanno già, peraltro) alcun cosette. Perché lo faccio? Primo: perché sono un orientista. Sono scarso, panzottello, impiegatizio, poco allenato, tecnicamente impreparato, vecchio… ma sono un orientista; e l’orientista va alle gare per andare nel bosco. Io sono uno di quelli che, più ci sta, meglio è. Secondo: sono lo speaker di uno sport nel quale nessuno vede davvero come si svolge la gara; cosa ne sa lo speaker se Mamleev ci mette 100 minuti anziché 90, a finire la sua gara, perché il bosco è terrificante oppure perché sono diventati tutti scarsi e vanno piano? Forse allo speaker non dovrebbe nemmeno interessare! Forse lo speaker dovrebbe recitare con voce monocorde che “Mamleev passa al comando (… yahwwnnnn…) con un tempo di tot ore tot minuti tot secondi e massì mettiamoci anche i decimi(super-yahwwnnnn…)”. Bello? Quindi… terzo punto: io posso parlare al microfono per 5 ore di una gara ma ogni tanto ci devo mettere dentro la monàta, lo scherzo; e gli orientisti magari capiscono che mi permetto di scherzare perché la loro fatica l’ho fatta anche io, e se dico che il percorso è duro, è perché l’ho provato sulla mia pelle. Ok. Sono l’unico a pensarla così. Forsberg di sicuro nel bosco non ci va, ma lui è Forsberg: guarda la cartina e capisce in un nanosecondo dove si deciderà il campionato del mondo. Io sono io. Guardo la cartina e dico “uuuhhh… che bello sarebbe andare a mettere un punto di controllo proprio lì!”, ma poi vorrei anche avere la possibilità di andare a cercarlo!

Sapere già dall'inizio che non concluderò la gara toglie parecchia tensione agonistica. Quella che cerco quando dico agli organizzatori che, alba o non alba, io vorrei fare una categoria agonistica e vorrei gareggiare per essere in classifica, anche ultimo (quasi sempre ultimo). Altrimenti, ma non sarebbe la stessa cosa, potrei cominciare a farmi dare una cartina “tutti i punti” e fare un giro a caso dei paraggi. Oppure, meglio ancora, potrei farmi dare una cartina senza alcun punto e fare un giro ancora più corto. Oppure, ancora, potrei farmi dare una cartina degli Esordienti e farmi il giro sui sentieri: mi alzerei alle 8 del mattino e potrei fare le cose con calma. A questo punto potrei anche non fare nulla e limitarmi al commento. Anzi, estremizzando, potrei anche stare a casa e passare la mattinata all’Ikea. Ma io non voglio andare all’Ikea! Ed il modo migliore per non andarci è quello di mettere l’asticella sempre in alto. Anche se vuol dire incrociarsi con Gianni Biroli alle 6 del mattino nel buio di un parcheggio di Rovegno, Liguria.


Nella penombra del bosco di Rovegno, il primo punto lo trovo facile (c’è davanti la collina) anche se per uscire dal bosco fino al sentiero servirebbero le gambe di Mats Haldin e per convincermi che sono arrivato davvero a 3 metri dal punto, senza dover stare ogni volta a guardarmi intornopensieroso “dove sarò capitato?”, ci vorrebbe l’arroganza tecnica di Gustav Bergman. Per la 2 e la 3 io e Teno (la cartina è ovviamente la sua) facciamo la stessa scelta… a due velocità diverse direi così a prima vista! La 3 è bellissima perché sbarco in piena carenza di idee su un pianetto e all’improvviso dal bosco fitto e impestato mi trovo in una pineta di piccoli alberelli di Natale che fanno tanto "bosco dell’Alto Adige", e per qualche secondo non so se è meglio star lì a sentire il profumo o cercare il punto! La 4 è facile, ma io la prendo dalla strada perché non sono Gustav Bergman, mentre sulla strada per la 5 succede qualcosa per la quale tutti gli Elite dovrebbero offrirmi da bere alla prossima gara… ok! Ho capito che morirò disidratato.

Succede che al ristoro cerco senza successo l’acqua, ed un tale mi si avvicina (stava lavorando con ruspa e benna per rimuovere dei tronchi d’albero) per sapere se ho perso io le bottiglie. No, non le ho perse io, ma le sto cercando… “ah! Devono essere cadute dal camion di qualcuno, e le ho fatte portare via da uno dei miei uomini”. Ach! “Guardi, da qui ad un paio d’ore deve passare una gara… non è che potrebbe farle riportare, che ne avrei bisogno anche io?”. La persona è gentile e mi assicura che chiamerà per far riportare il tutto. Intanto io spiego che ripasserò nel giro di una mezz’ora abbondante (si, come no... mezz'ora), e che sarebbe un piacere potermi ristorare. A quel punto parte il mio Campionato Italiano Long Elite a sequenza libera: 5 – 7 – 8 sfruttando il sentiero (che bello il bosco attorno alla 8!) – 15 con problemi tecnici e almeno due minuti persi sul pianetto – 14 con problemi fisici e parolacce al tracciatore e alle sue prossime generazioni – 13 – 12 e le parolacce arrivano anche agli antenati di Rudy – 11 – 10 e mi riconcilio almeno con gli antenati – infine la 6/9/16 fatta tutta in un colpo solo (che culo correre il campionato a sequenza libera…).

A questo punto si passa alla cartina numero 2. Io la avevo già in tasca bella piegata ma mi immaginavo che gli Elite, trovandola alla 16, avrebbero tirato giù i santi del Paradiso dal 1° luglio al 31 dicembre (il primo semestre lo avevo prenotato io). Arrivo alla 17 in piena carenza di forze fisiche e guadagno faticosamente la strada per tornare al ristoro, dove trovo bottiglie ed il tizio sorridente che mi passa persino un biglietto da visitadicendo “per qualunque problema, chiamami a questo numero!”. Biglietto che sarà passato a Carbone a fine percorso… Quindi, cari Elite che avete trovato il ristoro, mi dovete una bevuta!!!

Forte della mia bottiglietta in mano, faccio la 18 in piena arroganza tecnica svedese. Sono ancora arrogante alla 19 (ma ci arrivo dal bivio di tracce di sentiero), mentre per la 20 resto lì a contarmela su per un po’ senza vedere altra soluzione che fare il “giro del fullo” (Larry cit.): sentiero verso sud-ovest, sentiero verso nord-ovest, giro del collinone verso nord-est e, quando il bosco diventa bello bianco e quasi piatto a digrarare in basso (e cerco di immaginarmi la velocità di uno Scalet…), torno arrogante e arrivo alla 20 senza sbagliare di un metro.

A questo punto ricomincio il mio Campionato a Sequenza Libera: scelta à-la-Tenani fino alla 25, scelta à-la-Stegal (cioè a caso) per la 26. Ancora più penosa è la mia scelta per andare alla 27, nella quale prendo la pietraia di petto o per meglio dire sotto la pianta dei piedi! Rimbalzo due volte verso l’alto perché non c’è verso di attraversare quell’inferno, e meno male che al terzo tentativo trovo il punto perché veramente non sapevo più che pesci pigliare… Trovo il punto ma perdo più o meno definitivamente l’uso della gamba sinistra, la cui reattività rimane tra le rocce attorno alla 27. Usando la sinistra più o meno come una stampella di carne ed ossa, trovo facile la 28 e la 24 (che, o cara grazia!,  posizionata alle colonne d’Ercole dell’inferno e quindi la scelta di percorso è “appena comincio a non stare più in piedi, capisco di essere andato lungo”).

Seduto per terra di fianco alla 24, con l'aria di uno che è fuggito da un carcere di massima sicurezza nelle paludi della Louisiana e sente il latrare dei bloodhound appena dietro le spalle, e con ancora un quarto di bottiglietta in mano, prendo fiato per capire cosa mi aspetta ancora: la 23 è l’ultima vera insidia. La 23 è il punto nel quale di solito torno ad avere un Padreterno e cominciano le litanìe del tipo “Good Lord… fammi trovare questo punto che poi agli altri ci penso io! E potrei persino diventare più buono, ma tu intanto fammi trovare questo…”. Non so se è il Good Lord o il mio Angelo Custode che ogni tanto assume le fattezze di Gueorgiou, ma casco più o meno addosso alla 23: la vedo perché davvero ci sbatto addosso… in questi casi di solito controllo tutto il controllabile a destra e a sinistra e la lanterna mi compare davanti come se niente fosse, ma a 15 minuti al chilometro credo che potrei trovare anche lanterne invisibili. Mi tiro fuori a fatica dalla 23 verso la 22 (“Caxxo! Non era l’ultima insidia… ehhmmm… caro Signore… non  che potresti cortesemente concedermi l’utilizzo della gamba sinistra ancora per qualche minuto? Poi prometto che sarò buono e dirò meno parolacce… ah! Avevo detto anche prima che sarei stato più buono? E invece continuo a dire parolacce?? Ma non vedi anche tu dove ci sta mandando quel *%&$£* di Rudy???”.

Risalita al sentiero. Nuovo giro del fullo sul sentiero (con la tentazione di raccogliere un po’ di mazze di tamburo sparse qua e là) e attacco la discesa per la 29 un po’ più in là rispetto al giro che fa Tenani, ma almeno riesco a tenere insieme i pezzi della gamba ancora per un po’. La 30 è facile, la 31 è ovvia (dalla strada). L’unico problema per la 32 consiste nel passare attraverso le ortiche appena sotto la strada. La 33 è facile ma… porca miseria!... proprio a bordo statale così mi tocca sentire le auto che passano e rifarmi le curve di livello in salita??? Sbaglio anche la 34, e da orientista tecnicamente depresso quale sono, mi immagino persino che qualche Elite potrebbe giocarsi le posizioni arrivando sull’avvallamento (con lanterna) vicino al sasso… insomma che faccia lo stesso errore che faccio io! Probabilmente gli Elite veri hanno messo via la cartina 10 minuti fa e stanno finendo il percorso a memory! 

Per non farmi mancare niente riesco anche a lambire la strada asfaltata prima di scendereprecipitare sulla 35, laddove “precipitare” significa che mi faccio agganciare il piede da un rovo e faccio un volo a planare verso la lanterna proprio nei primi 3 secondi nei quali arrivo a vista dei ragazzi che stanno salendo verso la partenza, giusto perché di figure di "emme"… non ne faccio abbastanza quando il mio nome compare nelle classifiche finali! La gamba tiene ancora per abbozzare un tentativo di volata, nella quale rischio di “abbattere” qualche concorrente che staziona o passeggia lungo il per-nulla-rettilineo finale. Quando sbuco sull’ultima curva, alle 9.52, vedo la lanterna del finish e la prima tentazione è di raggiungerla senza dover correre gli ultimi metri… già, ma con che cosa potrei raggiungerla? Beh… con la bottiglietta del famoso ristoro nel quale è rimasto un ultimo goccio di acqua per le emergenze, no? 

Tiro la bottiglia contro il cartello “finish”, lo centro con un gran botto e, mentregli addetti dell’arrivo si guardano sbigottiti al pensiero di “ma che matto è mai questo?”, mentre il mio orologio si ferma a TRE ORE DUE MINUTI E 42 SECONDI DI GARA, mentre la mia gamba sinistra entra in sciopero sostenuta dai picchettaggi di entrambi i piedi, mentre una vocina del mio cervello dice che ce l’ho fatta!, che ho trovato tutti i punti!, che potrei persino essere il nuovo “Campione Italiano Long Distance a Sequenza Libera”! (la mente, sotto sforzo, vaneggia)… mentre un'altra vocina si complimenta per aver fatto tutto questo con un brick di succo di mela e mezza bottiglietta d'acqua nella pancia, mentre l’unica vocina intelligente del cervello si chiede con quali energie riuscirò a fare lo speaker per le successive 5 ore… mentre mentre mentre... la realtà alla fine dice solo una cosa, unica e inequivocabile:


sono diventato troppo vecchio per queste cose!

(... continua...)

Ho il cuore troppo tenero per certe imprese – parte 2

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Loco di Rovegno. Domenica 27 settembre, ore 5.30. No, non è purtroppo un errore di copia&incolla del pezzo precedente… La sveglia è puntata davvero alle 5.45. L’Angelo Custode, che mi appare sempre nelle vesti di Thierry Gueorgiou, viene a svegliarmi 15 minuti prima del trillo. Decido lì sui due piedi (o, meglio, decido lì per lì sotto le coperte) che non è il caso di voltarmi per guadagnare 900 secondi di sonno. Dall’altra parte della stanza c’è sempre un fagotto che dorme abbozzolato nelle coperte: sempre Gianluca Carbone, che stavolta deve aver fatto le due di notte per gestire le ultime emergenze del Campionato Italiano a staffetta. Alla lucina dello smartphone mi alzo, prendo su tutte le mie carabattole, scendo le scale ed arrivo alla macchina. Solo quando apro il baule, mi accorgo che tutto attorno a me sembra offuscato e poco nitido, e non è né il buio della notte né una evidente stanchezza: sono talmente imbesuito di sonno che impiego un paio di minuti a capire che ho dimenticato gli occhiali di fianco al letto! Il pensiero di fare la gara senza occhiali mi sfiora… ma poi decido di rientrare, svegliando di nuovo tutto il caseggiato.

Ma praticamente è ancora notte fonda. La strada per Pietranera me la sono fatta descrivere il giorno prima. Mentre guido sulle curve, passato Rovegno, mi sembra di riconoscere alcuni luoghi dai quali sono passato il giorno prima durante la Long Distance: la tratta lunga su strada, la piazzola con la gag per il ristoro… Arrivo a Pietranera alle 6.00. Il paese è immerso nel silenzio e nel buio più totale. Stupidamente non mi sono fatto dare uno schema della zona di arrivo, mi sono solo fatto raccontare genericamente una descrizione del tipo “ci sarà un punto spettacolo, un attraversamento della strada, un corridoio fettucciato…”. Trovarli al buio è una impresa, anche se Pietranera è un paese di due case e una chiesa. Trovare un punto nel quale abbandonare l’autoè una impresa ancora più ardua.

Piccolo inciso, giusto per far capire il rischio che abbiamo corso…

Al momento di lasciare l’auto abbandonata, identifico uno spazio tra due alberi come “il punto più innocuo” per non dare fastidio a nessuno. Dico questo a beneficio di tutti coloro che, per entrare nel parcheggio dei Campionati Italiani, hanno dovuto fare 10 manovre per dribblare un’auto parcheggiata alla caxxo proprio all’ingresso del suddetto parcheggio… ecco,  era la mia auto! 

Decisamente non è la mia giornata!

Alla fine, nel buio, mi sembra di intravedere il corridoio fettucciato… per esserne certo devo entrare nel prato e toccare con mano il nastro, per capire se è la nostra solita striscia di plastica bianca e rossa o un recinto elettrificato. Parcheggio, mi cambio e faccio il taping, bevo l’ultimo brick disponibile di succo di mela Esselunga (pensando che se è bastato ieri per la Long, basterà anche oggi per la staffetta Senior) e mi avvio lungo la strada al triangolo di partenza. Orario? 6.25 del mattino. E’ ancora buio, lontano si intravede appena un chiarore, ma ho visto che per arrivare ai primi punti di controllo devo fare la traversata di una ampia zona aperta, e quindi decido di approfittare di ogni minuto per “portarmi avanti con il lavoro”.

Ovviamente devo essere molto circospetto: non sempre riesco a vedere dove appoggio i piedi e basterebbe incocciare il buco di una talpa per andare lungo e disteso! Di conseguenza la mia scelta per attaccare il primo punto non è quella che si vede sulla carta di Alessio Tenani, ma quella à-la-Stegal: prato, sentierone, sentierino fino alla cima dell’ampio collinone, poi la traccetta che porta nel bosco (al buio sembra di varcare la porta dell’inferno) fino a sbucare nella radura. Qui arriva la prima lieta sorpresa della giornata: due volpi sono accucciate a meno di 5 metri da me! Non ho mai visto una volpe così da vicino, e la cosa mi fa decisamente sorridere: ormai credo di essere più noto come “l’orientista che sveglia il bosco” (assicuro che il baccano che faccio con le Inov-8 numero 50 lo sveglia davvero) che per le mie doti al microfono!


Alla radura attendo qualche secondo che l’alba porti un minimo di chiarore, ma gli occhi evidentemente si stanno abituando alla poca luce. Scendo più o meno a casaccio fino alla prima linea di rocce ed arrivo in bello stile (che significa “scendendo più spesso sul culo che sui piedi”) alla roccetta. Il mio secondo punto è più lontano rispetto a quello di Teno, in un avvallamento grosso come una casa, ma quando vado a nord impiego poco a rendermi conto che non ci capisco più una beata fava! Dopo aver girato 5 minuti a vuoto e tirato giù i santi che si erano appena ricollocati in cielo dopo la Long, torno sotto la roccetta, rifaccio il punto della situazione, vedo che l’ago della bussola punta di lì e che la direzione che avevo preso prima era di là, e alla fine impiego circa 9 minuti per un punto da fare in 2! Punto 3 abbastanza facile prendendolo dal primo fosso, ma poi sbaglio anche il punto 4: arrivo in cima al nasone ad est del punto, mancandolo di qualche metro, e devo scendere di nuovo tra le rocce prima di poter dire “ok, sono arrivato”.

E’ il momento della prima tratta lunga: torno al nasone nel bosco, traccia di sentiero… e seconda gradita sorpresa!Un cervo!!! Un autentico cervo con palco di corna e tutto, sul sentiero a pochi passi da me. Non ne vedevo uno in gara dai tempi di Anterivo. Quel cervo non è per nulla spaventato  da me, se ne sta lì fermo come se io fossi appena un alito di vento nell’alba di Pietranera. Io resto lì per qualche secondo senza sapere cosa fare (sono pericolosi i cervi?) ma alla fine il quadrupede si gira e si dilegua nel nulla. Così anche io posso procedere, fino ad uscire di nuovo sul prato… ora l’oscurità ha lasciato spazio alla luce, ma il Principe Ignoto che è in menon può cantare “Dilegua o notte!... Tramontate, stelle!... All'alba vincerò!”: può solo capire che dopo essere stato per 20 minuti nel buio del bosco con le pupille dilatate, la luce del mattino sembra uguale a quella di mille riflettori a San Siro!

Il fatto di essere venuto a capo delle prime 4 lanterne in condizioni “Tiomila Langa Natta ma senza pila frontale” in un tempo appena decente, mi convince del fatto che ho la possibilità di fare le cose con calma, quindi per andare alla 5 torno alla strada, scendo verso sud ed attacco la zona dal sentiero.

Da qui in poi le cose prendono una piega sbagliata, ma tanto sbagliata, che più sbagliata non si può.

Si inizia con il punto 5, che non è difficile e per fortuna non è uno dei roccioni sul costone ma il primo che si incontra andando in bussola. Solo che da quel momento il mio percorso assume i contorni di un incubo, più che di una gara in solitaria. Inizio cominciando a scendere tra le rocce, ma tra la penombra ed il terreno che mi sembra ridotto ad una specie di ghiaione, mi sembra di essere sull’orlo di un baratro di cui non vedo il fondo, con il terreno che sta rapidamente cedendo sotto il mio dolce peso ed i sassi che franano e rotolano senza che io percepisca il fatto che si fermano da qualche parte. Mi isso un po’ a fatica in una zona sicura e provo un secondo tentativo: peggio del precedente! Evidentemente il mio Angelo Custode, dopo avermi svegliato prima dell’alba, ha deciso di andare a cartografare la pineta di Sarnonico! Mi sposto ad est e comincio a scendere di sbieco, ma senza migliori risultati… alla fine decido di risalire fino alla traccia di sentiero e puntare verso nord-est, facendo un giro assurdoper cercare di arrivare al punto 6: mi sembra ugualmente una specie di discesa agli inferi, ma almeno per un po’ riesco a seguire la traccia di sentiero che porta sempre più vicino al rumore dell’acqua che scorre.

Quando finalmente arrivo nel vallone, abbastanza tremante e sudato gelido ma più per la paura che per la fatica, impiego quella che mi sembra una eternità per arrivare a capo della 6, e poi della 7 (per fortuna la scala è 1:10.000 e la sofferenza nel verdone è minore rispetto al giorno prima). Sono talmente a pezzi che, per andare alla 8, salgo sulla strada e poi corro da est ad ovest lungo il sentiero: penso di aver trovato il punto, alla fine, ma ad essere sincero non è che ormai me ne importi più di tanto. La 9 è facile (raggiunta ancora dal sentiero) e la 10 se il Good Lord vuole è ancora più facile (perché ci sono passato il giorno prima). La mia 11 per fortuna è molto più vicina e facile di quella della carta di Teno (si trova al bivio dei ruscelli, quindi non la sbaglio nemmeno se volessi) e mi posso astenere dalla scelta che con ogni probabilità, a vedere la carta di Teno, mi avrebbe visto fare di nuovo il giro del fullo del giorno prima, per prendere la lanterna dal sentiero ad ovest. Nel frattempo sono passato dalla zona dove si stanno organizzando quelli del campionato di softair: mi sembra di ricordare che, la sera prima, un paio di questi  si erano procurati due pettorali dei nostri campionati italiani con i quali intendevano “mimetizzarsi” per fare qualche agguato alle squadre avversarie! Se questa cosa è trapelata, sono spacciato ma giuro che se qualcuno mi salta addosso pensando che io sia una specie di Rambo dell’altra squadra, lo squarto a mani nude peggio dello sceriffo Teasle!

Alla 12, sinceramente, so di esserci arrivato (arrivato a capire che sono in cima al roccione, intendo) ma di fare il giro e scendere al piede della roccia non ne ho la benché minima intenzione… anche perché il morale è ormai sotto i tacchi, la voglia e l’animus pugnandi sono andati a farsi un giro altrove, dell’Angelo Custode ho già detto, ed io ho già capito da tempo che questa volta non finirò la gara! Raduno le ultime forse per arrivare, via strada e sentiero, alla 13 ma poi mi dichiaro ad alta voce che la mia avventura è finita lì: la 14 sarebbe ancora raggiungibile, tornando sul sentiero (pazzo chi è andato lungo il fiumiciattolo!), ma a quel punto il modo più facile per tornare al traguardo sarebbe quello di proseguire fino alla 15 e da lì issarsi alla quota del ritrovo, ed io non ho la benché minima intenzione di affrontare di nuovo il fondo dell’orrido vallone tra le rocce!

Prima di ritirarmi, però, voglio togliermi la soddisfazione di andare a vedere se il burrone sotto la 5 mi appare in modo diverso sotto la pallida luce del primo sole del giorno; torno alla strada, faccio il giro dei tornanti, arrivo di nuovo a nord del punto e rientro nel bosco: la lanterna non è ancora stato posata, ma il burrone mi appare ancora nella sua orrida ovvietà. Mentre rientro verso la strada, incrocio Rudy che sta andando a posare e gli esterno qualche mia preoccupazione, cosa che farò qualche minuto dopo con Raus quando lo incontrerò mentre sta andando a posare alcune lanterne della prima parte di gara.



Da qui avanti sulla mia esperienza come apripista non ho nulla da dire. Vado avanti a scrivere solo come ricordo per il mio diario personale.

Innanzitutto cominciamo a mettere le cose ancora più in chiaro. Fare il tracciatore non è il mio mestiere!Non ne sono capace, non ho fatto e non farò mai corsi di tracciatore, non ho alcuna esperienza di tracciatura nei boschi. L’orienteering non è ancora pronto per un tracciato (di qualsivoglia livello) firmato Stegal. Continuo a ribadire che è quasi una magia il modo in cui i tracciatori, con alchimie che secondo me sconfinano nella stregoneria, riescono a far combaciare i tempi attesi per una gara secondo quanto previsto dalle regole internazionali con il disegno del percorso sul quale gareggeranno atleti di qualsiasi livello. Per quello che ho sentito, non solo in occasione del 2015, fare il tracciatore di una gara di Campionato Italiano implica un lavoro che in passato (ed era il 17 febbraio 2012), avevo provato a commentare in un pezzo dal titolo “La vera storia di questa storia

Chapeau ai tracciatori, quindi, da parte di coloro ai quali il tracciato del Campionato Italiano Senior a Staffetta è sicuramente piaciuto: Mamleev, Tenani, Inderst, chi ha vinto nelle categorie Elite, Master e Giovani ed anche chi non ha vinto ma ha trovato pane adatto per i suoi denti e si è divertito. Faccio i complimenti a tutti coloro che sono scesi sul campo di gara il 27 settembre, e che hanno affrontato la tenzone con abilità fisiche e tecniche sicuramente superiori alle mie. Io però, e non mi capita spesso, mi sono sentito molto a disagio, anzi sempre più a disagio, mano a mano che procedevo nel bosco. Non intendo dolermi per il tipo di terreno di gara: preferisco i boschi bianchi alla maglia nero-verde del Sassuolo che ho affrontato a Pietranera, ma a Monza solo una settimana prima una potenziale campionessa italiana mi aveva severamente ammonito con la frase “dove c’è carta, c’è gara!”. 

Il fatto è che quando mi sono trovato per la seconda volta ad annaspare sulla discesa dalla 5 alla 6, non pensavo più alla mia gara ma a tre nomi che avevo letto sulle griglie di partenza (e tengo a dire che non è affatto colpa loro se la mia gara è finita nel modo che ho già descritto): si tratta di Lily, Tommy e Marisa ai quali esterno adesso (se mai lo verranno a sapere) il mio pensiero, e magari commenteranno scuotendo le spalle e dicendo “ma questo non potrebbe farsi i cavolacci suoi, che a noi il percorso è andato benissimo così???”. Il mio percorso era una “M Senior”, non una “M Elite” e questo, un po’, secondo me comincia a generare qualche piccolo equivoco.

In Italia non tutte le staffette Senior sono composte unicamente da autentici Elite, ma ci sono anche squadre degnissime che vedono un terzo frazionista altrettanto degno ma magari meno avvezzo a passare là dove i vari Hubmann e Lundanes, ma ovviamente anche i vari Seba Inderst, gli Emiliano Corona, i Miki Caraglio, i Misha Mamleev, i Jonas Rass, i Lorenzo Pinna, i Jack Nisi, i Marek Hadam (andando a memoria su alcuni dei passaggi segnalati dall’ottimo Fabio Storti – che approfitto per ringraziare - che era al punto radio nel bosco) non si fanno problemi e non hanno alcuna remora a lasciar andare le gambe in discesa.

Ma domenica 27 settembre a Pietranera non sono così convinto del fatto che fosse necessario inserire alcune specifiche tratte per fare quella selezione di minuti e minuti che poi al traguardo abbiamo visto con i nostri occhi. Quando sono tornato dal bosco, mi sono sentito addosso una grande responsabilità, e con il distacco del tempo che è trascorso devo ammettere che questa si è manifestata nel modo sbagliato.

Per questo modo mi scuso qui con il tracciatore, il controllore e gli organizzatori.

Io mi sono sentito addosso la responsabilità di trovare un modo per dare qualche avvertimento agli allenatori, ai master che magari non hanno più l’elasticità mentale e soprattutto fisica per reagire ad una improvvisa situazione complicata, ma soprattutto a quei ragazzi che non hanno una piena maturità tecnica e, in una gara a staffetta, possono arrivare a rischiare più del dovuto o a sentirsi addosso la responsabilità di coprire un “buco” di una staffetta con due atleti più forti.


(foto by Davide De Nardis)

Il modo in cui questa responsabilità è uscita fuori, prima di accedere al trabattello dal quale ho commentato la gara, e poi nei minuti prima del via, può essere stato sbagliato nella forma e nella sostanza. Con il senno di poi posso dire che, non dovendoci essere nessuno nel bosco prima delle 9.30, non dovrebbe esserci nemmeno nessuno a ricordare agli atleti che, prima di ogni altra cosa, noi siamo tutti esseri umani dotati di senno, e che quel senno e quella lucidità dobbiamo usarla anche nel bosco prima di andarci a mettere nel pericolo. Credo che in un momento che per me è stato emotivamente difficile soprattutto dopo quanto è successo due anni fa, queste siano state le parole che ho usato (ma anche quando mi troverò di fronte di fronte a San Pietro, o al giudice Di Pietro, dovrei ammettere come un novello Arnaldo Forlani che “non mi ricordo…”)

Il giorno stesso della staffetta e poi ancora nei giorni successivi e infine anche all’Arge Alp di Aprica, ho ricevuto a riguardo commenti tra l’arrabbiato, l’offeso, il perplesso ed il comprensivo. Uso volutamente tre parole con una connotazione negativa o parzialmente tale ed una parola con una connotazione positiva perché, in percentuale, questa è stata la distribuzione dei commenti. (non sto parlando di commenti fatti da tracciatore, controllore ed organizzazione con i quali non ho più parlato dopo la gara di questo argomento!).

Mi scuso quindi con coloro che, come atleti si sono sentiti negativamente sorpresi dai miei “avvertimenti”: coloro che sono dotati dalla natura, dall’età e dall’allenamento di qualità tecniche e fisiche in grado di domare tutte le zone di bosco che abbiamo attraversato a Pietranera; coloro che sono sicuri del fatto che un percorso che assegna un Campionato Italiano debba essere per forza di cose molto più challenging di quelli che affrontiamo ogni settimana; coloro che, gareggiando in una categoria molto giovanile o molto master, non hanno affrontato alcuna delle tratte che ha messo me in seria situazione di difficoltà e quindi al traguardo sono rimasti basìtiper il modo in cui io, che non ho alcun ruolo per farlo, mi sono permesso di suggerire prudenza prima della partenza.

Nella mia esperienza di speaker-corridore ho sempre cercato, come è successo anche ad Aprica nello scorso fine settimana, di essere un valore aggiunto lungo il percorso, in qualità di atleta (parola grossa) che cerca di testare il percorso veramente da vicino, nelle condizioni di gara e senza precedente conoscenza, prima che su di esso si cimentino i concorrenti veri. Voglio ringraziare Tommy Civera e Lucia Curzio che, in occasione della staffetta di Aprica, hanno ascoltato la mia esperienza fatta poco prima del via ufficiale, decidendo poi in autonomia se apportare un minimo correttivo – mettere giù delle fettucce e chiedere l’eliminazione di un recinto che io ho intravisto a due metri di distanza quando mi ci stavo lanciando contro - oppure no.

Spero che questo mio modo di pensare, in futuro non debba costituire una difficoltà, sarei pronto a discuterne ed eventualmente rivedere il mio ruolo.

Ma forse è proprio vero: il mio cuore è diventato troppo tenero per certe imprese!


(… continua…)

In ricordo di Luciano

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Dedicato a tutti i papà e a tutte le mamme che ogni giorno fanno del loro meglio
in silenzio e con coscienza, per la propria famiglia e per i propri figli,
affinché crescendo imparino il significato delle parole “responsabilità” e “serietà”
in un mondo che è sempre più complicato.
Quelle mamme e quei papà che insegnano il senso del rispetto verso le altre persone,
l’importanza dello studio e dell’educazione vero il prossimo,
la dedizione ad una passione sportiva.

Luciano è stato tutto questo ed anche molto di più.

Ogni volta che tutti noi guarderemo negli occhi Viola e Giacomo,
non potremo fare a meno di ritrovare la luce che emettevano gli occhi del loro papà Luciano,
di ricordare le chiacchierate fatte lungo un rettilineo di arrivo, ai ritrovi prima e dopo la gara.

Quando affrontiamo le difficoltà di ogni giorno
se affermiamo di farlo portando nel cuore il ricordo dei nostri amici,
non dimentichiamoci che questa è una promessa che abbiamo fatto loro,
e che dobbiamo mantenerla viva sempre,  
con l’esempio e con il nostro comportamento.

Grazie Luciano per tutto quello che mi hai dato, per tutte le parole che ci siamo detti,
E per l’abbraccio che è arrivato fino a Schio sabato scorso.

Altre disavventure di un orientista impreciso

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Ce l’ho fatta. Sono arrivato al 24 ottobre e sono ancora in piedi! I’m still standing, come cantava Elton John. Una data che avevo segnato in rosso sul calendario, seppur non coincidente a tutti gli effetti con alcuna gara del calendario orientistico. Il 24 ottobre, infatti, ho virtualmente chiuso la mia stagione orientistica 2015. Si, ok, potrebbero esserci altre uscite… aspetto con il consueto timore reverenziale la “50 lanterne”, o la bi-sprint di Angera nella speranza che sia un po più ricca di scelte di percorso rispetto alla passata bi-sprint di Ghemme. Ma il grosso delle fatiche si trova ormai alle spalle, con un rush finale che si è dimostrato più temibile dell’arrivo in salita sul Muro di Huy al 16% di pendenza: dopo i Campionati Italiani Long e Relay già descritti e la Tuscania Five Days (cui dedicherò un capitolo a parte), c’è stata l’Arge Alp e infine le finali di Suunto Sprint Race e Coppa Italia: gli ultimi quattro appuntamenti sia come apripista che come speaker.

Il titolo lo prendo direttamente dall’ultimo commento che ho sentito domenica scorsa, lasciando il campo di gara innevato di Campomulo. Di fronte alla mia performance sulla media distanza, percorso MElite in un’ora cinquantanoveminuti e tot secondi, un forte orientista con alle spalle alcune gare di campionato del mondo mi ha palesemente liquidato con un “eh… non sei certo un orientista molto preciso…”.

Ora: poiché di campionati mondiali ce ne sono ogni anno, di vario genere (maschile e femminile), numero (junior, assoluti e master) e grado (C.O., MTB-O, Sci-O, Trail-O) la citazione è sufficientemente vaga per non lasciare alcun indizio alle torme di miei fans e di mie fans che potrebbero leggere nella frase di cui sopra un reato di lesa Maestà e partire, fiaccole e forconi in mano, alla ricerca del fellòne o della fellòna per applicare la giusta punizione. In effetti, parlando solo della gara di Campomulo, i miei 119 minuti di gara + bava alla bocca + arrivo in totale apnea + visioni e miraggi vari sono materiale sufficiente per accettare il parere illuminato di cui sopra, metterselo in saccoccia e via così che magari ci vediamo l’anno prossimo su questi stessi scherni(no, non è un errore di stampa… non volevo dire schermi ma proprio schermi… ah! ah! ah! sono il re dei giochi di parole e li devo pure spiegare).

Ma poiché la giuria dei film U.S.A, anche quando si tratta di giudicare un colpevole di sgozzamenti multipli con vituperio di cadaveri, lascia sempre l’ultima parola al condannato… sia mai che quello tiri fuori un pistolotto che Al Pacino gli fa unapippa e così lo lasciamo andare bello contento in nome della bella letteratura, voglio avere anche io la possibilità di spiegare come ho trascorso le mie ultime 5 ore e 32 minuti (trecentotrentadue minuti) nei boschi della penisola, laddove a conti fatti la somma dei tempi dei vincitori delle ultime quattro gare è stata di 2 ore e 34 minuti (centocinquantaquattro minuti)!

Piccola precisazione: una lettrice, tra i due tesserati Fiso che leggono il mio blog, (e poi Dario P. dice che non è vero che il suo è il blog più letto d’Italia: ma guarda che bastano tre lettori per essere in cima alla hit parade! E poi si contano solo quelli che arrivano alla fine dei pezzi) mi fa presente che le ultime puntate dei miei racconti sembrano entrare di diritto nel filone orientistico noto come “ti racconto il mio percorso dal triangolo rosso all’arrivo, curva di livello per curva di livello e limite di vegetazione per limite di vegetazione… e tu seguimi sulla mappa e non perdere il filo! Anzi: se hai due schermi, su uno leggi il racconto, sull’altro segui la mappa e almeno impara qualcosa ‘azzarola!!!”.

Purtroppo, da me c’è poco da imparare. Le curve di livello sono una roba che boh?!? Non capisco nemmeno se devo andare in salita o in discesa finché non mi ci trovo. Le linee color magenta sto ancora lì a cercarle sul terreno ma non le vedo mai (eppure quel tal mio amico Sgiorsgiù le trova sempre…), ed i miei split times sono competitivi solo rispetto alla deriva dei continenti o alla precessione degli equinozi. Quindi questa volta limiterò al massimo la descrizione delle mie evoluzioni pindariche sulla cartina, laddove la linea più breve tra un punto e l’altro è per me sempre l’arabesco (cit.).

Capitolo 1:  i primi 71 minuti poco precisi.

La staffetta Arge Alp è stata un antipasto di (quasi) tutto riposo rispetto all’individuale della domenica. Non sono un amante della carta “Aprica bordo sud” nella quale abbiamo corso due anni fa i campionati italiani a staffetta. Faccio sempre una fatica da bestia sudicia a venire fuori dalla zona di partenza, su quel prato tipo pascolo che nasconde solo insidie per le caviglie, e sul quale sento nei polmoni tutto il peso dell’altitudine cui non sono abituato. Però, almeno stavolta, quando finalmente esco dal pascolo ed entro nel bosco mi sembra di aver finito di soffrire. Attraverso, corricchiando e cercando di non dare troppo nell’occhio, la zona dove pascolano le mucche; poi scopro che invece qualcuno mi ha già sgamàto e mi rincorre con voce irata e con la spingarda imbracciata e caricata a grani grossi di sale; l’intervento, quasi postumo – e parlo di me! - del vice sindaco di Aprica garantirà a tutti i concorrenti una gara tranquilla, come orientisti e non come bersagli del tiro a segno. 

Il mio appuntamento con la gloria orientisticaè alla lanterna numero 4, carbonaia che il controllore Mark Widow’sassicura essere tecnico e di difficile reperibilità. Io vengo su dall’angolo del prato, in bussola, trovo pure una traccetta nel bosco in salita e … ohibò! Ecco il punto 4! Si vede che ogni tanto il Signore dei Ciuchi (in milanese sarebbe il Signùr di Ciùcc, ma vuole dire un’altra cosa) guarda giù e mi aiuta, perché pensa che sennò questo va a finire in Valcamonica e col cavolo che poi abbiamo uno speaker per la gara del pomeriggio!


(la carta di gara HElite, ricavata in pennarello rosso da una W55 inutilizzabile)

Il tracciato di Tommy Civera non ci scaraventa troppe volte su e giù per il pendio; il mio contributo come apripista lo do (se mai qualcuno me lo avesse chiesto) segnalando un paio di recinti che, in discesa, persino l’impiegato panzottello vede apparire all’ultimo momento prima di un possibile impattaaAARGGGGHHH! (verranno messi nastri segnalatori, ed un paio di recinti verranno aperti del tutto). Così, dopo aver affrontato anche la seconda parte del giro sui pratoni e tra le paludi, vengo a capo della faccenda nel giro di 1 ora, 11 minuti e qualche secondo. Dopo i saluti di rito con il gruppo emiliano-lombardo che sta preparando l’arrivo, mi posso concedere una bella doccia, una seconda colazione ed un po’ di riposo, con il pensiero che per la prima volta nella mia carriera da apripisspeaker (neologismo che troverete in una delle prossime edizioni dello Zanichelli, ma solo se ‘sta cosa prende piede) posso dire di aver finito la gara prima ancora che i concorrenti arrivino in zona gara. Ovviamente questo darà origine all’illazione, dovuta alla mia pulizia ed alla mia apparente freschezza in zona ritrovo, che “questa volta Stegal il giro non l’ha fatto!”. E invece si!


(Minkia!!! Lo yeti!!!)


Capitolo 2:  i secondi 115 minuti. Appena più precisi, ma col vomito!

Se nel sabato della staffetta Arge Alp posso fare tutto con calma, non così la domenica. Intanto occorre salire in quota  con la cabinovia, e all’alba la temperatura è decisamente gelida: sul terreno che porta alla partenza, e poi spesso lungo il bosco, si incontrano ampie zone di brina ghiacciata ed i piedini prima di fare sciaff! sciaff! nelle zone paludose fanno cric! crac!... e non sono le articolazioni ma la crosta di ghiaccio che si rompe. Partirei con la termica, se non fosse che FA VERAMENTE FREDDO! Di conseguenza sostituisco la termica con un pesante pile. Questa soluzione ha il pregio di farmi stare più caldo, ma ha il difetto che la traspirazione del tessuto è azzerata e questo provocherà a momenti alternati il congelamento e l’andare arrosto.

Alla partenza, e sono le 7.20 del mattino, Lucia Curzio si traveste da comica di Zelig e mi dice una roba del tipo “puoi partire da lì dove sei, anche se la partenza in effetti è qui tra questi due massi” (distanza tra “lì dove sono” ed i due massi = tre metri). Arrivo al primo punto mentre Giamba Ravasio lo sta posando. Arrivo al terzo punto mentre Giamba Ravasio lo sta posando. Lascio il sesto punto mentre Giamba Ravasio lo sta posando (giusto per fare copia & incolla). Ho un lieve problema di orientamento solo sul secondo punto, cui passo sotto di un paio di curve: mi ricolloco sulla mappa, identifico il punto, vado verso il masso in salita e qui avviene un dialogo surreale come può verificarsi solo alle 7.30 di un mattino di tranquilla posatura punti.

Scena: sbuco dietro al sasso e trovo Tommy Civera accucciato per terra e aggrappato al paletto.
Tommy! Ma stai cagando proprio sul punto di controllo???
Stegal! Ma ti pare che cago sul punto di controllo??? Mi sono accucciato per non farmi vedere da te!
(chiedo perdono per il linguaggio grezzo e maschio che usiamo noi che andiamo per boschi all’alba, ma sic stantibus rebus…)

Il resto del percorso non mi impegna nemmeno tanto dal punto di vista tecnico (vado piano, le lanterne si trovano come i cercatori di funghi trovano i porcini), e le lanterne nella bella parte di bosco a-bordo-carta-ma-non-troppo le infilo una dietro l’altra in compagnia dei posatori Mark Widow’s e MauTode. Dopo la 16, la mia scelta di percorso prevede di passare dritto il mezzo al ritrovo! Di stare in costa e andare a precipizio sul punto non ne ho alcuna voglia… meglio scendere pian piano, tagliare in mezzo alle tende (sono campione olimpionico di scelte che nemmeno il tracciatore vede) ed arrivare a 5 metri di distanza dal punto successivo stando sul sentiero! La mia scelta verrà descritta sulle prime come poco precisa, velleitaria ed inutilmente spettacolare … fino al momento in cui succede che dalla stessa strada passano: Christine Kirchlechner, Simone Grassi, Ingemar Neuhauser, Simon Seger, Donatus Schnyder, Mikhail Mamleev! E questo credo basti e avanti per alimentare il mio spropositato EGO! (no, Valerio Casanova, non ti ho dimenticato… come vedi sei citato pure tu! Ma quando mai mi leggerai?).


Sul percorso nulla da dire, se la gara finisse al punto 18. Invece Paolo Mario “PossanoMenarti” Grassi decide che non è finita lì, e di mandarci giù nella rumenta più nera (punto 20) per poi farci risalire gratis qualche buona curva di livello. Nel titolo del paragrafo accennavo a qualcosa che inizia per vo- e finisce nel –mito, che è esattamente quello che mi provoca lo sforzo di venire su fino al traguardo, dove arrivo poco pulito e solitario in un tempo che è solo 50 minuti superiore al quello di Stefano Maddalena (il che, più o meno, rende la mia gara una delle migliori dell’anno). Poi succede anche che il buon Madda dica che lui è andato piano perché le H45 bisogna vincerle in 45-50 minuti… a me viene solo da rispondere che se a Usain Bolt fai correre i 120 metri anziché i 100 metri (ma la gara la chiami ugualmente “100 metri”), non è che Bolt ti dice che ha fatto una schifezza perché ci ha messo più di 9.70! Però il Madda è il Madda, e non sarò certo io a convincerlo…

Capitolo 3: i terzi 27 minuti. Pochi, ma solo grazie a MikiRonda…

A distanza di una sola settimana dal freddo e dalle fatiche (e dalle emozioni) dell’Arge Alp, arriva l’ultimo fine settimana di doppio (… sarebbe quadruplo…) impegno. Per fortuna la prima tranche del weekend è dedicata alla finale della Suunto Sprint Race Tour e, se il Good Lord vuole, a Schio posso finire la gara in un tempo che non è quello con il quale i keniani bravi fanno i primi 40 km della Maratona. Grazie all’intuizione dell’ultimo minuto di Marco Giovannini, non sono nemmeno costretto a fare il viaggio da solo! Arrivando a Schio, ci accorgiamo subito che una gara tra le bancarelle ed i mercati del centro renderebbe la cosa molto ma molto (e drammaticamente) simile ad una Venice-by-day o ad una Rome-by-Mayday… 

Alla fine i percorsi disegnati per l’organizzazione dei miei amici del Viorteam andranno solo a lambire il centro ma, con i passaggi nei parchetti ed un po’ di dislivello che a Schio non è mai buttato lì per caso, verrà fuori una gara che non esito a definire davvero graziosa. I miei 27 minuti di gara sono il risultato della collaborazione tra chi scrive (e corre) e Michela Ronda che pedala al mio fianco e mi incita, così intanto si fanno anche due chiacchiere per passare il tempo durante le tratte più scorrevoli. Per chi non fosse a conoscenza dei trascorsi tra Miki e me, posso solo rimandare ai ricordi di quella salita e del coraggio che Miki mostrò quel giorno(e, da quel giorno in poi, tutti i giorni), che sono incisi con il cacciavite nel disco rigido della memoria.


Grazie alla complicità di Denis Vecellio e di Andrea Maccà, riusciamo persino ad organizzare una bella premiazione con lo speaker da una parte ed il podio dall’altra (non è mai abbastanza chiaro che sul podio ci devono andare i vincitori, mica io!)…



(questa è Aprica, by Paolo Menescardi = dove deve stare lo speaker durante le premiazioni)


Capitolo 4:  gli ultimi 119 minuti. E scusate se poi sono poco preciso!

… anche perché le notizie che arrivano da Campomulo parlano di un terreno innevato da una spruzzata di neve e di un freddo che lévati! Sabato sera, nel briefing pre-gara, il Bravo coach Cristian Bellotto (course setter of the year 2014 secondo i siti e le riviste più autorevoli) aveva già deciso per tutti che la mia idea di passare dalla MElite ad una più tranquilla M40 “non s’aveva da fare”. Neve o non neve, freddo o non freddo, sul percorso M40 avrei trovato “qualche loop in meno”, “qualche difficoltà in meno”, “un po’ di dislivello in meno”, “un bel po’ di divertimento in meno”. Insomma: quando tempo addietro avevo esclamato “Coach! Che bello! Vengo a provare l’Elite… dai dai metti un punto sullo steso sasso che Sgiorsgiù ha cannato l’anno scorso!!” mi ero fatto su il sacco al letto da solo!

Le ultime parole (poco famose) del coach prima di accomiatarci sabato sera sono state più o meno del tipo: “Considerato tutto, direi che puoi farcela in un’ora e un quarto”. Bisogna però tradurre dal Bellottesco allo Stegalliano, nella stessa misura in cui quando una donna ti chiede “Quanti anni mi dai?” tu fai un carpiato all’indietro, valuti l’età che diresti e poi togli subito 10 anni e poi altri 5 o 6 perché ci tieni alla pelle (e se fai una figura di emme anche così, vuol dire che trattasi di autentica “cozza”): le parole del coach vanno lette come “Considerata la panza, il fatto che vai piano e qualche vaccata ce la butti dentro, se stai sotto l’ora e mezza sei un miracolato, ma non è che te lo posso venire a dire in faccia”.

Lo Stegalliano viene poi ulteriormente arricchito da una più attenta lettura del Devoto-Oli-Rocci-Sticavoli: “Se il coach pensa che se sto sotto l’ora e mezza sono un miracolato, considerato che per terra c’è neve, che parto all’alba, che non  sto in piedi, che il ginocchio fa contatto col gomito… un’ora e quarantacinque e speriamo in bene!”.

Risulterà poi che chi corre sperando, arriva sbavando…

Sui primi tre punti me la cavo anche discretamente, seguendo le orme dei posatori (il che mi fa visitare il doppio delle lanterne del mio percorso, ma chissenefrega). Ok: finisco per terra più volte di quanto fece Primo Carnera contro Max Baer, ma l’importante è rialzarsi sempre! Quando poi mi sposto nella zona Sgiorsgiù, quattro punti disposti attorno al sasso più famoso dell’orienteering mondiale, il mio Angelo Custode si ricorda di avere un appuntamento da qualche altra parte (spero per lui un posto più caldo e meno impervio) e mi pianta lì come quello della maschèrpa. Il fatto è che la 3 è il classico punto “Good Lord, fammi trovare questo che al resto ci penso io”. Il Good Lord esegue e poi sta a vedere cosa faccio io…


Ed io faccio schifo: 7 (capirai… mi sono confuso… sta lì in mezzo… si era confuso anche Sgiorsgiù!) – 4… e oh! Per arrivare alla 4 sono dovuto scendere giù sul sentiero! – 6! – 5 (finalmente, dopo varie Madonne e minacce che “se non lo trovo stavolta, torno a casa!” – 6 solo perché ormai capisco dove sono passato prima e 7 perché ci sono già passato due volte e tra un po’ mi danno la cittadinanza o il foglio di via. Intanto se ne è andata la bellezza di un’ora e la previsione originale del coach è di una precisione tale da far passare per rigorosi e inflessibili quei mattacchioni dell’Indiana secondo cui PiGreco valeva 3,2. Il mio Angelo Custode si vergogna e decide di mandare un sostituto che si fa trovare sul sentiero proprio dove, molto tempo prima, avevo attaccato la 4.

Solo che il sostituto è Maja Alm.

Flashback. 
Nel luglio 2014 eravamo nello stesso posto (Campomulo) a correre una roba tipo “Staffetta Mondiale”, vero? Una delle frasi rimaste celebri quei giorni (non paragonabile alla “Michiels will be in first place at the changeover, because I said so!” ma siamo lì…) è stata detta durante il duello all’arma bianca in ultima frazione tra Wyder, Alexandersson e Alm. Mentre Wyder sembrava andare a vincere da sola, mentre Per Forsberg faceva il tifo perché il cervello tornasse nella scatola cranica di Alexandersson che stava vagando stile-Stegal, io me ne uscii con una cosa del tipo che la gara non era ancora finita perché Maja Alm sarebbe “venuta giù dalle moops a tutta velocità” (che sarebbe un’altra citazione di un altro evento sportivo… ma lasciamo perdere che il discorso è già contorto così). Così avvenne. Poi la Svizzera vinse lo stesso, ma non prima che Alm facesse venire il cagotto alle rossocrociate venendo giù abbomba dalle moops…

Adesso torno a me. Sono sul sentiero e compare Maja Alm. Il bosco improvvisamente è bellissimo, c’è il silenzio, non sento più freddo, la visibilità è ampia e… BUM! Dritto sulla 8. Mi giro, leggo le curve di livello come se le avessi inventate io e… BUM! Dritto sulla 9. BUM! Dritto sulla 10. Con l’accompagnamento della bionda danese e in un bosco finalmente vivibile, arrivo alla 13 in bello stile. Solo che commetto il peccato originale, mentre vago tra le buche fettucciate attorno alla 14, di dire a Maja che “… adesso faccio da solo”.

Sbarco sul sentiero e tiro due accidenti al coach! Va bene che ho da fare 220 metri di dislivello, ma se proprio mi evitavi di fare il salto da una parte all’altra della montagna… affronto la salita, non ne posso più, sono in giro da un’ora e mezza e improvvisamente… improvvisamente… mi cade l’occhio sulla scelta tutta su sentiero! che avrei potuto fare andando dall’altra parte. Giuro che mi stavo mettendo a piangere. Giuro che ho pensato che per punizione avrei dovuto fermarmi lì, congelare ed essere ritrovato al disgelo a primavera! Mi è venuto un tale magòne che non sono nemmeno più riuscito a rimanere sulla linea che mi ero prefissato, ma sono arrivato fino al tornante della strada: il tornante PIU’ A NORD!

Da quel punto, arrivare alla 15 è stato un velleitario tentativo di far apparire normaleuna gara che di normale non aveva più nulla; nel frattempo erano arrivate anche le 10, ovvero l’orario massimo entro il quale uno speaker degno di questo nome dovrebbe essere all’arrivo, lavato e pettinato, a dare il buongiorno ai concorrenti (magari dovrebbe farlo già alle 9.30…). Anche perché, per sovrappiù, la fatica e la bronchite mi avevano formato un tale blocco di catarro in gola che non respiravo più, se non con fatiche ancora maggiori di quelle date dalla corsa. Ecco spiegato il motivo per il quale, per lo schifo di tutti gli astanti, sono arrivato al traguardo più bavàto di un San Bernardo… solo che la botticella avrebbero dovuto picchiarmela sulla testa per via della mia insipienza tecnica!

119 minuti di gara, e anche Maja Alm se ne è andata urlando “Gid din røv må klø og dine arme være for korte!”.


E tutto questo per sentirsi dire che non sono un orientista molto preciso!

Ultimo post dell'anno

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L’ultimo post dell’anno, come tradizione vuole, dovrebbe essere dedicato ai ricordi della stagione appena trascorsa. Una tradizione, quella di rimembrare fiaschi – nel senso di sconfitte – e bottiglie di vino – che di solito rappresentano il classico premio per la vittoria in una categoria master - che è stata iniziata qualche anno fa dal massimo esponente dell’orienteering bloggato, il grande Dario P., e che ha visto accodarsi tutti gli altri blogger di minor spessore (non considerando tale chi si occupa di tabelle Fiso…) come i bambini che seguono il pifferaio di Hamelin nel tragico finale della storia. A vantaggio del giovane Dario P., la possibilità di raccontare duelli al calor bianco con i più forti orientisti Elite e Master della scena nazionale ed internazionale, l’abilità nel mostrare cartine dalle quali si evince chiaramente la dote del Nostro nell’attaccare il limite di vegetazione poco accentuato avendo come unico riferimento una curva ausiliaria a 500 metri di distanza.

Quando ci provo io, i risultati non sono altrettanto notevoli. I miei duelli nel 2015 sono stati:
  • contro il cronometro, con il concetto di “fuori tempo massimo” che è stato reintrodotto nei regolamenti al solo scopo di evitare che nella stessa classifica si possano vedere risultati tipo “1° = 41 minuti, ultimo = 119 minuti”
  • contro il buon senso, vedasi ad esempio la scellerata decisione di provare (seppure in modalità “sequenza libera”) il percorso Elite del più duro campionato italiano Long degli ultimi anni
  • contro l’incolumità personale, e come monito mi resta ben impresso il tentativo velleitario di venire a capo del bosco di Pietranera – campionato italiano a staffetta – alle prime luci dell’alba
  • contro la dignità mia e del movimento orientistico in generale, vedi alla voce “performance alla finale di Coppa Italia di Gallio”

Atterro nuovamente sulla pista del mio diario personale, direttamente sulla pagina del “meno peggio” e del “peggio di così è impossibile”, dopo aver sommato nelle ultime uscite le seguenti performances: Giussano – ritirato, Angera – non partito, Briosco – ritirato, “50 lanterne” – non partito. Questo fil-quattro di prestazione costituisce la prima pietra miliare del mio personale peggio stagionale.

La gara di Giussano, organizzata in giusta memoria dell’amico Pippo Tealdo, è ancora sub-judice se entrare come sesto episodio del racconto “Yes! I’m a world record holder in orienteering”; non ho voluto verificare le cartine degli altri concorrenti del percorso Lungo e non mi posso arrogare il diritto di avere avuto in dotazione l’unica cartina con una percezione del colore più marcata rispetto alle altre: fatto sta che, dopo essermi fatto largo fino al primo posto nella fila dei partenti – partenza senza griglia predefinita - perché a causa brutti motivi personali avevo bisogno di tornare a casa presto, quando ho preso in mano la mia cartina (la prima della pila, appunto) ho esclamato ad alta voce “Minkia! Ma è una unica area privata!”. Così facendo ho ottenuto lo scopo di avere un testimone di quanto vado dicendo, e di distrarlo pure dal fare la scelta di percorso migliore sul percorso Medio. La mia carta, spero di riuscire a trovarla ma non garantisco, è verde privato ovunque, fatte salve le strade in marrone e gli edifici in nero. Una specie di Bronx senza nemmeno lo spazio per una aiuola o un giardinetto nel quale far pascolare i cani (quando Grilli dice “si capiva che era tutto giallo e non tutto verde perché si intravedevano i pallini degli alberi”, gli rispondo che “verde su verde” non si vedeva proprio una cippa di mulo).

Caracollando con il mio passo impiegatizio, ho raggiunto le prime tre lanterne tenendomi ben bene adéso al marrone delle strade, unica strisciolina di mappa percorribile in un oceano di aree private. Al terzo punto sono stato raggiunto da Metka, la quale purtroppo ha visto le sue tattiche di gara sconvolte dall’orrido panzone che le si è dapprima parato davanti, e che poi è ripartito in una direzione che nulla c'entrava con il quarto punto… il quarto punto, ai miei occhi e sulla mia cartina, è apparso infatti un tantinello strampalato: posizionato di poco all’interno di un area privata, al termine di una strada a zig zag senza uscita e, quindi, da ripercorrere in senso contrario per andare al punto successivo. Mentre l’orrido panzone procede secondo i propri piani (piani che l’invasione degli Stati Uniti da parte del Ducato di Grand Fenwyckè un capolavoro di strategia), Metka si affianca e, nonostante gli sfuffi e gli ansimi provenienti dai miei polmoni, riesco a percepire chiaramente le sue affermazioni di disappunto e di fastidio per la mia scelta di percorso, che a me continua ad apparire come unica. 

Dopo qualche decina di metri, Metka allunga, invano inseguita dall’omino Michelin… il quale pensa di essere entrato in una dimensione parallela quando, appena girato un angolo, si accorge che Metka è scomparsa! Va bene che la velocità della atleta che rappresenta la Slovenia ai Campionati Mondiali è ben superiore a quella del Rikishi di Baravalle, ma a tutto c’è un limite! All’occhio attento del Rikishi di Baravalle, nel frattempo, non sfugge il fatto che la strada a zig zag per arrivare al punto, e unica da rifare al contrario per andare al punto successivo, è circondata non da aree private ma da prati e parchetti.

Raggiungo il punto e, pur avendo davanti a me una distesa di prati (e pur NON avendo incrociato Metka che avrebbe dovuto venirmi incontro in senso opposto), mi attengo al piano originale: strada strada strada e nelle zone verde scuro non si entra. Il punto successivo è di nuovo in centro a Giussano. Quando arrivo in zona trovo una specie di adunata sediziosa - e per nulla silenziosa - che comprende a prima vista tutti i concorrenti del percorso Lungo che sono partiti nei 10 minuti successivi al mio, e che sembrano fare una specie di danza dentro e fuori dai cortili che si affacciano sulla piazzetta di Giussano. Quello che succede negli istanti successivi è molto caotico, e comprende la visione extracorporea del sottoscritto che
  • entra ed esce anche lui (io!) dai porticati
  • rientra per la seconda\terza\quarta volta in uno dei suddetti cortili per andare a vedere proprio fino in fondo se per caso la lanterna è nascosta dietro ad una catasta di macerie
  • si prende (giustamente) su da uno degli abitanti delle abitazioni che si affacciano sul cortile, che urla e chiede perché siamo lì a fare tutto quel casino

 Infine, al culmine del non-mi-ci-raccapezzo-più, una voce urla “èquiiiiiiiiiii!!!” e tutti si precipitano in un terzo “cortile” (in realtà l’unico segnato effettivamente come accessibile in mappa, e sulla corrispondenza della cui forma con la mappa non giurerei, ma io sono solo un avventizio e non un tecnico). La lanterna è lì in bella mostra per tutti. Diciamo che a questo punto le mie residue motivazioni a proseguire la corsa sono un po’ venute meno ed il primo effetto è che, con il calo di concentrazione, prendo una scavigliata che riporta il mio pensiero della situazione che ho lasciato a casa; non è il caso di andare a cercare altri guai, è evidente che sono in una giornata storta (ah!ah!ah! il gioco di parole…) e, quindi, abbandono (poco rapidamente) la scena. RITIRO NUMERO 1.

Sulla gara di Angera, poco da dire. Mi dispiace non esserci stato, non mi devo certo scusare per la mia assenza con chi nei giorni successivi  mi ha scritto che “peccato che fai le polemiche sulla collocazione delle gare vicine e lontane, poi però quando ci sono le gare vicine non vieni”… purtroppo nel momento in cui stava partendo la gara di Angera (dove spero di poter gareggiare in futuro), io stavo firmando un foglio che autorizzava i chirurghi a fare un tentativo abbastanza estremo per salvare la vita di mio padre. Il fatto che il papà sia ancora tra noi è il più bel successo del 2015. NON PARTITO NUMERO 1

Avrei voluto rifarmi a Briosco, carta sulla quale non avevo di certo brillato nella prima edizione del Trofeo Lombardia corso lì due anni fa. Essendo gara middle, ed essendo l’ultima della stagione (ed io un po’ in astinenza da lanterne), mi sono iscritto in M21 tanto arrivo ultimo lo stessoin qualunque altra categoria. Il comunicato gara parla di un bosco meraviglioso da far girare la testa, la quale tuttavia è sempre altrove coinvolta in più neri pensieri… il risultato è che, raggiunto in qualche modo il primo punto, mi scontro violentemente con il primo rovo del percorso e rovino a terra (avvenimento registrato anche dai sismografi dell’Istituto Geofisico e quindi probabilmente anche da una delle 51 slides presentate in Consulta – da un noto geofisico! - sullo stato del movimento orientistico lombardo): ne risente la spalla, già dolorante, ma soprattutto prendo una gran capocciata che mi rintrona.

Non potendo rischiare di farmi male, aggravando una situazione che a casa ci vede già entrare ed uscire dagli ospedali con una certa continuità, proseguo camminando e tenendomi la spalla in stile Franz Beckenbauer durante Italia Germania 4-3, al solo scopo di arrivare al traguardo del percorso “top dell’anno”. Purtroppo nei primi punti non trovo traccia del bosco scorrevolissimo e da favola descritto nel comunicato (ci sarà stato, ma io non ci sono arrivato); quello che sento distintamente, invece, sono le bestemmie che arrivano dal mio campo sinistro di visuale… apparentemente c’è qualcuno nel bosco che non è troppo contento di quello che sta succedendo. Cacciatori distratti dal passaggio dei concorrenti? Contadini che si trovano il campo vieppiù arato dai tacchetti dei più arditi? Le voci che si rincorrono sembrano scandire frasi smozzicate tipo “ma no!... è qui ti dico!... ma non c’è!... ma neanche quella di prima c’era!...”. Tutte cose che non posso capire perché, arrivato credo al mio settimo punto, la testa fa troppo male per proseguire e le energie mentali residue sono sufficienti solo ad attraversare il campo gara per la via più diretta ed arrivare al traguardo. RITIRO NUMERO 2.

Su internet la gara di Briosco viene indicata come gara al top, ma alcune scene viste nel dopo gara mi consentiranno di vergare la frase di apertura del pezzo sul bollettino annuale dell’Unione Lombarda:
(“Legge di Eastwood”): Quando l’uomo con la pistola incontra l’uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto.
(“Corollario”): Quando l’uomo con la pistola e l’uomo col fucile incontrano Adele, che si è appena ritirata dopo aver vagato un’ora tra i rovi in cerca di due lanterne mai posate, l’uomo con la pistola e l’uomo col fucile se la danno a gambe prima di essere disintegrati dal solo sguardo!

Dopo tali strambate, restava solo la “50 lanterne”, da affrontare senza alcuna velleità agonistica e al solo scopo di lasciare la stagione 2015 con un ricordo quantomeno positivo. Devo anzi ammettere che, da circa un mesetto, avevo ricominciato con le uscite di allenamento da 10-12 km (due o tre volte alla settimana) che mi portano ad attraversare il Parco del Ticinello, la zona delle Terrazze, fino a spingermi attorno al Ronchetto delle Rane e talvolta fino ai confini di Milano città. Ho persino trovato un “dente” dietro la zona delle Terrazze (nulla di eclatante, saranno 15\20 metri di dislivello!) sul quale fare le ripetute in salita! 

Ma alla fine tutti i dentro e fuori dagli ospedali, agli orari più assurdi, hanno avuto come risultato il fatto che sabato sera, proprio mentre era in svolgimento la festa di fine anno dell’Unione Lombarda, io ero a letto con la febbre… niente “50 lanterne” per me, e come unica panacea il fatto che il carbogel che avevo tenuto da parte come riserva di energia per la seconda parte della gara di fine stagione brianzola è diventato l’unico tipo di cibo che sono stato in grado di assumere mentre stavo a letto a smaltire le linee di febbre in più. NON PARTITO NUMERO 2

Occorre spendere altre parole sulla stagione 2015? Let bygones be bygones, o per dirla in modo comprensibile a tutti “Scurdammoce o’ passato”, perché quello recente avrei proprio voglia di lasciarmelo presto alle spalle.

Il mio Tuscania Five Days - prima parte

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Una delle avventure più gustose della stagione 2015 è stata rappresentata dalla prima partecipazione del gruppo GOK al Tuscania Five Days dell’organizzazione PWT. Per l’occasione il GOK è tornato alla formazione “the originals”, dopo aver avuto in passato qualche mutamento all’organico come si confà alle grandi squadre come l’Inter, i cui giocatori immagino si trovino nello spogliatoio pre-partita a capire chi in settimana è stato venduto o comprato, i Vendicatori della Marvel che vengono schierati tra i buoni o i cattivi a seconda del regista hollywoodiano di turno, o gli Inti Illimani la cui evoluzione della formazione ha costretto la Microsoft ad elaborare nuove e più potenti versioni del tool Project per sviluppare i gantt.

Tutto avviene a cavallo tra il mese di settembre e di ottobre, quindi non è che il “diario di bordo” sia proprio sulla notizia; in quel periodo il tempo per coprire gli eventi era davvero poco e le gare si susseguivano a raffica: 12 gare in 23 giorni, di cui 6 come speaker – e che gare! Campionati Italiani, Arge Alp e finali di Coppa Italia. Il mio Tuscania Five Days cade tra il 28 settembre ed il 3 ottobre, quando la coincidenza tra ferie residue, compleanni dei membri del GOK e astinenza da gare ci catapulta a Marina di Cecina per una settimana di gare-gare-gare dalle quale non sappiamo bene cosa aspettarci, ma che immaginiamo inframmezzate da qualche puntata in spiaggia, qualche buona mangiata e qualche visita culturale in una regione che, per motivi ancestrali, non ho quasi mai avuto tra le mie mete di viaggio.

Prima di buttarmi anche io sul Tuscania Five Days, però, devo smaltire la pratica Campionati Italiani Long e Relay. Così, mentre il GOK scende in auto lungo la litoranea, io risalgo i mille milioni di tornanti che portano a Rovegno, affronto i boschi ed i percorsi di Rudy e Raus all’alba o con il buio, ed infine rientro a Milano domenica sera bollito come un cotechino. Il mio viaggio verso sud del lunedì mattina, sulle buonevecchie ferrovie dello stato, sarà allietato dalla permanenza fino a Portofino, nello stesso scompartimento, di una famiglia di neozelandesi venuti in Liguria durante una pausa della Rugby World Cup. Tra Portofino e Cecina, da solo in tutto il vagone,  c’è lo spazio ed il tempo per andare a rileggere le pagine storiche degli ori-blogger italiani: uno Zonori che faceva le pulci ai cartografi ed ai tracciatori, un Rusky che metteva insieme più medaglie di Phelps ed un giovane ed inesperto Pedrotti che si allontanava dall’HC per entrare nell’inesplorato mondo dei master.

Lo sbarco a Cecina è confortato da un mega pezzo di focaccia per calmare i morsi della fame. Indi trasferimento in zona balneare a Marina di Cecina ed è quasi già arrivato il momento di calzare le scarpette, indossare i pantaloncini da corsa ed andare a piedi fino alla Pineta di Gorette per la prima gara. Un rapido passaggio dalla segreteria gara per dare una occhiata alle griglie di partenza e trovare alcuni nomi inattesi: il britannico Nick Barrable “Mr. Compass Sport” con la sua signora Sarah Jane, poi Checo e Daniela Guglielmetti con Tiziano Boiani dal Canton Ticino, infine uno sfracello di norvegesi giovani e master che approfittano della concomitanza con le festività scolastiche in Norvegia per farsi un giretto ad una latitudine alla quale il sole sorge ancora. Il tutto per più di 200 partecipanti che, ai miei occhi, rappresenta il numero giusto per evitare di soffrire di solitudine al ritrovo e per dare l’impressione di un bel gruppo di atleti senza essere troppo invadenti. Un gruppo di atleti nel quale spicca il fatto che i 4 del GOK sono gli unici 4 italiani e che il 90% dei partecipanti è norvegese; come logica conseguenza, alla partenza della prima tappa, la crew del PWT fornisce le indicazioni dell’ultimo minuto (e la chiamata degli orari di partenza…) in norvegese stretto, dialetto di Mo I Rana: una lingua che alle mie orecchie suona musicale e comprensibile appena un epsilon di più dell’ungherese! Dopo i primi minuti di totale incomprensione nei dialoghi tra la capa del team di partenza ed i pochi che non appartengono alla nazione che ha dato i natali alle medaglie d’argento della staffetta 4x10 diLillehammer, arriva anche il mio turno e con esso l’inizio ufficiale della mia 5 giorni…


La prima gara è divertente e, considerando che questo sarà il format di tutto il Tuscania Five Days, sento che ci sono ottime prospettive perché il divertimento di propaghi per tutta quanta la settimana. Ma è anche faticosa per parecchi motivi: il fondo del terreno è costituito da sabbia mista ad aghi di pino marittimo, e credo che nessuno scienziato al mondo sia ancora riuscito a trovare una superficie sulla quale incedere è più estenuante! Le partenze sono ogni minuto, ed i miei avversari master norvegesi (nella categoria M40 c’è anche Tiziano Boiani, e sarà difficile persino PER LUI emergere in classifica…) sono tutti dei maledetti lupi da corsa: alcuni hanno un filo di pancetta, non che io non ce l’abbia, ma corrono come dei dannati! Dovrei anche ammettere che, rispetto a me, corrono TUTTI come dei dannati, senza bisogno di andare a scovarli nei fiordi norvegesi, ma giusto per dare una idea dei personaggi che sostano nei dintorni, segnalo che nella mia categoria corre (no: vola!) il signor Kjetil Bjørlo: ora… per tutti coloro che si mettessero in visione e all’ascolto in questo momento (= Dario P.), segnalo la seguente voce di Wikipedia:

Kjetil Bjørlo (born 27 March 1968) is a Norwegian orienteering competitor, individual bronze medalist in the classic course at the 1997 World Orienteering Championships in Grimstad.  He received a bronze medal in the relay event in 1997, together with Håvard Tveite, Bjørnar Valstad and Petter Thoresen… and anche sticazzi vorrei dire!


Giusto sempre per dare una vaga idea, un altro dei contendenti è questo bel tipo qua:

Lasse Arnesen (born 18 January 1965) is a Norwegian alpine skier. He was born in Oslo, and represended the club IL Heming. He competed at the 1992 Winter Olympics in Albertville. From the 1. November 2014, he is the secretary general of the Norwegian Orienteering Federation, succeeding Bjornar Valstad

… che sarebbe come dire che domani mattina il presidente della Fiso è Kristian Ghedina (tra l’altro Mr. Arnesen si rivelerà una persona proprio a modo ed alla mano, addirittura mite e quasi timido nella sua estrema cortesia).

Ma torniamo alla Pineta di Gorette. I percorsi non possono ovviamente essere challenging quanto Loco di Rovegno o Pietranera; occorre per lo più di correre veloci, senza farsi venire la nebbia nel cervello con il rischio di mancare un bivio o un sentierino, e poi occorre fare il giusto azimut quando si sbarca nelle zone “bianche” della pineta alla ricerca di piccole buche e depressioni insidiosissime. Cosa ancora più importante, però, è evitare di sottovalutare la pineta e le zone verdi di macchia mediterranea che la pervadono… Quest’ultimo comandamento me lo dimentico nell’andare dalla 3 alla 4: potrei scendere a sud ed entrare nella macchia dal sentierino oppure (scelta già perdente) risalire verso nord-ovest e fare il giro del fulloper prendere lo stesso sentierino. Se fossi dotato di ghette di adamantio ed armatura da antico cavaliere medievale, potrei andare dritto per dritto nella macchia più soft… Ma io sono Stegal! E io corro nei tunnel della tangenziale di Brescia! DI conseguenza la mia scelta consiste nel correre lungo il sentiero e cercare di attraversare la parte più rognosa di rovi… tanto cosa saranno mai? 20 metri al massimo?

Purtroppo sono 20 metri di inferno, ed io sono in braghette corte. Nonostante il tentativo di “sfondare il muro” come se fossi Ma’a Nonu davanti alla difesa degli Aussies, i miei cento chili non passano il muro di spine, non vengono nemmeno respinti ma vengono letteralmente avviluppati dai rovi. Per un tempo che mi pare infinito (credo onestamente si sia trattato di un solo minuto, ma di un minuto completamente perso!), ho solo la visione degli atleti più furbi di me, o molto meno scemi, che corrono lungo il sentiero… ho solo la percezione di essere stato catturato dalle tele dell’Uomo Ragno… e sento solo il dolore dei brandelli di pelle che sto lasciando attaccati a tutte le spine della pineta. Quando, finalmente, riesco a liberarmi dando un ultimo strattone di pelle e con esso liberarmi in direzione nord verso il sentiero che avevo lasciato poco prima (nemmeno in direzione del punto!), comincio a fare il giro del fullo sommando errori su errori.

Da lì in poi, sarò molto più attento e circospetto. Commetto un ultimo errore per andare alla 20, con quei maledetti sentierini che si confondono nel macchione di rovi (e trascinando dietro di me due ragazzotti norvegesi che, non trovando il punto, escono urlando nei miei confronti qualcosa come “men faen!”) e sono pronto per arrivare al traguardo…


nuovo errore: non ho letto bene il comunicato gara! C’è infatti una seconda parte di gara da correre dentro e fuori il complesso della “Buca del gatto” che ospita i concorrenti. La carta è 1:2000 cioè “tutto quanto è segnato in mappa mi viene addosso a velocità assurda!”. Raggiungo Attilio al punto 4, provo a staccarlo alla 5 e me ne pento quando mi incasino alla 6, con il solito “verde 4”delle siepi non attraversabili che mi frega sempre fin da quel dì al Campionato Italiano Sprint al Parco delle Cascine (che sempre Toscana è!). All’arrivo a bordo piscina il colore predominante è il rosso sangue… e NON E’ NEPPURE QUELLO CHE ZAMPILLA DALLE MIE GAMBE. Due concorrenti donne ed un concorrente uomo, nella gara più amichevole dell’universo alla Pineta di Gorette, sono riusciti nell’impresa fantascientifica di aprirsi in due la testa con un taglio profondo da qui a lì (ma questa ha preso a testate un albero?), procurarsi una specie di commozione cerebrale (ma anche quest’altra ha preso a testate lo stesso albero?) e infine l’ultimo è riuscito a scarnificarsi il mento al punto da arrivare al traguardo completamente lordo di sangue come un maiale sgozzato. Ribadisco il concetto: quando sarò presidente IOF, la prima cosa che faccio è obbligare tutti a correre con gli occhialoni protettivi… ma per i norvegesi potrei spingermi ad imporre la famosa suddetta armatura (tanto Bjorlo correrebbe lo stesso più veloce di me!).

Guardandomi in giro durante la gara, avevo colto alcuni concorrenti alle prese con difficoltà orientistiche superiori alle loro possibilità. Persino nella Pineta di Gorette! Sfiga: evidentemente nessuno di questi corre nella mia categoria, oppure corrono talmente forte da potersi permettere qualsiasi sfondone orientisticoed arrivare lo stesso davanti a me. Per tutte le 5 gare, non è che riuscirò sempre a mettere il naso davanti ad un norvegese (almeno uno!): solo i PM ed i non partiti saranno dietro di me in classifica. Tuttavia, quella sera, prima che Nick Manfredi prenda posto al microfono per uno dei suoi concerti, riesco ad assicurarmi  che tutta quanta la cumpa di norvegesi abbia ben chiaro da quel momento in poi CHI SONO IO e chi sono loro (da pronunciarsi alla Marchese del Grillo, o alla Chevy Chase in una delle sue performance al Saturday Night Live); durante la cena conviviale, infatti, mentre i ticinesi cenano in un tavolo a parte ed i quattro italiani scompaiono, sommersi nella massa di norvegesi, lascio cadere inavvertitamente ma anche con una certa nonchalancesulla tavolata del ristorante tre cartine: sono, ovviamente, le due cartine dell’individuale ELITE di Loco di Rovegno e della staffetta di Pietranera.

Non esiste e non è mai esistito un (serio) orientista che si lasci sfuggire l’occasione per sbirciare una cartina nuova, nemmeno se nei dintorni in quel momento passa Uma Thurman vestita di giallo come in Kill Bill ma con la tutina abbondantemente aperta sul davanti… E’ un attimo e le cartine, che sono palesemente TROPPO DIVERSE da quelle della gara di Gorette, passano di mano in mano (anche tra quelle di Kackmarcik, che alla staffetta non aveva assistito) e tutti chiedono chi le ha portate fin lì. Non oso pensare che qualcuno si sia chiesto quale razza di super-atleta avesse potuto portare fin lì quelle cartine, ma posso pensare che una scritta su quelle cartine abbia sollevato più di altre l’interesse: perché su quelle cartine compare evidente la scritta “Men Elite”!


(… continua …)

Il mio Tuscania Five Days - seconda e ultima parte

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(… riprende …)

Superata quindi con agilità la prima tappa ed il successivo impatto con l’esercito di norvegesi calati dai fiordi, il giorno successivo è già ora di calarsi nel primo dei due “back-to-back” previsti dal Tuscania Five Days: al mattino tappa a Lucca, centro storico, ed al pomeriggio rientro a Cecina per un’altra full immersion nelle pinete a bordo Tirreno.

Non conosco bene Lucca. Quel poco che ricordavo, da una fugace visita nel sabato pomeriggio che precedeva una Coppa Italia disputata sotto il diluvio torrenziale all’Altopiano delle Pizzorne, erano la Piazza ovale (che una breve ricerca su Google mi consente ora di identificare come “Piazza dell’Anfiteatro”) e le mura perimetrali, concetto che mi riporta subito alla mente la gara di Palmanova disputata agli European Master Games. Ahimé! Né la piazza né le mura vengono visitate dai percorsi…


… se nel primo caso posso pensare ad una scelta legata alla difficoltà di far transitare i concorrenti dal salotto più frequentato della città (seppure in un martedì mattina di fine settembre), nel secondo caso propendo per il fatto che le mura vengono “sacrificate” sull’altare di una partenza ed arrivo dislocate in un luogo coperto e suggestivo ma un po’ periferico rispetto al centro. Prime (ed ultime) tratte di gara, quindi, abbastanza lunghe e adatte alle gambe fotoniche di un Nick Barrable, ed una lanterna 7 veramente bastarda alla quale mi avvicino in debito di ossigeno(io… ma anche parecchi altri) e cerco di raggiungerla da nord senza accorgermi che c’è un bel muro spesso che fa capolino dal cerchietto color magenta, e che il giro del fulloè l’unica opzione possibile per arrivare alla lanterna. La gara è sufficientemente breve per consentire a tutti di cambiarsi e fare un secondo giro turistico, che ci porta alla Piazza ovale e sulle mura, prima di riprendere la strada costiera e dirigerci verso la terza tappa.

La terza tappa si svolge alla Pineta di Cecina, in un caldo pomeriggio di fine settembre che fa venire voglia di fare un bagno in mare. Tra le due tappe “boschive”, si rivelerà quella più divertente: il percorso è molto più articolato, le parti di pineta con visibilità ampia sono molto mosse con tanti dettagli nei quali è facile perdere manciate di secondi, e la rete di piccoli sentieri (che bisogna sfruttare onde evitare di massacrarsi le gambe tra i rovi) è davvero fitta e quindi bisogna fare molta attenzione a leggere tutti i bivi di sentiero come se ci si trovasse tra le calli di Venezia.


Proprio su questa carta si era disputata una delle tappe del Mediterranean Open Championship 2014, quella che avevo commentato per la RAIdopo la tappa di Clusone, ed il ricordo di Daniel Hubmann che spinge come un forsennato lungo il bagnasciuga per raggiungere il traguardo (messo strategicamente nella stessa posizione) mi farà optare per una scelta di percorso quasi acquatica dall’ultimo punto all’arrivo, per sfruttare al massimo la parte di spiaggia più compatta (visti alcuni concorrenti affondare miseramente in una spanna di sabbia…). Molto belli anche i due loop 2-6 e 9-12-16 nei quali ci si continua ad incrociare con gli altri concorrenti della M21 ed M40; io commetto un unico errore andando dalla 24 alla 21, incurante del sentiero che attraverso e della casetta che trovo davanti a me, e forse più attento a controllare la coda di capelli di Sarah Jane Gaffney…


Dopo il giorno di riposo, giovedì è il momento del secondo back-to-back che ci porta dritti dritti (?) verso le centomila curve dell’entroterra toscano. Siamo nel cuore della Maremma livornese, in un centro storico che è veramente tale, con il castello, le piazzette di forma irregolare, le mura a strapiombo sulla pianura sottostante e la rocca. Siamo inoltre (ma non potevamo aspettarcelo), in una sorta di prodromo dell’inverno: la temperatura rispetto al giorno prima è calata di 12-15 gradi e fa un freddo assurdo con folate di vento artico, per la felicità dei norvegesi che si mettono in canottiera e calzoncini corti e sembra loro di essere a casa! Per quanto mi riguarda, preferirei davvero il caldo del giorno prima, ma non posso imputare al freddo che mi penetra nelle ossa la serie di notevoli “sfondoni” che commetto durante il percorso…


… comincio già andando alla 1. Per raggiungere la lanterna sembrano esserci due strade che corrono parallele da ovest a est. Sembrano, perché quella più a nord, oltre ad avere una chicane in più, è chiusa a metà da quella che sembra una autentica trappola per orientisti. Io fin qui me la cavo, prendendo la strada più a sud, ma poco prima di svoltare a sinistra incrocio un pertugio nel quale mi infilo a testa bassa! Sono finito (e non sarà né la prima né l’ultima volta nel 2015…) in un portone privato, peraltro in ottima compagnia di altri orientisti.

Risolto l’arcano e raggiunta la 1, compio una seconda prodezza per andare alla 2: a secco e dal divano di casa, nonostante l’attitudine all’essere impiegato panzottello e scarsamente a mio agio con i labirinti, le due alternative sono quelle di scendere lungo la strada e girofullare in senso orario (cosa che mi avrebbe giovato per i motivi che scriverò sotto) o ritornare verso il centro storico, magari passando davanti alla 17. Opto per la seconda ipotesi, che il realtà è l’unica strada che vedo, ma per qualche motivo anziché girare a destra dopo essermi incuneato tra i due recinti privati, vedo un cancelletto aperto e mi ci butto a capofitto, preceduto da un master norvegese e seguito da una junior parimenti nordica. Nei 30 secondi successivi, prima che mi accorga di essermi infilato in una area privata, è un susseguirsi di orticelli 3 metri x 3 metri, piccole recinzioni, una cantina con gli attrezzi, un bagno ricavato in un seminterrato, due persone che mi guardano passare all’interno di casa loro! Riesco in qualche modo a sbucare sulla strada, in corrispondenza della scritta “14”!!!

Dopo aver raggiunto la 2, mentre Brian Porteous straccia piangendo tutti i regolamenti e Vladimir Pacl torna da San Pietro a chiedere se può ritornare “di qua”, per andare alla 3 riesco… a infilarmi nuovamente in un’altra area privata! (quella a nord della 2) Sicuramente, dopo l’esperienza in una casa privata di Castagneto Carducci, la mia testa non è proprio al suo posto: dopo essermi infilato di nuovo e senza accorgermene in una zona inaccessibile e non aver capito come raccapezzarmi, decido che la scelta più sicura per andare alla 3 è quella di ripercorrere tutto il centro storico fin quasi alla partenza ed arrivare al punto da sud-est!

Dopo queste prodezze nelle prime 3-lanterne-3 del percorso, prodezze che bastano per un anno intero di un “Bozzola”, un lustro intero di un “Pedrotti” ed una intera carriera di un “Tenani” (tre ori-blogger a caso), riesco ad uscire di cartina tra la 7 e la 8 sotto lo sguardo perplesso e preoccupato di Checo Guglielmetti che mi vede infilare la strada sbagliatache porta verso la sottostante pianura. Da lì in poi corro (… corro…) più di rabbia che di fisico, controllando tutte le svolte e maledicendomi anche ad alta voce per la dabbenaggine e per aver ancora una volta dimostrato la mia inconsistenza tecnica quando il gioco diventa davvero divertente.

Il morale di conseguenza è abbastanza basso quando, a un triliardo di curve di distanza, è il momento di affrontare la gara di Volterra. Tre concetti rapidi ed essenziali: 1. Volterra è bellissima: collocare partenza ed arrivo nella Piazza dei Priori (che finora avevo ammirato visto solo sui libri del Touring Club Italiano) e premiazioni nella Sala del Consiglio del Palazzo dei Priori è un colpo di classe mica da ridere! 2. Fa un freddo assurdo, amplificato nel suo “effetto blizzard” quando si entra nei porticati o ci si passa davanti. 3. Il percorso è disegnato da un tracciatore sadico ma in gambissima…


3 chilometri in linea d’aria: ecco, diciamo che basterebbero le tratte partenza-1, la 2-3 e la 5-6 per capire che quei tre chilometri ho dovuto (io come tutti) sudarmeli proprio tanto. Se poi qualcuno mi dice che alla Suunto Cup di Schio ha fatto la scelta da un milione di gradini anziché quella larga in curva di livello… ecco: io il milione di gradini me lo ero sciroppato già a Volterra tra la 5 e la 6, tratta nella quale mi supera il solito Kjetil Bjorlo che i gradini li fa a 3 alla volta, ed io non posso che sputare un altro pezzo di polmone per mandarlo affanc… a fronte di tale protervia atletica. La lezione di Castagneto Carducci mi è bastata, ed il freddo che aumenta contribuisce a tenere ben desta la mente per evitare ulteriori sfondoni orientistici (devo aver esaurito in mattinata la razione settimanale) fino all’arrivo sotto una pioggerella gelata in Piazza dei Priori.

A questo punto il programma del Tuscania Five Days sarebbe anche finito. Chi doveva vincere, ha vinto anche questa volta… chi doveva arrivare ben adéso a fondo classificalo ha fatto anche questa volta. Il venerdì il tempo si rimette a posto quel tanto che basta per consentire un altro giro turistico della zona e… e invece succede che il programma non è finito per niente! C’è il colpo di coda, quello che lascia in bocca il sapore del buon ricordo. Del fatto che Jorgen Martensson se ne stesse andando in giro per il complesso dove alloggiamo con l’aria troppo furtiva e troppe lanterne sotto il braccio, ce ne eravamo già accorti tutti; quello che non pensavamo è che gli organizzatori avessero pensato di organizzare un’ultima gara proprio all’interno del complesso della Buca del Gatto, scala 1:1.000 ed un numero di recinti, siepi non attraversabili, vialetti con angoli irregolari e un numero di trappole orientistiche che, se il tracciatore è bravo, diventa una sfida decisamente impronosticabile.

E il tracciatore è DAVVERO bravo…


Come sanno gli affezionati lettori, il GOK per anni ha approfittato di queste trovate per rendere ancora più memorabili le trasferte nella non vicinissima Ungheria: il Mobile-O e le Mikrosprint sono due format che ho cercato anche personalmente di esportare alle nostre latitudini, proponendo addirittura un “Campionato Regionale di Mobile-O” sulla carta del Monte Stella (proposta che venne bocciata tra frizzi e lazzi in sede istituzionale… eppure con tutte le opzioni flat e you-and-me che ci sono oggi…). Una garetta su una carta 1:1.000, tutta nel complesso dove alloggiamo, con Jorgen Martensson come giudice di partenza, fa proprio al caso nostro! Tanto… quanti norvegesi si presenteranno al via di una ori-minkiata del genere? Ecco… TUTTI!!! Venerdì pomeriggio, dato che non c’è la griglia di partenza predefinita, l’atmosfera al ritrovo (la piscina) racconta di una tensione agonistica come nemmeno alla partenza del Mondiale Sprint Relay di Trento; si lanciano sfide incrociate ed infuocate a colpi di “chi vince questa vince tutto!”, di “ti faccio vedere io le medaglie mondiali!” ed altre amenità del genere.

Nel frattempo, la mano che ha raccolto 9 medaglie mondiali in 17 anni di campionati del mondo appoggia lì, con fare casuale, due lanterne a bordo piscina… Ovviamente è un divertissement per tutti, dal più forte al più baléngo, e alcune tratte del percorso (provare la tratta 3-4) vanno studiate con discreto anticipo al fine di evitare di perdersi sotto il balcone della propria stanza da letto! Con il terreno bagnato dal meteo del giorno precedente, è una buona cosa che non si assista ad incidenti lungo il percorso, ma quello che succede a me e ad un ragazzotto norvegese ha quasi del miracoloso: io (pallino rosso) sto andando dalla 8 alla 9 in un percorso tortuoso, lui (linea blu) sta venendo giù “a bomba” lungo il sentiero verso la 10. La siepe ed il recinto ci rendono invisibili l’uno con l’altro fino all’intersezione delle due tracce…

(BUUUUUMMMM!)


L’impatto andrebbe bene per una dimostrazione in stile “Stupidi al quadrato – la conservazione della quantità di moto”: io, dotato di massa più grande, vedo diminuire la mia velocità da X già bassa a zero e mi fermo sul posto; lui, dotato di massa molto più piccola, DECOLLA sopra la siepe con uno stile che sarebbe invidiato da Dick Fosbury! In un decimo di secondo mi passa per la testa la notizia sul Dagbladet “Impiegato panzottello uccide promessa dell’orienteering norvegese”… quando dall’altra parte della siepe si sente partire una risata grassa ed il ragazzotto ricompare in piedi, integro, più scattante di prima e mi batte un “cinque” prima ancora che io faccia in tempo a chiedere quante ossa si è rotto! Lo ritroverò al traguardo che sta ridendo ancora e mi dice che il volo sopra la siepe è stato la parte più bella del percorso.

Ah si. Il traguardo. Ecco le due lanterne appoggiate lì come per caso:




Gabriele Viale ne ha fatto un reportage con sequenza completa dell’attraversamento in uno stile che non ricorda per nulla quello dell’Elite nato a Betlemme un paio di millenni or sono, ed ora i norvegesi che leggono il periodico pubblicato dalla PWT non possono fare a meno di chiedersi se quel panzone che sta attraversando la piscina sia lo stesso che aveva portato le cartine del Campionato Italiano Elite a cena il primo giorno! (anche Wolfgang Poetsch mi ha detto che la mia scelta di percorso dalla 18 alla 19 è passibile di squalifica, per via della cartografia ISSOM…).

Giusto per la cronaca, il successo è stato tale che la mattina successiva Martensson riproporrà lo stesso percorso “per i pochi che non l’avevano fatto il giorno prima”… 
si ripresenteranno in 100!!!

Addio stagione 2015

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23 gennaio 2016. L’anno nuovo è arrivato anche per me. Stasera, se tutto va bene (e se trovo una lampada frontale che funziona!) ci sarà l’esordio 2016 con la gara al Parco della Vernavola. E’ il momento nel quale vanno in soffitta le medaglie ed i sorrisi dell’anno precedente ed insieme a loro, ma più lente ad abbandonare le spalle su cui gravano come un fardello ogni anno più pesante, le fatiche ed i dolori.

Di solito affidavo questo “rito del passaggio” all’ultima lanterna dell’ultima gara dell’anno. Ma il finale di anno 2015 è stato assai travagliato e dopo Giussano, dopo Angera, dopo Briosco e dopo aver saltato le “50 lanterne”, in effetti non c’è stata una ultima lanterna cui affidare il compito di tenere con sé le delusioni e le piccole gioie di una annata sportiva vissuta ai margini della retrocessione, se non abbondantemente in zona…!

Oggi la mia preparazione alla gara della Vernavola è fatta di piccole cose. La borsa è già pronta da alcuni giorni, le gambe sono già calde. Ho scoperto durante gli allenamenti (non tanti ma sicuramente più intensi rispetto a quelli di tutti i 10 anni precedenti) che il digiuno pre-gara mi fa correre con maggiore efficacia. Ho appena finito di dare una vigorosa spazzata ai pavimenti di casa, cosa che serve a tenere attivo il fisico e sgombra la mente; ma prima di prendere le chiavi dell’auto e dirigermi verso sud, voglio dare un saluto alla perla della mia stagione orientistica 2015, a quella gara che ogni anno non finisce mai di stupirmi, di lasciarmi dentro ricordi e sensazioni talmente vive e palpabili che adesso potrei chiudere gli occhi e ritrovarmi di nuovi immerso nei colori, nei profumi, nelle sensazioni e nel tepore di Serrada di Folgaria. E’ il 9 agosto 2015: è il giorno della O-Marathon degli Altipiani.

Credo di averlo già scritto nel corso degli anni. Ma mi assolvo: sto diventando vecchio, ripetitivo. La O-Marathon Elite dell’Altopiano di Lavarone rimane il mio sogno irraggiungibile; incredibile a dirsi: è un sogno che ho si è già avverato tante volte! Tutte le volte che sono riuscito ad arrivare al traguardo in preda alle allucinazioni, ai crampi, alla rabbia, alla determinazione, alla sofferenza. Un sogno reso possibile da una idea di Luigi Girardi, dalla forza di volontà di Roberto Sartori, dalla voglia di essere protagonisti di Carlo Cristellon, di Matteo Sandri, di Samuele Tait, di Rosella e Pamela e Caterina e tutti i ragazzi del Gronlait che una volta all’anno si sparpagliano per l’Altopiano a distribuire lanterne, punti di ristoro, partenze e arrivi. E che si preparano mentalmente ad aspettare fino ad orari assurdi gli ultimi naufraghi… più spesso l’ultimo naufrago: io.

La colpa per queste attese va equamente distribuita: il 99% a me, che in fondo dovrei accorgermi dell’età che passa e che ci sono altre categorie, e percorsi più brevi, per godere allo stesso modo dell’Altopiano. L’1% a Luigi Girardi, che tanti anni fa ha coniato quella frase a cui mi aggrappo (proprio come un naufrago alla scialuppa di salvataggio) quando è il momento di chiedermi su quale categoria far cadere il click del mouse per l’iscrizione, ed invariabilmente ogni anno scelgo Elite: “L’O-marathon non è una gara più lunga delle altre, ma una avventura lunga un giorno”. E’ proprio quel senso di avventura che rende questa gara così diversa, per me, da tutte le altre. Non è solo più lunga, più faticosa, più estenuante (per me… quelli bravi la prendono come una corsetta appena più impegnativa): è un modo per rimanere da soli per qualche ora con una mappa, raccontandosi qualche storia o andando a scartabella nell’album dei ricordi durante i momenti più lunghi e noiosi, e intanto cercare lanterne, trovando la forza fisica e poi solo mentale per andare avanti, nell’unico sport al mondo nel quale “non è detto che un passo fatto in avanti sia un passo che ti avvicina al traguardo”. 

Scusatemi se Shakespeare e Tennyson mi fanno una pippa, ma quest’ultima frase è mia.

Nel 2015 il mio percorso di avvicinamento alla O-Marathon è stato un tantinello tortuoso. Infatti alla O-Marathon io non avrei nemmeno dovuto andarci! Due anni prima, nel 2013, avevo vissuto la mia dose di incubi durante l’edizione di Passo Coe, quella TUTTA a Passo Coe: l’unica O-Marathon, a mia memoria, disputata in ottobre (al freddo, tanto freddo) con modalità one-man-relay che ne snatura l’essenza di “lungo trasferimento da un posto all’altro". Correre una maratona in pista o su un anello non è la stessa cosa che correrla spostandosi fisicamente da un paese all’altro, da una valle all’altra, da un panorama all’altro. In fondo, se di avventura si tratta, i veri avventurieri di una volta sono stati quelli che sono andati (e tornati da) in un certo posto, non quelli che ci hanno girato in tondo più a lungo. Nell’edizione 2013 ho toccato il fondo della mia delusione con un ritiro a tre quarti di gara per freddo, per fatica fisica, per assenza di voglia di andare avanti! Il freddo che era penetrato nelle ossa perché non avevo voluto cambiarmi a metà gara indossando qualcosa di asciutto, la fatica che non avevo saputo gestire ai ristori (quasi trascurati dal sottoscritto) e durante la gara quando avevo cercato di rimanere agganciato a qualche trenino più veloce di me fino a ritrovarmi comunque solo e senza più forze; infine senza voglia di ritornare, per il quarto giro, nelle stesse zone che avevo affrontato nei tre giri precedenti. Il traguardo, nel mio caso il benvenuto ritiro, nella one-man-relay  è sempre lì troppo a portata di mano, invitante come i vestiti caldi ed il ristoro ed il riposo. Il fatto è che nessuno mi aveva detto che oltre ai vestiti caldi, al cibo ed al ristoro ci sarebbero stati la delusione, le lacrime, la rabbia… (Troisi avrebbe aggiunto “la subornazione”).

Stavo ancora covando dentro di me tutte quelle sensazioni negative in occasione della O-Marathon 2014 che non mi ha visto al via, ed era la prima volta; troppo cocente la delusione, troppo vivo il dolore per una esperienza che volevo fosse tutta mia e vincente (pur in fondo alla classifica) e che era stata perdente sotto tutti i punti di vista. Con l’assenza alla edizione 2014, ho perso anche il diritto al mio titolo di “senatore” della O-Marathon Elite, cosa che credo ormai sia appannaggio dei soli Roberto Dallavalle e Michele Franco (e forse Claudio Zanon?). Quindi perché preoccuparsi della edizione 2015?

Solo che poi arriva Skatos.

Flashback. 1° agosto 2015. Otto giorni prima. Il giorno del mio compleanno ed è un giorno che finisce in un modo molto triste, orientisticamente parlando (perché questo è il blog di uno che fa orienteering… o meglio uno che vaga per i boschi mentre gli altri fanno orienteering… ma occorre sempre mettere le cose nella giusta ottica). Comunque è un giorno triste. Skatos mi ha respinto! La gara conclusiva della 10 giorni O-Ringen+WMOC mi ha schiantato. Dopo 11 giorni di gare, 11 mesi di aspettative ed 11 anni di attesa da quella prima volta a Skatos, mi sono ritrovato senza forze, senza energie, senza più una goccia di forza di volontà in una delle carte più esaltanti sulle quali ho mai posato il piede. Respinto senza appello. Forse avrei potuto finire il mio percorso… in tre ore forse… Attilio mi ha detto, perchè lui la gara l’aveva finita, che il punto nel quale mi sono ritirato era l’ultima asperità del percorso, che da lì in poi sarebbe stato tutto più facile. Ma io non avevo più volontà per andare avanti. Tre ore mi sarebbero servite tutte, ma non avevo nemmeno più le energie per respirare e far battere il cuore. E poi tre ore sarebbero state almeno una più de tempo limite che mi ero dato in una giornata che sarebbe stata tanto impegnativa di suo: chiudere casa, restituire auto, correre in aeroporto appena in tempo per l’aereo che ci riportava a casa. Il rischio di far preoccupare i miei amici del GOK per semplice orgoglio non valeva la candela.

Tanto vale spiegare che senza il GOK non ci sarei io. Perché il GOK sono gli amici che mi portano alle gare fino in “altrovelandia” perché c’è una promozionale su una carta bella, o che si svegliano ad un orario assurdo all’alba per portarmi dall’altra parte della pianura padana quando il sottoscritto fa lo speaker e quindi vuole avere il tempo di fare il suo percorso prima degli altri. Senza di loro, che sono quanto ho appena descritto e molto molto altro ancora, probabilmente parteciperei ad un quarto delle gare che faccio. E se partecipassi ad un quarto delle gare che faccio, probabilmente non sarei mai diventato uno speaker, e infine la mia vita sarebbe molto vuota. Sento già la voce di Attilio, se mai leggerà fin qui (perché… ecco… il GOK non legge il mio blog… dicono che non hanno abbastanza giorni di ferie!), che dice che sono un testone e che a Skatos avrei potuto farcela e che ce l’avremmo fatta anche a chiudere casa e prendere l’aereo. La risposta è: ce l’avremmo fatta ma a prezzo di infinite preoccupazioni. Meglio essere respinto senza appello da Skatos che respinti senza appello al gate di Goteborg Landvetter! Anche se il GOK si è dovuto sorbire per tutta l’attesa del volo, il check-in, il volo e le ore successive il brontolio del sottoscritto che si doleva e pativa per il fallimento di Skatos.

Poi, ad un certo momento, forse mentre ancora eravamo al trasbordo ad Amsterdam, una domanda dal nulla si è fatta largo tra i miei funesti pensieri: quand’è la O-Marathon? Da quel momento, nella mia testa due voci contrapposte hanno combattuto una battaglia feroce per il possesso delle mie decisioni. La prima voce era quella dello Stegal pessimista e negativo(quello solito, diciamo): dove pensavo di andare con le mie poche forze? Alla O-Marathon? A prendere un’altra legnata nei denti dopo l’edizione 2013 e con le ferite di Skatos ancora aperte e sanguinanti nella pelle e nel cuore? “Non hai più l’età per la O-Marathon! Lascia perdere! Non fa per te!!! Hai cercato di trovare le soddisfazioni all’O-Ringen ed ai WMOC e guarda qui come ti ritrovi… cercale altrove quelle soddisfazioni! Il cucito e la meditazione, ad esempio!”.

Questa era la prima voce.

La seconda appartiene allo Stegal positivo ed ottimista, quello che non si vede mai in giro, ma c’è anche lui: in fondo… 12 giorni di gare erano l’ideale per preparare la O-Marathon. Qualche giorno di riposo sarebbe stato il toccasana per presentarsi al via con, nei muscoli, la memoria delle gare in Svezia, con una preparazione tecnica accettabile, con una missione da compiere per allontanare il fresco ricordo del ritiro nella finale del Mondiale Long. Quando mai si potrebbe ripresentare una occasione del genere?

Le due voci hanno brandito la clava chiodata (l’una) e lo spadone a due mani (l’altra) e hanno cominciato a darsele di santa ragione. Mentre nella mia testa era in corso quella orrida zuffa, una terza voce è passata di lì per caso, e non era quella dell’altoparlante che invitava uno di noi a presentarsi all’immigrazione o dei paramedici che accorrevano a soccorrere un tale che per girarsi a vedere il passaggio di Conchita Wurz era caduto a terra di faccia e aveva sparpagliato per tutto il gate di Schiphol i denti davanti. La voce sembrava molto calma, quasi come quella di Obi Uan Kenobi alle prese con Luke Skywalker nella SOLA E UNICA SAGA DI GUERRE STELLARI che sia mai stata girata (la prima trilogia!): “Stegal… lascia perdere le altre due voci e ragiona. Che tu sia stanco o no, cosa hai sbagliato nel 2013? Non ti sei rifocillato durante la gara? Puoi rimediare. Hai cercato di alimentare il tuo inutile orgoglio rimanendo nei trenini fino allo sfinimento? Puoi evitarlo, se solo accenderai il cervello. La edizione 2015 sarà come quella che più ti piace: un lungo incessante trasferimento da Folgaria a Serrada attraverso i boschi, le valli, ci saranno salite e lanterne da trovare. E soprattutto sarai solo, dovrai pensare fin dall’inizio di dover contare solo ed esclusivamente sulle tue forze, il che è la cosa che hai sempre fatto… ti è andata male nell’unica occasione nella quale hai cercato di fare l’atleta serio, e non lo sei. Dovrai essere lì con la tua testa per 5 ore. Sarà difficile, ma non impossibile."

Ecco perché mi sono presentato al via della O-Marathon Elite 2015. Ed ecco perché l’ho finita: perché ho ascoltato quella voce, e ho lasciato che le altre due si prendessero a mazzate fino a giacere entrambe a terra silenziose. Il mio corpo ha presentato il conto sabato mattina, prima della O-Marathon, quando un improvviso e sensibile calo di pressione (dovuto a qualche tensione lavorativa già accumulata in settimana) mi ha lasciato steso sul sedile posteriore della GOK-car durante tutto il viaggio allucinante da esodo estivo da Milano fino a Fondo Grande, ma Attilio e Roberta sono stati grandi a portarmi a destinazione (solo una volta arrivato a Fondo Grande, nell’enorme piazzale che ospita i camper, il mio stomaco si è lasciato andare di brutto). Tre ore di autentica catalessi nel pomeriggio ed un piatto di pasta all’Osteria delle Coe la sera mi hanno stagnato e foderato lo stomaco quanto è bastato per passare una notte di sonno meno agitata del solito. Al mattino, la solita colazione “come se non ci fosse un domani”, ed è stato il momento di raggiungere il ritrovo a Serrada.

Eccoli. Gli O-Maratoneti. Guardateli. Ci sono i campioni che fanno riscaldamento, ci sono i favoriti delle categorie master che si aggiustano le borracce e infilano nelle tasche bustine di gel. Ci sono quelli meno campioni e meno favoriti che si guardano attorno un po’ più smarriti, ma comunque fiduciosi del fatto loro: si sono tutti iscritti ad una categoria “abbordabile”, o comunque quella più congeniale e consueta. Poi ci sono io. Io cerco di salutare tutti, per quanto mi sia possibile, e lo faccio per un unico scopo: non rivedrò tutti quanti al traguardo. Intendiamoci! Nulla di tragico o di ferale!!! No… molti degli O-maratoneti che prenderanno il via, saranno al traguardo due o tre ore prima di me; andranno al ristoro, si cambieranno, scambieranno qualche parere sulla gara, e poi prenderanno la strada di casa. In quel momento io sarò ancora in mezzo al bosco a cercare di spegnere l’incendio nei muscoli, di trovare la concentrazione per scovare le lanterne più infrattate e di trivellare il cuore per convincermi che non sono matto, folle, pazzo… ma che ce la posso fare. Andrà così anche questa volta.

Partenza da Folgaria davanti ai turisti frequentatori dell’isola pedonale, scesi di buon mattino alla “vasca” per comperare il giornale o per un cappuccino al bar. Si parte. Io cerco di stare nella coda del gruppo, di controllare il percorso. Non voglio, non devo!, seguire il ritmo di nessuno, nemmeno quello di Attilio e Roberta che partono sul percorso Master maschile. Il mio percorso è molto chiaro: si sale sopra Folgaria per attraversare i boschetti che conosco bene per averli affrontati in gare sprint o alla prima sprint-relay 2013. Poi lungo trasferimento verso Costa, a risalire i campi da golf fino alla nuvola di punti che stanno sopra alla zona del biotopo di Colpi. Un altro grande trasferimento verso Fondo Grande ed a quel punto siamo nel bosco tra Folgaria e Serrada, ad affrontare dislivelli, discese e tratte in costa. In fondo a questa parte di percorso… l’ignoto: il cambio carta è all’ultimo ristoro a due terzi di gara, dove papà Pezzé ci ha chiesto di arrivare “non più tardi di mezzogiorno”. A prima vista, l’impresa mi sembra impossibile. Con il senno di poi, l’impresa sarà impossibile. Ma ci sarà un ma…


(l'unione delle carte di gara, dal sito www.alessiotenani.it)

Salendo per la linea di massima pendenza sopra Folgaria, vedo la coda del gruppetto di Elite avanti a me. Calcolo in 20 secondi il mio ritardo, accelerando potrei raggiungerli e giovarmi del loro ritmo e trovare le lanterne più facilmente. Ma quella non sarà la mia gara. Li lascio andare. Un angolo acuto nel percorso me li fa incrociare poco dopo: il mio ritardo è salito a 40 secondi circa; Marco Bezzi mi incita ad accelerare ed unirmi a loro, ma non posso farlo. Cerco da solo le mie lanterne, faccio da solo la mia strada, e quando lascio Folgaria per scendere verso Costa vedo davanti a me un gruppetto di Master, tra i quali Attilio e Roberta. Non devo essere andato così piano, se sto raggiungendo qualche master che aveva una prima parte del percorso più corta. Risaliamo i campi da golf e ci portiamo in una zona di bosco molto “sporca”: i rami a terra e la vegetazione scivolosa si fanno sentire nei muscoli più delle salite. Per fortuna che qualche master attardato è ancora in zona… non sarebbe stato facile trovare i punti tutto da solo nelle zone di bosco più fitto.

Poi il lungo trasferimento verso Fondo Grande, e finalmente si arriva al primo ristoro. Qui il dialogo con la figlia di Roberto Sartori è emblematico…
Io: “Scusami per il ritardo… immagino che tu non stia aspettando altro che il mio passaggio per chiudere il ristoro e andare a casa”
Lei: “A dire il vero ci penserà qualcuno a dirmi quando andare via. E comunque non sei tanto indietro: sei il tredicesimo che passa e mi hanno detto che alla partenza eravate un centinaio
Io: “Grazie. Ma guarda che qui passano solo gli Elite. E gli Elite in tutto sono tredici… Ti conviene chiamare al traguardo e chiedere...”.

Secondo trasferimento lungo la deliziosa stradina forestale che collega fondo Grande a Serrada. Cominciano i punti più difficili nel bosco, che continua ad essere parecchio sporco e pieno di ramaglie e felci: i disboschi che devo attraversare lasciano nei miei muscoli più ferite di quanto io non potessi immaginare, e comincio a pensare che forse anche questa volta non ce la farò. Un richiamo dal basso, un’altra atleta master che mi chiede se ho già trovato un certo punto. Poi il nulla, solo il ritmo del mio battito cardiaco, le mie tensioni, la mia concentrazione e la fatica che gestire. 

Ogni tanto, il gesto di strizzare la fascia che protegge i miei occhi dal sudore. Un errore di parallelo terribile mi porta nell’avvallamento sbagliato, in risalita verso la strada asfaltata. Perdo i riferimenti e decido di affrontare una ventine di curve di livello in salita per riportarmi alla forestale e scendere nell’avvallamento giusto piuttosto che vagare a caso auto-convincendomi che so dove mi trovo e che magari è la carta ad essere (come sempre) sbagliata!

Orientisticamente, è una scelta assurda: finisco per impiegare 20 minuti di strazianti fatiche a trovare un punto da 3\4 minuti anche per me e anche in queste condizioni. Mentalmente, è la scelta più saggia, è la prova che so cosa sto affrontando e che non saranno i 15 minuti persi qui ad influire sul risultato finale che mi vedrà comunque al traguardo, se così sarà, attorno alle 5 ore. Dalla forestale, prendere l’avvallamento giusto e trovare la lanterna è un gioco da ragazzi. E’ il momento di affrontare l’ultima parte della seconda tranche del percorso e di raggiungere, se ancora ci sarà qualcuno, il secondo ristoro a due terzi di gara.

Lo vedo dal fondo del sentiero. Papà Pezzé. Mezzogiorno è già passato da un bel po’… probabilmente starà maledicendo chi lo ha messo in quel ruolo, ed ovviamente anche il sottoscritto che si fa attendere oltre ogni possibile ritardo. Lo chiamo da lontano per farmi vedere, sta arrotolando gli striscioni degli sponsor, e poi arrivo finalmente al suo cospetto.

Io: “Ciao, scusami per il ritardo… immagino che sarai qui da un bel po’ ad aspettarmi”
Lui: “scusa di che? Sono qui che mi sto godendo la giornata. Guarda che posticino tranquillo, c’è il sole e fa fresco, non avevo mica voglia di andare via finché non siete passati tutti
Io: “Cosa posso prendere dal ristoro?”
Lui: “Guarda… qui c’è un po’ di tutto. ‘Sto gel qui l’è ‘na roba del Sartori che per me l’è ‘na bomba. Poi gh’è anca ‘na roba lassata qui dal Truffa, e quest’altra la è del Cipriani… la te vòl ti?
Mi: “Mah… se la va ben per el Cipriani, la servirà anca a mi che son ‘no sparzo! Podi ciapar su anca due o tre robe del Sartori?” (scusa Cip se non ti hanno riportato la tua bomba! L’ho presa io!)
Lu: “Ciapa pur su tutt quel che te vòl ti, che mi se no devo riportar su tutt a Serrada

Papà Pezzé. Una sicurezza. Una roccia. Il quel momento ho avuto la conferma che avrei finito la O-Marathon, anche per rispetto verso di lui.

Lu: “Ah! Vara che adess te l’hai quasi finida. Te manca solo ‘na gara middle per finire. Gh’è massa punti da far, ma sta sicuro che se i te trovi, te ‘rivi a Serrada che mi non son manco demò là”.

Incomincia l’ultimo terzo di gara: la middle nel bosco sopra Serrada. Primi punti nel fazzoletto di bosco tra le rocce. Tutto ok. Poi un rumore ed un salto di due metri da fermo. C’è ancora qualcuno nel bosco oltre a me: una tuta del Varese Orienteering che non si capacita di non essere rimasta solissima lungo il percorso! Allora c’è qualcun altro ancora in giro! Punti tranquilli, in sicurezza. Sentieri e bivi quando serve, forme grossolane del terreno per attaccare i punti. Qualche piccola incertezza qua e là, e quando questo accade ogni passo in più comincia a diventare pura sofferenza, ma il traguardo è sempre più vicino e non ho voglia di mollare adesso che sono arrivato sull’ultima carta di gara del percorso. Un lungo trasferimento verso Serrada in una zona nella quale la vegetazione e le ortiche dovevano essere molto più rigogliose prima del passaggio degli altri O-maratoneti (sia benedetto il primo che è passato!). Ecco Serrada, qualche punto nella zona residenziale, più facile di altri ma ormai le energie sono al lumicino.

Al lumicino, ma qualcosa deve sempre rimanere in vena perché il penultimo punto del percorso, quando ormai comincio a sentire in lontananza i rumori del campo sportivo dove è posto l’arrivo, è infognato in un avvallamento introvabile al primo passaggio ed al secondo passaggio. Ma dico io, penso tra me… ma proprio un punto così impestato nel fitto del bosco dovevano andare a mettere come penultimo punto prima della volata? Al terzo passaggio la lanterna compare davanti a me come per magia: ogni volta mi chiedo come ho fatto a non vederla prima, come se un folletto l’avesse fatta sparire e poi me l’avesse fatta ricomparire davanti all'improvviso solo per bearsi della mia desolazione e del mio stupore. Da lì in poi, occorre solo lasciare andare le gambe (senza sbagliare sui bivi dei sentieri) fino al traguardo… in salita!

Lo scarico della sicard stavolta è una formalità. La mia strisciata dei tempi farebbe rabbrividire un campione, farebbe ritornare dall’aldilà Vladimir Pacl ad impedire la diffusione dell’orienteering in Italia onde evitare che uno come me potesse anche solo pensare di provarci, dovrebbe spingere il Gronlait Orienteering Team ad introdurre una postilla nel regolamento che dice che l’Elite è riservata ad un certo tipo di soggetti, e che mica tutti possono pensare di farla. Ma è il MIO scarico della sicard. Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta anche questa volta! Attorno alle 5 ore, un tempo da vergognarsi… ma non me ne vergogno affatto. E’ la prova della MIA O-Marathon, della MIA avventura lunga un giorno.

Una avventura che dura da 7 anni, e che continuo a portare con me ogni volta che vado in un bosco a cercare una lanterna.

Addio 2015. Sei stato faticoso, mi hai fatto dannare e maledire certi momenti nei quali in gara non sono riuscito a raccapezzarmi. Ma mi hai regalato questa perla.

Addio 2015.

Benvenuto 2016.
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